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Immigrazione, imprenditoria: una significativa realtà nell’Italia del 2000

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Vincitori del Premio Imprenditoria straniera 2019 Money Gram

di Giuseppe Bea, Paolo Iafrate e Franco Pittau

Questo saggio sugli imprenditori immigrati in Italia non si limita a fornire un aggiornamento sui dati statistici recenti, ma ne spiega anche la sorprendente evoluzione nel corso degli anni ‘2000, quando invece le imprese degli italiani hanno iniziato a diminuire. Questo importante aspetto del fenomeno migratorio viene analizzato sotto l’aspetto socio-statistico, giuridico, organizzativo ed economico. Gran parte della documentazione utilizzata è stata prodotta dal Centro Studi e Ricerche Idos, che da molti anni dedica all’imprenditoria immigrata un capitolo nelle edizioni annuali del Dossier Statistico Immigrazione e, inoltre, dal 2014 pubblica annualmente il Rapporto Immigrazione e Imprenditoria in collaborazione con altre organizzazioni (CNA e OIM, UNAR e, in precedenza, anche MoneyGram Italia e, già nel 2009, la Fondazione Etnoland). Questo spiega perché sia rilevante l’attenzione che in tale documentazione (e anche in questo saggio) viene riservata agli aspetti pratici dei percorsi imprenditoriali.

Il presente studio si propone di offrire un’articolata visione d’insieme del fenomeno e di ciò ha tenuto conto l’articolazione dei paragrafi. Le aziende degli immigrati, anche se di ridotte dimensioni, hanno costituito nel volgere di due decenni una grande realtà che equivale a un decimo dell’intera imprenditoria nazionale. Le conclusioni, dopo questo ampio esame, sollecitano un maggiore apprezzamento di questo fenomeno e del suo contributo al “sistema Italia”.

francL’imprenditoria immigrata nel contesto italiano

Una breve premessa sull’andamento dell’economia italiana dagli anni ’70 in poi (cioè da quando è iniziato il fenomeno dell’immigrazione dall’estero) è funzionale alla presentazione dl contesto in cui si è inserita l’imprenditoria degli immigrati. Negli anni ’70, le imprese di ridotte dimensioni si sono in larga misura sostituite a quelle grandi nell’essere di supporto allo sviluppo. Negli anni ’80 le profonde ristrutturazioni industriali hanno consentito alle medio-grandi imprese notevoli recuperi di efficienza e redditività. Negli anni ’90, tuttavia, le grandi imprese hanno registrato una battuta d’arresto e, anziché investire sull’innovazione tecnologica, hanno ripiegato su settori meno esposti alla concorrenza internazionale. A loro volta le piccole e medie imprese hanno subìto, nei settori del loro tradizionale impegno (beni di consumo e intermedi) la concorrenza dei Paesi in grado di produrre a basso costo senza poter più ricorrere come prima alla svalutazione o della lira in previsione della moneta unica europea (entrata in vigore dell’euro il 1° gennaio 2002).

Nella prima decade degli anni 2000 si riscontra in Italia un basso tasso di crescita rispetto ai Paesi industrializzati. Di fronte alle fragili strutture economiche venne auspicato, con amara arguzia, che era ormai il caso di produrre “qualche pentola in meno e qualche chip in più” [1]. Nella seconda decade degli anni ‘2000 la grande crisi del 2008 ha ulteriormente peggiorato una situazione già di per sè critica e ha evidenziato l’incapacità di assorbire gli effetti della crisi e recuperare quanto meno il livello pre-crisi. L’Italia appare molto attardata a livello di ricerca e di innovazione e incapace di attirare gli investimenti esteri. Per giunta il nostro Paese non è in grado di attirare gli investimenti esteri e di trattenere le sue giovani leve più qualificate [2].

Pur con le sue carenze strutturali, il mercato occupazionale italiano ha avuto bisogno della manodopera immigrata, la cui consistenza è aumentata notevolmente negli anni ‘2000. Gli immigrati sono andati assicurando un supporto all’economia nazionale, come lavoratori dipendenti, come consumatori e infine come imprenditori. Infatti, negli anni ‘2000 essi sono diventati protagonisti anche con le loro imprese che, seppure di dimensioni ridotte (molto spesso unipersonali), hanno avuto una crescita straordinaria.

Gli anni ‘2000 sono anche quelli della delocalizzazione di diverse attività produttive delle aziende italiane, interessate a fruire all’estero di condizioni più favorevoli sotto l’aspetto fiscale e amministrativo. Ciò ha suscitato l’interesse anche di piccole e medie aziende, anche se da tempo si va constatando che la delocalizzazione non costituisce la soluzione sostanziale dei problemi di sviluppa del Paese [3]. Gli imprenditori stranieri, che si è cercato di incentivare con un’apposita norma, non preferiscono l’Italia per i loro investimenti e piuttosto si mostrano interessati a rilevarne i marchi famosi [4].

it_distribuzioneterritorialeI dati

Per i dati sull’imprenditoria a gestione immigrata si fa riferimento al Centro Studi e Ricerche IDOS, che dal 2015 pubblica il Rapporto immigrazione e imprenditoria insieme alla Confederazione Razionale dell’Artigianato delle Piccole e Medie Imprese (CNA), con il supporto prima di MoneyGram e poi dal 2002 dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM). Dell’articolata analisi condotta dal Centro IDOS vengono qui riportati solo quelli ritenuti necessari per individuare le linee tendenziali dell’imprenditoria immigrata

Anche nel 2018 è continuato l’aumento annuale delle imprese degli immigrati (15 mila in più al netto di quelle che sono cessate), mentre il numero delle aziende italiane ha continuato a diminuire (5500 unità in meno). Questa dinamica positiva non si è mai arrestata neppure dopo la grande crisi mondiale del 2008: tra il 2011 e il 2018 le aziende degli immigrati sono aumentate di 148 mila unità, al contrario, quelle gestite da italiani sono diminuite di 158 mila unità. Le imprese a gestione immigrata, ormai un decimo del totale, hanno superato le 600 mila unità (602.180) e in un caso su quattro hanno le immigrate come titolari, oltre tutto in più forte aumento rispetto a quelle degli uomini il concetto di pari opportunità sta portando le donne a operare in aziende una volta considerate appannaggio esclusivo dei maschi.

immagine-3-per-apertura-22-dicIl protagonismo degli immigrati si concentra maggiormente nel commercio (oltre un terzo del totale), il settore più dinamico insieme agli altri comparti dei servizi, e in edilizia (oltre un quinto del totale, nonostante la crisi), mentre le imprese del settore industriale devono affrontare maggiori difficoltà. A segnalarsi con aumenti più alti sono le attività di noleggio, agenzie di viaggio, servizi alle imprese, alloggio e soprattutto di ristorazione. Nei servizi alle imprese si registra l’incidenza più elevata di quelle immigrate (17,0% delle imprese del comparto).

La forma d’impresa più diffusa, in quasi 8 casi su 10 (77,7%), è quella individuale a riprova della fragilità di questo impegno imprenditoriale. Tuttavia, sono in forte crescita le società di capitali, per quanto ancora non molto numerose (85mila unità) e, specialmente nei servizi, le imprese cooperative [5]. Si riscontra una maggiore, seppure ancora limitata, partecipazione degli immigrati alle start-up innovative: 1.652 alla fine del 2018 e con almeno un immigrato nella compagine societaria, pari al 2,5% del totale.

Le comunità immigrate maggiormente protagoniste, con quote di poco superiori al 10% del totale, sono quella marocchina, cinese e romena: la prima si distingue nel commercio, la seconda anche nel manifatturiero e la terza in edilizia. La distribuzione degli immigrati imprenditori è fortemente disuguale perché il 77,4% opera nel Centro-Nord Italia. Tuttavia, in alcuni contesti meridionali la tendenza all’aumento di queste imprese è molto marcato. Nel Nord solitamente il settore prevalente è quello edile, mentre nel Centro e nel Meridione quello commerciale.

tavolaIl dinamismo imprenditoriale degli immigrati negli anni della crisi

Prima del 1990, anno dell’entrata in vigore della legge n. 39 (la cosiddetta “legge Martelli”), per poter divenire imprenditore in Italia, anche semplicemente artigiano o commerciante, bisognava essere originari di un Paese legato all’Italia da un accordo di reciprocità in materia di lavoro autonomo, condizione realizzata solo dai Paesi CEE e da quelli a sviluppo avanzato. Per questa ragione il protagonismo imprenditoriale degli immigrati non comunitari fu praticamente precluso [6].

