L’Europa nella tempesta
L’Europa si trova oggi al centro di una crisi che non è soltanto economica o geopolitica, ma profondamente culturale, simbolica ed esistenziale. Dopo decenni di fragile equilibrio garantito dall’asse euro-atlantico, la progressiva ritrazione degli Stati Uniti dalla scena globale – iniziata sotto Obama, radicalizzata con Trump e oggi teorizzata da figure come Elon Musk e J.D. Vance – segna un vero cambio di paradigma. L’amministrazione americana, pur dichiarandosi “alleata”, impone all’Europa una pace in Ucraina che non coinvolge i suoi partner storici, strizza l’occhio ai populismi nazionali e attacca apertamente l’autonomia decisionale dell’Unione. Il discorso pronunciato da Vance a Monaco nel febbraio 2025 è stato, da questo punto di vista, emblematico: un attacco ideologico e culturale all’Europa, accusata di aver tradito la propria vocazione democratica «condivisa con gli Stati Uniti», in nome di un supposto “pericolo dall’interno” incarnato dalla migrazione, dalla censura, dai diritti civili (Vance 2025).
Nel mentre, i riferimenti all’articolo 5 della NATO si fanno sempre più retorici e incerti, la cooperazione strategica si indebolisce, e la retorica del “burden sharing” [1] si trasforma in un invito neppure troppo velato a cavarsela da soli. L’Europa, privata della sua tradizionale garanzia di sicurezza, si scopre nuda e disarmata, costretta a una corsa al riarmo che minaccia di sacrificare sul piano sociale quanto costruito in ottant’anni di pace. Ma più ancora che un vuoto militare, è il vuoto politico e simbolico a pesare: in assenza di una visione collettiva, la “sovranità strategica” rischia di diventare semplice isolamento; e mentre i leader del continente si affannano a tenere insieme bilanci e alleanze, il campo simbolico europeo viene occupato da altri. Da chi, come Vance, propone una democrazia ridotta alla voce della maggioranza populista o da chi, come Musk, gioca con la geopolitica come fosse un videogioco, confondendo la libertà con il diritto alla sopraffazione.
Siamo di fronte a un tornante storico: la pace che ha caratterizzato il secondo dopoguerra europeo non è stata un dono disinteressato degli Stati Uniti, ma una scelta strategica per contenere l’URSS. Oggi, nella nuova configurazione multipolare, quell’“ombrello” si chiude; eppure, contemporaneamente si apre anche uno spazio di possibilità nel cielo dell’Europa: quello di una vera emancipazione, ma a patto che non si cada nella trappola del mimetismo o della nostalgia imperiale; che non si risponda al trumpismo con un euro-nazionalismo altrettanto chiuso, ma che si abbia il coraggio di immaginare un nuovo progetto politico – radicale, cooperativo, post-nazionale – capace di riscrivere il patto tra cittadinanza e potere.
È in questo contesto, come ha recentemente ricordato Mario Draghi nei suoi discorsi al Parlamento europeo (2025a) e al Senato italiano (2025b), che l’Europa appare chiamata a una decisione “esistenziale”. Può limitarsi a difendere l’inerzia dell’esistente, oppure può scegliere di «agire come se fosse un solo Stato», affrontando la transizione tecnologica, climatica e difensiva con una visione nuova e una scala d’azione finalmente adeguata. Le sue parole sono nette: «La risposta dev’essere rapida perché il tempo non è dalla nostra parte, con l’economia europea che ristagna mentre gran parte del mondo cresce. La risposta dev’essere commisurata all’entità delle sfide. E dev’essere focalizzata in maniera chirurgica sui settori che potranno in futuro trainare ulteriormente la crescita».
A fronte di questo scenario, il vero punto critico non risiede solo nella vulnerabilità economica o nella debolezza dei dispositivi difensivi. Il cuore della crisi europea è l’assenza di una narrazione condivisa, la progressiva perdita di senso del progetto politico che l’ha originata. Come ha scritto Zygmunt Bauman (2003), una comunità senza visione è destinata a ripiegarsi su se stessa, a cercare salvezza nel ritorno al passato, in un’“identità” rigida, escludente, che sostituisce la costruzione collettiva con il riflesso tribale. Così accade oggi in molte regioni d’Europa, dove la tecnocrazia sostituisce la democrazia, la governance disincarnata soppianta la politica partecipata, la paura del futuro alimenta la nostalgia per una sovranità che non può più tornare.