Un’apertura si ebbe con la citata legge del 1990, che però attribuì espressamente la possibilità di esercitare un lavoro autonomo agli immigrati regolarizzati, lasciando in dubbio la sua estensione anche immigrati già residenti. La tesi favorevole all’estensione fu avallata dalla Corte di Cassazione solo a distanza di molti anni, quasi alla vigilia della successiva legge n. 40 del 1998 che attribuì espressamente a tutti gli immigrati residenti in Italia la possibilità di esercitare un lavoro autonomo a prescindere dall’esistenza di un accordo di reciprocità.

I primi protagonisti di un lavoro autonomo /imprenditoriale, oltre ai cittadini provenienti da Stati membri della Comunità Europea o dagli Stati aderenti all’OCSE (presenti in Italia più per ragioni professionali che per l’esercizio di un’attività aziendale), furono quindi gli immigrati regolarizzati della legge Martelli, in pratica quelli per lo più orientati a svolgere un’attività come venditori ambulanti o come titolari di qualche negozio di prodotti etnici.

Se all’inizio del 1990 gli immigrati in Italia erano circa mezzo milione, nel 2000 erano diventati 1.340.000, ma, nonostante l’aumento numerico intervenuto, la normativa restrittiva impedì lo sviluppo della vocazione imprenditoriale degli immigrati: furono solo sulle 5.700 le imprese intestate agli immigrati prima del 1990, alle quali se ne aggiunsero 28 mila nella decade successiva. Tra il 2000 e il 2007 (anno significativo in quanto antecedente lo scoppio della crisi mondiale), la popolazione immigrata raddoppiò sia seguito della grande regolarizzazione del 2002 (poco più di 700 mila persone) sia in conseguenza delle quote annuali per ingresso lavorativo, portate a 170 mila l’anno e potenziate nel 2006 con una quota suppletiva di 350 mila unità.

it_impreseperformaLa modifica della normativa nel 1998 e l’aumento numerico intervenuto in quel periodo non mancarono di influire sulla dimensione quantitativa dell’imprenditoria immigrata. Al 31 dicembre 2007, secondo l’archivio di Unioncamere, gli imprenditori nati all’estero titolari di impresa erano 225.408, così ripartiti [7]: lo 0,6% aveva iniziato l’attività imprenditoriale entro il 1979, il 2,2% tra il 1980 e il 1989, il 12,4% tra il 1990 e il 1999 e l’84,9% dal 2000 in poi. Queste percentuali attestano che il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata è iniziata a partire dal 2000 quando, approvato il Regolamento di attuazione della legge n. 40/1998 [8]. le disposizioni sul superamento delle barriere in materia di lavoro autonomo sono diventate pienamene operative.

Tra il 2000 e il 2007 gli immigrati hanno costituito 191mila imprese con un ritmo crescente pari a 24 mila al mese, con una media superiore a quella riscontrata tra gli italiani. Pertanto, ipotizzare l’aumento di altre 200 mila imprese gestite da immigrati, come fatto dalla Fondazione Ethnoland nel 2007, era un auspicio ragionevole (e in effetti raggiunto e superato in meno di un decennio).

libroIl termine “imprenditore immigrato” merita una precisazione in ragione della sua ambiguità. Questo fu il compito della collaborazione instaurata tra la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e delle Piccole e Medie Imprese (CNA) e il Centro Studi e Ricerche IDOS nel capitolo sulle imprese degli immigrati, che insieme curarono per le edizioni annuali dl Dossier Statistico Immigrazione. La CNA ottenne da Unioncamere che, tra tutte le imprese registrate a nome di persone nate all’estero, si estraessero quelle che avevano effettivamente come titolare un cittadino straniero. Nel 2007, tra le 225.408 imprese immigrate solo i tre quarti (165.114) risultarono intestate a stranieri.

Questa distinzione fu utile per far capire che, in un Paese di tradizionale emigrazione, immigrato e straniero non dovevano identificarsi, perché il termine poteva includere anche gli italiani rimpatriati. In effetti, prima che venisse sottolineata tale distinzione, in diversi rapporti provinciali sull’immigrazione si additavano i tedeschi o gli svizzeri (o i cittadini di altri Paesi europei) tra i principali protagonisti dell’imprenditoria immigrata: in realtà si trattava solo di italiani rimpatriati da questi Paesi. Col tempo, però, IDOS e CNA si resero conto che l’archivio delle Camere di Commercio non era sempre in grado di registrare il dato sulla cittadinanza straniera degli imprenditori. Questo sottodimensionamento in qualche misura riguardava anche i dati relativi al 2007: a questa conclusione si arriva se si fa riferimento all’archivio ISTAT sui rimpatri, ridottisi fortemente a partire dagli anni ’80 (30 mila/40 mila l’anno), e se si tiene anche conto dell’età solitamente avanzata di quelli rientrati in quel periodo e anche di quelli tornati in Italia nella prima fase del dopoguerra. Per questo motivo il Centro IDOS e la CNA, nel Rapporto Immigrazione e Imprenditoria, la cui prima edizione annuale è del 2015, hanno preso in considerazione tutti gli
“imprenditori immigrati”, con l’avvertenza che una modesta quota è costituita da italiani rimpatriati e, da ultimo, anche da stranieri ormai di cittadini italiani. Mentre l’inizio del 2008 le imprese gestite da immigrati influivano nella misura del 3,6% sul totale imprese attive (225.408 su 6169.126), alla fine del 2018 l’incidenza è aumentata al 9,9%.

sidibe_yogurtSociologia della imprenditoria immigrata

In Italia l’imprenditoria immigrata ha iniziato a svilupparsi in misura consistente dopo l’approvazione della legge 40/1998, richiamando l’attenzione dei sociologi. I Paesi di tradizionale immigrazione, sia in Nord America che in Europa, avevano conosciuto questo fenomeno già in precedenza ed è comprensibile che le prime teorie interpretative al riguardo siano nate in quei contesti, specialmente negli Stati Uniti. Di seguito si farà cenno a quelle teorie e poi si si riferirà sulle interpretazioni sociologiche elaborate in Italia tra il finire degli anni ’90 e gli anni ‘2000. Riferire sui numerosi studi successivi non rientra nell’economia di questo saggio, che si limita a porre in evidenza gli spunti che aiutano il lettore a leggere in maniera non frammentaria l’imprenditoria degli immigrati in Italia [9].

Rispetto alle teorie elaborate sulle emigrazioni d’élite svoltesi fino alla metà del XIX secolo è evidente il loro significato di prevalente interesse storico, trattandosi di realtà migratorie dalle caratteristiche diverse da quelle che contraddistinguono le migrazioni di massa. Anche per questi flussi migratori è necessario precisare non solo la differenza di quelli svoltisi prima della Seconda guerra mondiale e quelli postbellici (all’interno dei quali si distinguono gli ultimi decenni permeati da un’intensa globalizzazione), ma bisogna anche precisare che, a seguito delle caratteristiche dei diversi contesti che ovviamente hanno influito sull’inserimento delle comunità immigrate, gli orientamenti evidenziati in un Paese non possono considerarsi automaticamente riferibili a un contesto nazionale diverso, ad esempio dagli Stati Uniti all’Italia.

Un tratto che accomuna tutti gli studi è l’apprezzamento dell’imprenditorialità degli immigrati. Werner Sombart [10], nei suoi approfondimenti sulle origini del capitalismo e della società occidentale moderna, riconosce un ruolo fondamentale alla figura dello straniero imprenditore, ritenuta cruciale per lo sviluppo. Egli identifica nelle minoranze straniere il fulcro centrale per i cambiamenti economici e sociali. Gli immigrati, poiché non fanno parte della maggioranza conformista e tradizionalista, sono soggetti a uno stato di esclusione che innesca il cambiamento. Questa analisi si riferisce all’immigrazione svoltasi nel XVIII e nella prima metà del XIX secolo, quando a espatriare erano delle élite culturali, solitamente titolari di una buona posizione economica, costretti a farlo per motivi politici e religiosi, cercando con il successo il riscatto all’estero, anche a costo di andare spesso controcorrente

Per Sombart lo straniero, non essendo legato alle tradizioni conformiste del Paese di accoglienza, concentra in sé i tratti tipici dell’imprenditore capitalistico e cioè il senso degli affari, lo spirito d’iniziativa, la capacità d’innovazione, il gusto del rischio, la propensione ai contatti internazionali e uno spiccato senso del risparmio.

Nell’esperienza italiana gli emigrati di quel periodo furono dei singoli esuli, diventati tali a seguito del soffocamento dei moti risorgimentali. Ad essi l’analisi di Sombart si adatta poco: ad esempio, negli Stati Uniti Filippo Mazzei fu un imprenditore amico del Presidente Jefferson e di alti eminenti politici e altri, in ragione della loro alta preparazione, svolsero la funzione di consoli (così fu poi anche per Mazzei quando ritornò in Europa). Un caso, con qualche analogia a quanto delineato da Sombart, fu quello del gruppo dei valdesi, perseguitati in Piemonte, che si trasferì prima nei Paesi Bassi e poi in Olandaf6998bd430a475eed7fd40fd0f3e5f62_xl [11].

Successivamente, col modificarsi delle caratteristiche dell’insediamento degli immigrati, sono mutate anche le interpretazioni riguardanti il loro coinvolgimento imprenditoriale. E’ stata inizialmente dedicata un’attenzione prevalente alle loro differenze come comunità immigrate, facendone derivare le motivazioni e i percorsi. In una seconda fase sono state studiate le connessioni tra imprenditoria immigrata e sistemi economici delle società. Infine sono stati presi in considerazione anche i fattori istituzionali che possono favorire la creazione delle piccole imprese.

Gli studiosi hanno iniziato con il sottolineare che il background socioculturale, religioso, professionale influisce sul loro percorso imprenditoriale, come nel caso degli, ebrei, una comunità molto coesa, e dei giapponesi, segnati dalla tradizione confuciana. Quindi si è passati a formulare ipotesi sullo svantaggio degli immigrati, portati a orientarsi sul lavoro autonomo come un rimedio rispetto alle difficoltà di inserimento nel mercato occupazionale. Come fattori dello svantaggio sono stati indicati la scarsa padronanza della lingua, il ridotto livello di scolarizzazione, il mancato riconoscimento della professionalità acquisita e le diverse discriminazioni, elementi che nell’insieme pregiudicano un normale accesso al lavoro, lasciando a loro disposizione gli spazi non appetibili perché poco redditizi e caratterizzati dalla precarietà. Secondo la teoria della mobilità bloccata gli immigrati, trovandosi in una posizione svantaggiata per farsi valere negli usuali percorsi del lavoro dipendente, tendono a impegnarsi nel lavoro autonomo, e più sono stati svantaggiati, più sono motivati a seguire questa via alternativa.

In certi contesti hanno indirizzato al lavoro autonomo l’espulsione dalle aziende industriali e la conseguente disoccupazione. Questo è quanto avvenne in Europa negli anni ’70 in concomitanza con l’avvio del processo di ristrutturazione del sistema industriale, un periodo in cui gli immigrati si impegnarono nella creazione di piccole imprese, che sembravano destinate a sparire nel periodo della produzione di massa.

La teoria della mobilità bloccata è stata criticata per non aver tenuto sufficientemente in considerazione le caratteristiche dei singoli contesti nazionali e delle singole collettività, motivo per cui non tutte tra esse si impegnano nel lavoro autonomo. La teoria di middleman minorities è stata formulata con riferimento agli immigrati che si dedicano ai servizi commerciali e finanziari, e si rivolgono a una comunità numerosa che opera in aree urbane disagiate. Le comunità di riferimento erano quella italiana e quella ebraica negli Stati Uniti, poi sostituite da coreani e cinesi. La promozione di questa imprenditorialità si basa sulla solidarietà esistente tra i membri della comunità, anche per il reperimento delle risorse necessarie e per la resistenza all’assimilazione, per cui ne derivano la segregazione residenziale e il mantenimento dei tratti distintivi. La gestione di questa attività è paternalistica, richiede lunghi orari di lavoro, non tecnologizzato bensì labour intensive e in grado di ridurre i costi.

La teoria della successione ecologica ha ritenuto che la piccola borghesia impegnata in attività imprenditoriali non abbia la capacità di riprodursi in maniera adeguata e abbia avuto bisogno degli immigrati come propri successori, disposti a operare nei settori più pesanti e arischio e nei quartieri più a rischio.

stranieri-lavoro-2Negli anni ’80 è stata formulata la teoria delle economie di enclave. Il riferimento è a quelle economie ad alta concentrazione di imprese gestite da immigrati. Si è di fronte a mercati del lavoro distinti, difficilmente permeabili tra di loro. Gli immigrati si concentrano nel settore “secondario”, quello cioè delle attività più precarie e faticose, meno confacenti alle attese dei lavoratori nazionali. L’alternativa per sfuggire all’inclusione nel mercato del lavoro secondario, quello più emarginato, consiste nel costituire delle impresse nelle vicinanze delle comunità etniche. Queste imprese offrono, solo al proprio gruppo, prodotti specifici e difficilmente reperibili, e poi alla popolazione in generale. Capitali, protagonisti, clienti. Tuttavia queste imprese, potenziandosi e diversificandosi, sono in grado di rivolgersi anche agli autoctoni.

La teoria del modello interattivo ha collegato in modo organico lo sviluppo dell’imprenditoria etnica con le esigenze dei sistemi economici avanzati, cercando di controbilanciare l’eccessiva importanza assegnata dalle teorie culturaliste alle risorse etnoculturali dei gruppi, mentre devono essere presi in considerazione anche al di là dei vincoli politico-economico.

Come si vede, le prima teorie hanno dato adito a ulteriori approfondimenti nella formazione di teorie composite, che hanno ripreso, in parte valorizzandoli e in parte modificandoli, i precedenti approfondimenti.

nuovaTipologia delle imprese degli immigrati nel contesto italiano

Queste teorie sono state formulate sulla base delle esperienze estere, in particolare di quella statunitense. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 anche in Italia sono stati pubblicati importanti studi sull’imprenditoria immigrata, che ovviamente tengono conto delle precedenti teorie, basandole, però, nella specificità del contesto italiano [12]. Maurizio Ambrosini ha fornito una ripartizione tipologica delle imprese a gestione immigrata. In questa tipologia si ritrovano forme che erano prevalente all’inizio della presenza straniera in Italia e altre legate alla successiva evoluzione:

impresa tipicamente etnica: rivolta ai bisogni di una comunità immigrata con la fornitura di prodotti o servizi specifici;

impresa intermediaria: una sorta di mediazione per la fornitura di prodotti non tipicamente etnici come traduzioni e consulenze legali, e attività di servizi quali i phone centers, le agenzie di viaggio, di money transfer, di intermediazione finanziaria e immobiliare, commercio di prodotti dall’estero:

 impresa etnica allargata:  finalizzata alla fornitura di prodotti a una clientela mista (immigrati e autoctoni) per poter avere un numero adeguato di clienti che garantiscano la sopravvivenza;

impresa prossima: rivolta alla fornitura di servizi specifici per la popolazione immigrata ma anche in grado di attirare gli autoctoni, come ad esempio nel caso di vendita di biglietti per destinazioni extraeuropee;

impresa esotica: finalizzata a fornire  prodotti derivanti dalle tradizioni culturali del Paese di origine. Da Martinelli si rilevano queste specificazioni: oggetti, ingredienti, sapori, immagini, codici linguistici e riferimenti di vario genere che hanno significati simbolici particolari per i consumatori. Le attività di questo tipo si collocano nella ristorazione, nell’alimentazione, nell’abbigliamento e nell’arredamento, nella musica;

impresa aperta: impegnata nella produzione di beni e servizi senza connotati etnici specifici, anche in concorrenza con le imprese degli autoctoni, sia nei servizi che nella produzione industriale;

Imprese rifugio o marginali: di questa ulteriore categoria, secondo Succhetti, il tipico esempio è l’ambulantato.

Nelle linee di seguito proposte per la lettura dell’imprenditoria etnica in Italia, oltre agli spunti desunti dalle teorie classiche sull’argomento formulate nel mondo anglosassone e a quelle proposte dai pochi autori citati in nota, si tiene conto anche degli apporti forniti da altri autori succedutisi nel corso degli anni 2000, durante i quali l’imprenditoria immigrata si è imposta all’attenzione come una realtà rilevante a partire dalla sua considerevole crescita quantitativa.

Riferendosi al contesto mondiale la Sassen è arrivata a sostenere che l’attività imprenditoriale degli immigrati costituisce ormai uno dei caratteri distintivi delle nuove economie metropolitane [13]. Sembra però esagerato ritenere che la figura dell’imprenditore abbia soppiantato quella dell’operaio immigrato, tipica ai tempi della produzione di massa. Gli imprenditori, pur con la loro crescente importanza, continuano a essere una minoranza, seppure cospicua, tra gli immigrati inseriti nel mondo del lavoro.

 Per dissuadere da una lettura semplicistica va premesso che il funzionamento dell’economia dipende da molteplici fattori, quali l’applicazione delle norme, la funzionalità delle istituzioni, le caratteristiche dei contesti sociali di accoglienza, il patrimonio socioculturale dei protagonisti e la loro intraprendenza individuale, senza trascurare il sostegno della comunità di appartenenza

imprese-straniereAspetti specifici del contesto italiano: gli ostacoli [14]

Se si considera l’evoluzione della imprenditoria in un indicatore di integrazione degli immigrati, si constata che il processo di inserimento economico si è sviluppato molto più velocemente rispetto all’inserimento nella società, che comporta una maggiore disponibilità da parte degli italiani. La reazione più significativa, in un Paese trasformatore come l’Italia e ad alta tecnologia in molti settori, è stata conseguita da quegli imprenditori che con i loro prodotti hanno saputo interpretare i nuovi bisogni della società, acquisendo molti clienti italiani, ricorrendo anche all’innovazione tecnologica. Questa fase è stata ormai avviata nonostante le difficoltà tipiche del contesto italiano: crescita bassa, credito difficile, burocrazia pesante, maggiori difficoltà per le piccole e medie imprese. Di notevole pregiudizio può essere la ridotta dimensione delle aziende, molto spesso unipersonali; tuttavia, un adeguato ricorso alla tecnologia e a internet può consentire di abbassare i costi sia in fase di produzione che di commercializzazione.

Questo eccezionale protagonismo è stato solo un po’ rallentato ma non soppresso dagli effetti della crisi mondiale del 2008. Anzi, gli imprenditori immigrati si sono maggiormente inseriti nei comparti in parte considerati meno appetibili dagli autoctoni, dall’edilizia al settore turistico-alberghiero e in diversi rami dell’industria, realizzando anche in diversi casi obiettivi più ambiziosi e superando difficoltà maggiori in quanto stranieri. A livello di difficoltà il differenziale consiste nelle procedure per il riconoscimento dei titoli di studio, nel fatto di doversi confrontare con un’altra lingua, nella necessità di riqualificarsi per adattarsi al nuovo contesto e di reperirvi i clienti, nell’impratichirsi nella legislazione del posto, nei contatti con le strutture pubbliche. Il differenziale etnico consiste anche nella loro maggiore capacità di superare gli ostacoli.

Grave è stato e continua ad essere il reperimento dei finanziamenti necessari. Purtroppo gli immigrati non sono in grado di fornire le usuali garanzie alla pari degli italiani e non sempre sono sufficienti gli aiuti reperiti all’interno della propria comunità, per cui molte valide potenzialità imprenditoriali restano inespresse. Bisogna tenere conto, su un piano più generale, che il contesto più favorevole, da considerare necessario per lo sviluppo ottimale delle imprese, non consiste solo in disposizioni di legge e in misure amministrative ma anche in una mentalità più sensibile al ruolo imprenditoriale.

stranieri-imprenditori-un-trend-in-crescita-anche-in-italiaPercorsi imprenditoriali

Tenendo conto sia delle riflessioni sociologiche e di quanto emerso delle ricerche sul campo, è possibile riassumere gli aspetti essenziali dell’esperienza italiana [15]. Va precisato che la qualifica di imprenditore spetta tanto a chi è titolare di aziende di una certa consistenza (fino a 50 dipendenti per potere essere inclusa nel settore dell’artigianato) che a quelle unipersonali. Queste le caratteristiche principali:

  • la disponibilità degli immigrai ad affrontare qualsiasi fatica pur di riuscire, con l’orgoglio di poter poi affermare di non aver “rubato” il posto di lavoro agli italiani ma di averlo creato;
  • la rigidità della normativa che fa propendere un certo numero di immigrati a operare come lavoratori autonomi per assicurarsi la garanzia del soggiorno;
  • l’umile inizio della loro storia imprenditoriale con i  marocchini approdati nel Sud che iniziarono a praticare l’ambulantato, il che portò gli italiani a qualificare sbrigativamente tutti gli immigrati come “vu’ cumprà;
  • per il successivo avvio di attività autonome sono state utili le competenze acquisite come lavoratori dipendenti o attraverso corsi professionali;
  • l’apprezzamento del lavoro autonomo come possibilità di porre fine ai disagi e alle angherie subìte da parte di trafficanti degli esseri umani prima e dei caporali dopo, come alla subalternità sperimentata all’interno delle aziende;
  • l’inserimento nel settore autonomo-imprenditoriale come rimedio giuridico all’incertezza di poter rinnovare il permesso di soggiorno come lavoratori dipendenti;
  • la possibilità del singolo immigrato di affermarsi anche secondo modalità lontane dal gruppo di appartenenza, nonostante usualmente l’appartenenza al gruppo determini una certa omogeneizzazione;
  • l’importanza delle agevolazioni pubbliche per intraprendere l’attività autonoma (riduzione delle tasse, incentivi e prestiti nella fase di avvio), senza sottostimare, in molti casi, che il sostegno della comunità di appartenenza può essere determinante;
  • la diversa capacità di resistenza e di affermazione degli immigrati rispetto agli autoctoni, seppure sobbarcandosi a orari estenuanti e spesso sottopagando il personale che aiuta;
  • il ridimensionamento del pregiudizio che per gli immigrati le iniziative riescano sempre bene, dimenticando che tra di loro è alto il numero delle chiusure delle attività anche a seguito di fallimento;
  • la strategia di praticare bassi costi al fine di poter contattare e acquisire un maggior numero di clienti, migliorando tra l’altro nelle relazioni quotidiane la conoscenza della lingua italiana;
  • la probabilità che le seconde generazioni non siano disposte a continuare le iniziative autonome che i genitori hanno condotto con esito positivo ma con grandi sacrifici;
  • l’importanza dell’istruzione per riuscire ad operare in ambiti più impegnativi e più tecnologizzati;
  • l’assoluta preminenza delle doti personali, a prescindere dalle caratteristiche della comunità di appartenenza, per riuscire ad affermarsi con imprese innovative;
  • la necessità di rendere più favorevoli, per le imprese sociali, le modalità di partecipazione ai progetti e ai programmi di sostegno, attenuando la priorità accordata alle imprese con lunga esperienza e con elevati budget;
  • la propensione a questo impegno favorita da diverse comunità di appartenenza, per cui di fatto alcuni gruppi nazionali primeggiano per numero di lavoratori autonomi, salvo salvo restando che la vocazione può dipendere anche da stimoli recepiti nel contesto italiano;
  • il gruppo di appartenenza può essere, con le sue imprese, la palestra in cui i futuri imprenditori possono esercitarsi inizialmente come lavoratori dipendenti per poi dare vita alla loro attività propria nello stesso ambito.

Questa sintetica distinzione per punti merita di essere completata con qualche annotazione. Il termine “imprenditoria immigrata”, qui volutamente utilizzato, è più adeguata rispetto a “imprenditoria etnica”, che fa riferimento solo ad alcune tipologie di attività da essi svolte; definizione che poteva essere accettata solo nella fase del primo inizio dell’imprenditoria immigrata, quando in prevalenza i clienti erano gli stessi immigrati e i prodotti messi a disposizioni erano tipici dei Paesi di origine.

Il problema del credito per le piccole e medie aziende è veramente cruciale, perché le banche, considerata la complessità delle relative pratiche, hanno interesse a concedere mutui non inferiori a una certa somma (attorno ai 100 mila euro), mentre per le piccole e medie imprese solitamente è sufficiente un credito pari a un terzo (o anche meno) di tale importo. Perciò le strutture abilitate a trattare il mediocredito andrebbero più adeguatamente supportate con fondi pubblici di garanzia così da incentivare l’iniziativa imprenditoriale sia degli italiani che degli immigrati.

“Le imprese rosa” delle donne straniere meritano una più attenta considerazione sia per il ritmo più elevato di crescita sia per altri motivi. La via femminile all’imprenditoria è più difficile, tanto tra gli italiani quanto tra gli stessi immigrati, per i pregiudizi che persistono nei confronti del ruolo femminile. Per essere imprenditrici ci vuole più tenacia per riuscire a sfruttare le opportunità che si presentano in diversi comparti del commercio, dell’artigianato e dei servizi, Le immigrate, sfatando una concezione stereotipata del loro ruolo all’interno delle loro comunità di appartenenza, che le qualificava come passive e subalterne, sono diventate attive anche in comparti che per tradizione si consideravano appannaggio degli uomini.

Per completezza del discorso, anche se qui non viene condotto uno specifico approfondimento, va aggiunto che l’imprenditore immigrato svolge una funzione economica non solo a beneficio del Paese che lo ha accolto ma anche del Paese di origine, non solo con l’invio delle rimesse ma, spesso, anche con attività ch costituiscono un ponte tra i due Paesi: per quanto in una fase ancora non sufficientemente sviluppata, queste virtualità costituiscono una speranza per il futuro, specialmente se le seconde generazioni, più a loro agio nel sistema socio-culturale del Paese che li ha accolti e anche a conoscenza delle caratteristiche del Paese di origine dei loro genitori, sentiranno a loro volta la vocazione imprenditoriale.

571692L’artigianato e le imprese artigiane tra tradizione artistica e futuro tecnologico

Per esaminare in profondità il settore artigianale bisogna affrontare vari aspetti: la legislazione del settore, la considerazione da parte dell’opinione pubblica, la praticabilità degli antichi e dei nuovi mestieri, il ricorso alle tecniche digitali e le possibilità occupazionali che ne possono derivare e insieme all’impatto economico [16].

Innanzi tutto va ribadita la saggezza insita nel criterio di affrontare il futuro, tenendo conto del passato, di modo che l’attenzione all’artigianato non assuma una connotazione prettamente nostalgica. La tradizione artigianale italiana è tuttora in grado di farsi valere per ingegno creativo e professionalità che assicurano prodotti di nicchia, apprezzati da clienti, italiani e stranieri. Per la grande industria la tecnologia e l’innovazione coincidono sempre di più con l’automazione, mentre per l’artigianato essa è finalizzata al potenziamento della capacità espressiva dell’artigiano e all’alta qualità del prodotto. Anche quando vengono utilizzati dei macchinari, nei processi produttivi prevale la manualità.

Sussiste una certa analogia con i prodotti alimentari italiani, quali, genuini e prelibati per il loro livello di qualità, dovuto alle caratteristiche dei campi e del bestiame, ai sistemi di coltivazione e di allevamento e all’arte (un misto di tradizione e di modernità) di confezionare i prodotti [17]. La cultura della “bottega” assicura ancora la trasmissione delle competenze artigianali di eccellenza.  L’artigianato artistico, che aggiunge raffinatezza alla manualità professionale, è ricercato anche in questo periodo di globalizzazione e produzione in serie e viene prodotto da aziende in crescita e assicura un sostegno all’occupazione e all’economia italiana [18].

Tuttavia l’attività non è spesso facile per tutti gli artigiani. Essi operano sovente come dei free lance (quasi sempre a casa) e, per sopravvivere, hanno compreso di dover ricorrere alla tecnica digitale all’e-commerce. L’artigianato artistico include diversi comparti: ceramica, gioielleria, la moda (dal tessile al ferro battuto), vetro, il marmo, ebanisteria, affresco, calzoleria, pelletteria fino a sconfinare nella meccanica (dalle biciclette a vari altri componenti). Sarebbe grave non contrastare la scomparsa delle competenze artigiane. A tal fine è stato firmato uno specifico protocollo tra Alleanza per l’artigianato artistico, Associazione Casse di Risparmio Italiane (ACRI) Unioncamere, Cna e Confartigianato. Il protocollo si propone di incrementare gli inserimenti formativi, sostenere l’apprendistato, incentivare le imprese, far perno sull’utilizzo delle tecnologie per perfezionare i materiali e gli stili, e rendere più efficace la promozione.

fotoLe aziende artigiane confrontate con internet e l’e-commerce

Le imprese dell’artigianato artistico e, più in generale, tutte le piccole e medie imprese possono trovare in internet un valido supporto alla loro affermazione sia in Italia che all’stero, obiettivo quest’ultimo prima possibile solo a quelle dotate di consistenti risorse finanziarie. Diverse ricerche hanno evidenziato che l’utilizzo di internet per l’e-commerce è in grado di favorire l’aumento dei clienti e del fatturato. Per la conoscenza di internet sono state promosse diverse iniziative, anche da Google stesso in collaborazione con Unioncamere nell’ambito degli orientamenti del Governo e dell’Unione Europea (Programma Skill for jobs). Ad esempio, sono state assegnate delle borse di studio a giovani laureati, chiamati a mettersi a disposizione delle aziende dopo essere stati opportunamente preparati. Un sito web realizzato dal Google Cultural Institute in collaborazione con Unioncamere e il Ministero per l’agricoltura, ha offerto numerose mostre digitali, curate in italiano e in inglese, per far conoscere l’eccellenza italiana nel settore dell’agroalimentare e dell’artigianato [19]. Queste mostre presentano prodotti ultra famosi dell’artigianato, e anche quelli dell’agro-alimentare), come il Grana Padano, Il Parmigiano Reggiano, il Prosciutto di San Daniele o il Prosciutto di Parma, il Vetro di Murano, il Tessile Biellese, il Pomodoro di Pachino, il Radicchio, il Variegato di Castelfranco o Una verdura). Vengono anche presentate eccellenze meno note come la pietra di Cuneo (particolarmente apprezzata da Leonardo da Vinci, che la citò nei suoi scritti), il tessile di Prato i cui tessuti sono stati realizzati per confezionare gli abiti per Russel Crowe per il ruolo nel film “Il gladiatore”, e quelli utilizzati da Mel Gibson nel filmi “Braveheart”.

Queste mostre guidano il visitatore attraverso una vera e propria narrazione digitale, fatta di foto, video, documenti storici, lettere commerciali, affissioni pubblicitarie e racconti, che riportano indietro nel tempo, e aiutano a conoscere meglio un prodotto e il suo territorio. Le stesse esposizioni intrecciano aneddoti che affondano le radici nella storia. Per esempio, non tutti sanno che il cappello che Federico Fellini indossava sul set è un tipico cappello di Montappone, dalla storia antica perché prodotto sin dal 1300: un oggetto dalle origini leggendarie, oggi esposto nel Museo del Cappello di Montappone.

Una mappa dell’Italia agevola la consultazione delle mostre e consente di individuare il luogo di origine dei prodotti presentati, come anche consente organizzare la conoscenza del territorio italiano per tipologia dei prodotti.

normal_artigianoGli immigrati e il rapporto con i mestieri artigianali

La maggior parte delle imprese degli immigrati è a carattere unifamiliare e molte sono quelle artigianali, e tuttavia non tutti i mestieri artigianali tradizionali possono essere da essi realisticamente esercitati o, compito ancora più proibitivo, recuperati. Nel Novecento erano numerosi in Italia i mestieri artigianali e, in parte ancora praticati nell’immediato dopoguerra (specialmente nelle aree rurali). Attualmente molti o sono scomparsi o in via di estinzione, così è avvenuto per gli ombrellai e gli arrotini (salvo le sempre più rarefatte prestazioni di nomadi che, per strada dalle auto munite di altoparlanti, annunciano la loro momentanea disponibilità ad affilare i coltelli e riparare gli ombrelli); e i maniscalchi (che ferravano i cavalli e lavorano il ferro, come oggi fanno i fabbri). Lo stesso destino riguarda le tessitrici con il loro telaio casalingo; i seggiolari (abilissimi nel riparare il fondo delle sedie intrecciando fili di raffia), gli  stagnini (che, per motivi igienici,  ricoprivano di stagno, metallo neutro, l’interno dei recipienti di zinco), i cestai, i cerai, i  cordai, i guantai, i materassai (le cui botteghe erano aperte fino a poco tempo fa), le ricamatrici, i sellai, gli scopettai (produttori di spazzole e scope).

 All’interesse per la riparazione degli oggetti si è subentrata la più sbrigativa sostituzione degli stessi e così sono venuti meno i clienti per chi esercitava questi antichi mestieri. Sono ormai raramente utilizzati i selciatori (gli addetti alla posa in opera di cubetti di porfido, che a Roma vengono detti i “sanpietrini”), gli scalpellini (coloro che sgrossavano e lavoravano la pietra o il marmo con lo scalpello), e i norcini (gli addetti alla macellazione del maiale e alla lavorazione delle carni): a loro sono subentrate le norcinerie ma solo come negozi di vendita.

Altri mestieri perdurano, ma largamente trasformati e all’occorrenza esercitati in una bottega polifunzionale (solitamente con vendita di prodotti): i corniciai, i fotografi, i restauratori, gli orafi, rilegatori, i tappezzieri. Gli orologiai, ad esempio, non solo riparano gli orologi ma anche li vendono. I parrucchieri raramente si occupano di fare la barba ai loro clienti. Molti falegnami sono meno artisti e maggiormente addetti alla lavorazione con le macchine. Alcuni mestieri tradizionali hanno dato luogo a nuove figure.

Le pettinatrici, che avevano cura in alcune regioni dei capelli delle signore agiate, sono state sostituite dalle parrucchiere con i loro saloni (prima esistevano solo i saloni per gli  uomini). I venditori di stoffe sulle piazze, veri maestri nell’oratoria esercitata per convincere le donne all’acquisto, trovano ora al loro posto venditori ambulanti nei mercatini, dove si recano con loro camioncini stipati con numerosi capi di abbigliamento e di biancheria (vendono scarpe o oggetti per la casa). l ciabattini sono diventati calzolai (più che creare le scarpe vendono altri prodotti come lucidi, stringhe, solette o riparano altri oggetti di cuoio). I sarti, ormai poco numerosi tra gli italiani, sono sempre più richiesti per i ritocchi.

Altre volte le funzioni svolte nel passato sono state fatte proprie da nuove figure più specializzate, così come avviene nel settore terziario [20]. Ad esempio, le funzioni delle ostetriche sono state interamente rilevate dagli ospedali e dalle cliniche e le funzioni dei castrari (quelli che castravano gli animali) dai veterinari.

Nei mestieri tradizionali che persistono gli immigrati si sono inseriti o si stanno inserendo. Essi, oltre che nel settore dei servizi (come ambulanti, con imprese di pulizia, punti vendite di take away, bar, ristoranti), operano nel comparto artigianale come sarti, muratori (anche carpentieri, piastrellisti, pavimentisti, parchettisti, stuccatori, imbianchini, cartongessisti), giardinieri, parrucchieri, calzolai, idraulici. Diversi altri sbocchi lavorativi sono basati sull’esercizio di mestieri meno tradizionali, legati piuttosto alle mutate esigenze della società: carrozzieri, meccanici, saldatori, modellisti, armaioli, riparatori di protesi dentarie, tipografi, stampatori offset, i riparatori di radio e Tv, elettricisti, elettromeccanici, addetti alla tessitura e alla maglieria,cablatori di quadri elettrici, caldaisti, cartongessi molatori, montatori e serramentisti.

Tutte queste professioni presuppongono l’apprezzamento del lavoro manuale (che nel passato in Italia era più diffuso) e una specifica professionalità (prima egregiamente assicurata dagli istituti tecnico-professionali). È diventato, poi, sempre più necessario l’utilizzo della tecnologia e l’esercizio delle competenze digitali: ciò pone le donne su un piano di uguaglianza con gli uomini, mentre nel passato era scontato che certe professioni fossero riservate ai maschi.

L’inserimento degli immigrati aumenta nell’ambito di questi mestieri, sia tradizionali che rispondenti, anche in maniera innovativa, alle specifiche esigenze della società italiana di oggi, come si vedrà dal monitoraggio che ha consentito per dieci anni il MoneyGram Award dedicato all’imprenditoria immigrata.

clehlz0waaarci_-e1466097268823-1Il MoneyGram Award [21]

Il MoneyGram Award ha conosciuto la sua prima edizione nel 2009 nel secondo anno della crisi economica, durissima per l’Italia, che ha visto diminuire la base occupazionale e il numero delle imprese gestite da italiani. I piccoli imprenditori immigrati sono, all’interno delle loro comunità, quelli che hanno un reddito e una capacità di risparmio più elevati. MoneyGram Italia ha voluto enfatizzare le loro realizzazioni, contribuendo a sfatare il pregiudizio che gli immigrati siano privi di dinamismo, competenza, fantasia e capacità di riuscita. Un altro obiettivo primario è stato quello di sollecitare nuovi protagonisti tra gli immigrati, intento riuscito perché il numero dei partecipanti al concorso è andando aumentando, coinvolgendo persone originarie da diversi Paesi e anche lontani discendenti dei numerosi italiani andati a risiedere in America Latina dopo l’Unità d’Italia.

Per l’assegnazione dei premi un’apposita giuria ha vagliato le realizzazioni più significative, dopo aver rivolto invito alla partecipazione più ampia possibile da tutte le parti d’Italia. L’evento finale di questo programma, organizzato a Roma in sedi suggestive, è stato imperniato sulla premiazione dei primi classificati per i diversi livelli di impegno: crescita e profitto, innovazione, giovane imprenditoria e responsabilità sociale. Dal 2015 è stato previsto anche uno speciale riconoscimento, assegnato finora a un imprenditore di seconda generazione (2015) e a una persona immigrata che si è distinta a livello artistico (2016).

Ogni anno hanno partecipato più di 150 imprenditori immigrati e tra di essi è stata scelta una terna di finalisti, con un solo vincitore per categoria, uno dei quali è stato proclamato l’imprenditore immigrato dell’anno. Il premio, non monetario, è consistito nel riconoscimento sociale e la possibilità, attraverso i media, di farsi conoscere al grande pubblico. La partecipazione da tutta Italia, l’attenzione dei mass media, la continuità dell’iniziativa (durata dieci anni e poi trasferita a Bruxelles) hanno fatto del MoneyGram Award una vera e propria vetrina dell’eccellenza imprenditoriale immigrata, come attesta una sintetica carrellata sull’imprenditore dell’anno premiato nelle diverse edizioni.

foto-vincitoriMGA 2016: Madi Sakandè, nato in Burkina Faso, opera a Calderara di Reno (Bologna). Nel 2011, insieme ad alcuni colleghi, ha rilevato una storica azienda del settore della refrigerazione e climatizzazione industriale (la New Cold System S.r.L.) dal fatturato elevato, riuscendo a risollevarla nonostante la crisi. Opera anche come docente e consulente per la certificazione dei tecnici e delle aziende a norma CE 303/2008. Ha ricevuto il Premio di Migliore Imprenditore Africano dall’Africa ItalyExcellence Award. La sua azienda è destinata a promuovere in Africa una fiorente attività perché consente la refrigerazione dei prodotti alimentari con impianti funzionanti ad energia solare, consentendo di rimediare al fatto che i tre quarti della produzione di cibo nel continente vada persa.

MGA 2015: Abderrahim Naji, nato nel 1968 in Marocco, a Béni Mellal (una città dell’entroterra da cui molti sono emigrati in Italia), arriva nel 1989 e si stabilisce a Piazzola sul Brenta, in provincia di Padova. Nel 1997, dopo esserne stato dipendente, acquista l’azienda CS Stampi, attiva nello stampaggio di articoli tecnici in materiale plastico per l’industria automobilistica ed elettrodomestica e nella progettazione e sviluppo di stampi. Si impegna nell’acquisto di macchinari innovativi e nell’ampliamento del sito produttivo e riesce a incrementare i profitti e gli addetti (oltre 30).

cljxm7huoaech0MGA 2014: Cristina Chua, filippina, commercializza con successo corpi illuminanti per la nautica. Nata nel 1981 a Champan, arriva in Italia nel 2000 e si stabilisce a Milano. Inizia lavorando da badante e da baby sitter, per poi entrare in azienda, operando prima da centralinista (favorita dalla sua conoscenza dell’inglese), poi presso l’ufficio acquisti e quello commerciale e, quindi, presso la direzione della produzione in Cina. Nel 2011 fonda la sua azienda per la vendita di corpi illuminanti, la Delta Contract Spa, in particolare per le navi da crociera, mantenendo la sede della progettazione in Italia e la maggior parte della produzione in Cina.

MGA 2013: Martin Saracen, polacco, arriva in Italia nel 1989 da Bratislava e si stabilisce ad Arese, in provincia di Milano.Nel 2006 fonda la FM Group Italia, che si occupa del commercio di cosmetici e profumi polacchi. La rete di vendita da lui organizzata gli consente di occupare 90 dipendenti e di contare su 170 distributori in tutta Italia. L’insistenza sulla qualità è il segreto del suo successo: «Ambizione per proiettare nel futuro il mio sogno iniziale; tenacia per non scoraggiarsi davanti alle difficoltà di una start up e ascolto per capire i bisogni della gente».

foto-gruppo-mg-award-2015-mg_8746-654x327MGA 2012: Simon Flores, nato a Bachau, arriva in Italia a 26 anni e inizia a lavorare come manovale in edilizia. Dopo aver provato varie attività, nel 2006 ha aperto la Romania Srl Import, che si occupa della vendita di prodotti alimentari romeni e dà lavoro a Roma a 40 persone. Riesce così a realizzare il suo sogno di distribuire i prodotti alimentari romeni, superando, come molti altri, notevoli difficoltà per ottenere le autorizzazioni. Si sente a suo agio in Italia, dove ha trovato opportunità altrimenti impensabili, pur restando molto legato alla Romania.

MGA 2011: Jean Paul Pougala è originario del Camerun, dove conta trenta fratelli, avuti dal padre da diverse mogli. Qui inizia a lavorare come strillone di giornali. Venuto in Italia, fonda a Torino una fiorente società di produzione di articoli e gadget per campagne elettorali: la Election Campaign Store. Nel 2011 ha fornito i materiali per otto delle undici campagne elettorali svoltesi in Africa, ma ha fornito i suoi articoli anche in Perù, in Germania e in Francia. Dà lavoro a 20 persone e si reca spesso a Ginevra per insegnare sociologia e geopolitica alla scuola di diplomazia.

MGA 2010: Edit Elise Jaomazava, originaria del Madagascar, sposata con diversi figli. Constatato che la vaniglia sintetica ha soppiantato quella naturale, di cui il suo Paese è grande produttore (e anche l’azienda della sua famiglia), si adopera per importarla a prezzi concorrenziali e metterla a disposizione delle industrie alimentari, delle distillerie, delle gelaterie, delle pasticcerie artigianali e anche di clienti al dettaglio. Edith, oltre alla vaniglia, fa arrivare per via aerea, tramite la SA.VA Import-Export, un’altra ventina di prodotti, assicurandosi che siano prodotti freschi (dell’ultimo raccolto) e di alta qualità. Anche l’elegante confezione di questi prodotti aiuta a battere la concorrenza.

evelyne-vinc-giovanile_mg_8768MGA 2009: Radwan Khawatmi, siriano, di famiglia benestante, ultimati gli studi universitari, giunge in Italia, attratto dalla nostra storia. Prima opera per commercializzare i prodotti della Indesit e quindi, nel 1988, a Milano fonda la Hirux International, un’azienda che ha fatto conoscere nei Paesi del Golfo gli elettrodomestici italiani, assemblati con i pezzi forniti da produttori terzisti. I frigoriferi e le lavatrici della Hirux hanno conquistato una rilevante quota di mercato. L’azienda occupa centinaia di dipendenti, oltre che in Italia, anche in alcuni Paesi arabi. L’associazione “Nuovi italiani” da lui fondata si è adoperata per l’attribuzione del diritto di voto amministrativo. Khawatmi. Inoltre, sposato con un’italiana di religione cattolica, si è distinto nella promozione del dialogo tra le religioni contro ogni estremismo e terrorismo.

Il riconoscimento speciale 2015, che MoneyGram ha iniziato ad attribuire a partire da quell’anno, è andato a un esponente della seconda generazione dell’immigrazione: Marco Wu, nato a Livorno da genitori cinesi. Trasferitosi a Roma da bambino, Marco ha iniziato a frequentare l’Università ma in seguito ha deciso di concentrarsi sul lavoro. La sua prima attività è stata un ristorante che ha proposto congiuntamente la cucina cinese e quella italiana, nel cuore della Roma multietnica, a Piazza Vittorio. Poi è diventato titolare di un’enoteca e si è occupato della distribuzione di prodotti alimentari ai ristoranti cinesi di tutta Italia; inoltre, si è impegnato per il potenziamento del canale delle esportazioni dei prodotti italiani in Cina, dedicando al vino italiano, sua area di expertise, particolare attenzione.

Il riconoscimento speciale 2016, incentrato sull’arte, è andato a Takoua Ben Mohamed, ragazza di origine tunisina, figlia di un rifugiato politico, arrivata in Italia all’età di otto anni. Da allora è iniziato il suo processo di integrazione, non privo di ostacoli. Nell’arte ha trovato un aiuto. Nei suoi fumetti racconta, con ironia, cosa vuol dire essere musulmana velata nella nostra penisola. Parla di cittadinanza, discriminazione ma anche di dialogo e rispetto tra culture. Oggi è un’illustratrice e una giornalista grafica che racconta, attraverso le sue mostre e il libro Woman Story, le vicende quotidiane in Italia di una ragazza con lo hijab (il velo non integrale), sfruttando l’immediatezza e l’efficacia delle parole unite al fumetto.

L’ampienza assunta dal MoneyGram Award è attestata anche dalla varietà dei settori di provenienza degli imprenditori che vi hanno partecipato. Nel comparto alimentare: pasticcerie, laboratori di yogurt biologico, ditte per l’importazione di spezie e di prodotti artigianali; nel comparto servizi: agenzie di viaggio, uffici di traduzioni, centri di interpretariato, società di casting, centri culturali, ludoteche, piattaforme di e-learning, laboratori per facilitare l’apprendimento ai disabili, servizi artigianali assicurati da calzolai, sarti (modellisti, prototipisti), parrucchieri (anche in stile “etnico”), operatori di centri estetici, e restauratori di mobili; nel comparto industriale: refrigerazione e climatizzazione, informatica, produzione di etichette personalizzate per le bottiglie di vino, localizzazione su smartphone e tablet delle zone di passaggio delle reti sotterranee (una soluzione digitale fondamentale per lo sviluppo del catasto nazionale e per la gestione e manutenzione delle infrastrutture).; nel settore commerciale: una miriade di iniziative, dal commercio al minuto a quello all’ingrosso, con un reticolo imponente di piccole e medie realtà aziendali. Nell’ambito della ristorazione si va dai bar e piccoli rivenditori di cibo “da strada”, a proposte anche molto raffinate (ad esempio, accompagnando i clienti italiani attraverso i sapori e le usanze del Paese di origine).

dsc_0018-1-1Conclusioni. Per una diversa narrazione

Le strutture che creano posti di lavoro meritano apprezzamento e, specialmente in Italia, un grande merito spetta alle piccole e medie imprese, ma lo stesso va detto a livello europeo. Lo ha riconosciuto lo Small Business Act (SBA) for Europe, documento approvato dalla Commissione Europea nel mese di giugno 2008, che ha sottolineato il ruolo e ha raccomandato ai governi nazionali l’adozione di misure adeguate a tutti i livelli per sostenerle.

Nell’ambito delle piccole e medie imprese è stato straordinario il protagonismo degli immigrati nel corso degli anni 2000, sempre in crescita anche negli anni più duri della crisi e così, presumibilmente, anche nel futuro: un andamento che, pur avendo le sue ombre, ha dello straordinario e avrebbe meritato una narrazione libera dai luoghi comuni con i quali ancora molti raccontano l’immigrazione.

Il protagonismo degli immigrati, sia nei casi di piccole imprese sia in quelli, meno numerosi, di medie imprese è frutto di una grande tenacia e indicatore dell’integrazione nel sistema economico che, con opportune misure (non sempre adottate), potrebbe accelerare anche l’integrazione sociale.

Prima si è fatto cenno anche alle ombre di questa realtà. Le aziende di piccole dimensioni abbisognano sempre più di ricorrere all’innovazione e alla tecnologia, specialmente se intendono ampliare la clientela rivolgendosi anche all’estro. Non mancano le iniziative in tal senso, ma moltissimo resta da fare. L’apertura all’estero vale anche per i Paesi di origine essendo gli imprenditori immigrati, un ponte tra essi e l’Italia. Talvolta vi sono soggetti che rimpatriano, portando con sè quanto appreso nel corso dell’esperienza italiana, ma i più restano e, siano essi artigiani di prodotti di qualità o di prodotti tecnologicamente avanzati, da essi ci si aspetta la diffusione del made in Italy.

Secondo un concetto equilibrato di transnazionalismo il fenomeno migratorio consiste in un flusso che coinvolge persone, idee, beni, capitali secondo una linea bidirezionale. I 5 milioni di stranieri residenti in Italia, insieme a quelli già diventati cittadini italiani (circa 1,5 milioni), costituiscono, con i parenti e gli amici, una rete straordinaria di penetrazione, anche se si tratta di Paesi di origine a basso reddito [22].

Se sono validi i motivi che inducono a raccomandare maggiore attenzione dei decisori pubblici dalle piccole e medie imprese, e, al loro interno, alle imprese degli immigrati, ci si deve rendere conto che, sotto questo aspetto (e diversi altri), il fenomeno degli stranieri n Italia non costituisce né un’invasione né una disgrazia. Con un riferimento al cosmopolitismo del Rinascimento, che riprendeva le intuizioni degli antichi greci, è bello sperare che la funzione esercitata in quel tempo con la cultura e con le arti, possa essere continuata con i prodotti dell’artigianato italiano, rinnovati dalle moderne tecnologia ma anche carichi di quella luminosa tradizione.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] Nino Lo Bianco, presidente Associazione Società di Consulenza (ASSCO), in Affari & Finanza, 19 aprile 2004,
[2] II ritardi strutturali sono messi in evidenza in questa ricerca: Idos, Istituto di Studi Politici S. Pio V, Le migrazioni qualificate in Italia, Edizioni Idos, Roma, giugno 2016.
[3] Cfr, ad esempio Fatiha Mahmoud, “La presenza delle piccole e medie imprese italiane in Marocco”, in Dialoghi Mediterranei, n. 22, novembre 2016.
[4] Iafrate P., La normativa sugli immigrati in Italia tra formalità e operatività, Edizioni IDOS, Collana Agora, Roma, 2018: 99-108.
[5] Nanni M. P., Pittau F., “I lavoratori immigrati e le imprese cooperative”, in IDOS, Rapporto Immigrazione e Imprenditoria, Edizioni IDOS Roma, giugno 2014:  211-217.
[6] Caritas Roma, a cura di Pittau F, L’immigrazione alle soglie del 2000, Edizioni Sinnos, Roma, 1999.
[7] Alla stessa data si contavano anche i soci (52.715) e le altre figure societarie (85.990)
[8] DD.P.R. E 31 agosto 1999, n. 394, “Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 2826.
[9] Un’esauriente analisi delle teorie formulate in ambito anglosassone e della prima produzione sociologica italiana sull’imprenditoria immigrata è stata curata da Ubolti T., “L’imprenditoria immigrata nella letteratura internazionale”, in AFFARI Sociali Internazionali, n. 3/2006.
[10] Sombart W., Der Modern Kapitalismus, Dunker & Humblot, Berlin (trad. It. Il capitalismo moderno, Utet, Torino 1967), 1916.
[11] Cfr. su questa rivista, gli articoli di M. Albani, F. Pittau: “Due Secoli di emigrazione negli Stati Uniti. Storie di Italiani”, in Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020; e “L’emigrazione in Sudafrica. Storie di Italiani”, in Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020.
[12] Ambrosini M., Utili invasori. L’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, Franco Angeli‑Ismu, Milano, 1999; Idem, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2005. Cfr, sempre relativamente a quel periodo: Camera di Commercio di Roma e Caritas di Roma, Gli immigrati nell’economia romana: lavoro, imprenditoria, risparmio, rimesse, Roma, 2003; Martinelli M., “Le caratteristiche dell’attività imprenditoriale” e Zucchetti E., “La regola e le eccezioni. Le attività indipendenti degli immigrati nell’area milanese”, in Chiesi A. e Zucchetti E. (a cura di), Immigrati imprenditori. Il contributo degli extracomunitari allo sviluppo della piccola impresa in Lombardia, Egea, Milano, 2003; Zanfrini L., Sociologia delle migrazioni, Laterza, Bari, 2004.
[13] Sassen S., The Global Cities: New York, London, Tokyo, Princeton University Press, Princeton, NJ, 1991.
[14] Bea G., Fosco Corradini F., Pittau F., “Immigrati e iniziativa imprenditoriale: dieci indicazioni operative”, in IDOS, Rapporto Immigrazione e Imprenditoria 2015. Aggiornamento Statistico, Edizioni IDOS, Roma, 2015: 15-16.
[15] Nella ricerca sul campo, di seguito citata,  furono coinvolti i redattori del Dossier Statistico Immigrazione: Camera di Commercio di Roma e Caritas Roma, Gli immigrati nell’economia romana: lavoro, imprenditoria, risparmio, rimesse, Roma, agosto 2003. Cfr.  anche: Pittau F, “Realismo e solidarietà: due elementi necessari”, in Quale impresa-Giovani Imprenditori, n. 6/2002, Numero speciale “Governare l’immigrazione: un mare di complessità”: 38-4;  Pittau F., Melchionda U., Giovine C., Vinci G., “Immigrazione e imprenditoria: alcuni punti nodali”, in Idos, Rapporto Immigrazine e Imprenditoria 2016. Aggiornamento statistico, Edizioni Idos/Cna/MoneyGram, Roma, 2016: 9-12.
[16] Si veda una trattazione a carattere generale, partendo dalla situazione regionale, si trova in: Piemonte, a cura di  Barberis L. e Armano E., Mutamenti nella composizione dell’artigianato. Forme, processi sociali e rappresentazione, Regione Piemonte, IRES, Torino, s.d.. Sulla storia e l’attualità dell’artigianato artistico italiano e sulle prospettive occupazionali, cfr: http://www.paolastaccioli.it/libridipaola/frame%20artigianato.htmeanch http://www.jobbydoo.it/browse/artigianato. Una più ampia analisi, seppure datata, si trova in Unioncamere, Secondo Rapporto Nazionale sull’artigianato, Roma, dicembre 2006.
[17] Per un a visione d’insieme nel settore agricolo all’inizio degli anni ‘2000 cfr. Merlino C., Pittau F., “L’agricoltura in Italia e in Europa: situazione odierna, prospettive e apporto degli immigrati”, in Affari Sociali Internazionali, 2/2003: 105-118; Pittau F., “Perché interessarsi all’agricoltura: le considerazioni di un ricercatore”, in RN Magazine n.3/2018: 31-32.
[18] Cfr Business Innovation Observatory della Commissione Europea (http://ec.europa.eu/growth/industry/innovation/business-innovation-observatory_it
[19] https://artsandculture.google.com/project/made-in-italy?hl=it
[20] Cfr. CNA, Osservatorio Nazionali Professioni 2018, Roma, luglio 2018, in https://www.bo.cna.it/uploads/news/osservatorio-professioni-2018/allegati/osservatorio_professioni_2018.pdf)
[21] Nanni M. P., Pittau F., “Le imprese italiane di successo. Il Money Gram Award”, in IDOS, Rapporto Immigrazione e Imprenditoria, Edizioni IDOS/CNA/MoneyGram, Roma, giugno 2014, 288: 211-218; Pittau F., Bea G., Canovi M., Cantarelli A., “The MoneyGram Award for the excellences among the Foreign Entrepreuners”, Idos Research and Study Center, Nanni M. P. (editor), Report on Immigration and Entrepreunershi 2016. Statistical Update, Edizioni Idos, Rome, 2016: 50-56; Canovi M, Cantarelli A., Bea G,m Pittau F., Oursana S., “Il MolneyGam Award e gli imprenditori Immigrati: una piattaforma da rendere europea”, in Idos, Rapporto Immigrazione Imprenditoria 2017, Edizioni Idos/CNA/MoneyGram, Roma, 2017: 63-70.
[22] Cfr, ad esempio: Melchionda  U,,“I distretti euro mediterranei: un’opportunità per gli immigrati. I paesi di origine, le piccole e medie imprese”, in Mediterraneo: geopolitica, migrazione e sviluppo. Scenari attuali, dati statistici e prospettive, in Affari Sociali Internazionali, n. 3-4/2015: 189-199.

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Giuseppe Bea ha operato fino al suo pensionamento presso la Confedererazione Nazionale Artigianato e piccole Medie Imprese, sia a livello locale, come Segretario provinciale Roma, sia a livello nazionale, essendo stato responsabile per CNA World (il programma rivolto agli imprenditori immigrati), dell’area internazionale e delle Relazioni istituzionali e della Comunicazione. Per la Confederazione ha partecipato a vari organismi ministeriali di consultazioni ed è stato anche membro della Camera di Commercio italiana di Nizza. Laureato in sociologia, si è adoperato a livello formativo e anche di ricerca. È stato anche tra i fondatori dell’Osservatorio Nazionale Imprese. È docente di economia delle imprese immigrate nei master specifici presso l’Università degli studi di Tor Vergata e la Link campus University. Nel 2013 ha ottenuto la onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana.
Paolo Iafrate, ha conseguito il dottorato presso lUniversità degli Studi di Roma Tor Vergata in Sistema Giuridico Romanistico ed Unificazione del Diritto – indirizzo Diritto Musulmano e dei Paesi Islamici. Si occupa delle problematiche di diritto penale e diritto dell’immigrazione, sia come ricercatore che come avvocato. Numerosi sono i suoi contributi sulle denunce presentate contro i cittadini stranieri e sulla metodologia da seguire per pervenire a una loro retta interpretazione. È attivamente impegnato, quale componente del Consiglio Scientifico presso il Centro Ricerche Economiche e Giuridiche (CREG), nonchè in qualità di docente e componente del comitato scientifico all’interno del Master in Economia Diritto e Intercultura delle Migrazioni (MEDIM) presso l’Università di Tor Vergata. È  tra i fondatori dell’Osservatorio Nazionale Imprese.
Franco Pittau, ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario di questo genere realizzato in Italia) e suo referente scientifico fino ad oggi, si occupa del fenomeno migratorio dai primi anni ’70, ha vissuto delle esperienze sul campo in Belgio e in Germania, è autore di numerose pubblicazioni specifiche ed è attualmente presidente onorario del Centro Sudi e Ricerche IDOS/Immigrazione Dossier Statistico.

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