In questo quadro, l’antropologia culturale – spesso relegata ai margini del dibattito pubblico – può fornire strumenti fondamentali per una ricostruzione immaginativa del progetto europeo. Non si tratta solo di analizzare criticamente le derive in corso, ma di riscoprire la capacità del sapere antropologico di offrire alternative: visioni pluraliste, relazionali, solidali. L’etnografia, con il suo sguardo situato, empatico e decentrato, può aiutare a rimettere al centro le esperienze delle persone, i legami sociali, le forme di convivenza e di innovazione dal basso che già esistono nei territori, ma che raramente trovano eco nelle agende istituzionali.
In queste pagine vorrei provare a esplorare, con spirito critico ma anche costruttivo, alcune piste per ripensare il futuro dell’Europa in un momento particolarmente delicato. Lo faccio da antropologo, ma anche da cittadino europeo che vive tra due Paesi – Francia e Italia – e che osserva con crescente inquietudine le fratture che si stanno aprendo dentro e fuori l’Unione. Da un lato, l’impressione che qualcosa si stia sgretolando: alleanze storiche che vacillano, nuove forme di potere che avanzano, paure che diventano politiche. Dall’altro, però, rimane – e forse cresce – la convinzione che anche nelle crisi più profonde possa nascere qualcosa di nuovo. La storia europea non è priva di svolte nate nel buio, quando tutto sembrava perduto. Ventotene, nel 1941, fu proprio questo: un’idea di futuro immaginata nel tempo della catastrofe.
Senza la pretesa di offrire soluzioni esaustive o ricette preconfezionate, il mio intento è quello di condividere riflessioni e suggestioni che possano contribuire a un dibattito più ampio. Cercherò di delineare i contorni della crisi di senso che attraversa oggi l’Europa; di mostrare come l’antropologia culturale – con il suo sguardo attento alle relazioni, ai margini, alle pluralità – possa offrire strumenti utili per immaginare alternative; e di raccogliere alcune voci, idee, pratiche che già oggi stanno seminando possibilità diverse. Non per costruire un manifesto, ma per aprire uno spazio di pensiero: un invito, forse, a immaginare insieme.
In tempi di disorientamento collettivo, pensare l’Europa per come potrebbe essere – e non solo per come è – è già una forma di resistenza.
Un’Europa senza visione
Nell’estate del 1941, tre uomini confinati su una piccola isola del Tirreno immaginavano un mondo diverso. Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni scrivevano il Manifesto di Ventotene, una visione di Europa concepita non come somma di nazioni ma come progetto federale, basato sulla pace, sulla libertà e sulla giustizia sociale. Era un gesto di resistenza intellettuale, compiuto nell’ombra del fascismo, quando tutto intorno sembrava perduto. E proprio perché concepita in un tempo buio, quell’utopia ha brillato di una luce particolare, come accade solo alle visioni nate dalla disperazione.
Oggi, ottantaquattro anni dopo, quel sogno appare appannato, irriso, quasi dimenticato. Nel marzo del 2025, la Presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, ha attaccato pubblicamente il Manifesto, definendolo superato e inadeguato, utilizzando frasi estrapolate per costruire una narrazione opposta (Pombeni 2025). Un gesto che ha scatenato indignazione e repliche, ma anche evidenziato un fatto cruciale: l’Europa ha smarrito i propri simboli condivisi. Un continente che riduce il suo testo fondativo a un pretesto per la polemica di parte è un continente in crisi di immaginazione, prima ancora che di governance.
La reazione è stata forte, anche emotiva, con manifestazioni nelle piazze, appelli pubblici, richiami alla memoria resistenziale. Ma anche qui, qualcosa si è incrinato. Dal palco di una di queste manifestazioni, un artista popolare e amato come Roberto Vecchioni ha affermato: «La cultura è nostra, l’Europa è cultura». Una frase che voleva essere orgogliosa si è rivelata invece una trappola concettuale, perché, se “nostra” significa “solo nostra”, se cultura diventa esclusione anziché dialogo, allora anche il discorso europeista rischia di trasformarsi in retorica identitaria. In molti hanno risposto con parole dure, evocando Todorov, la violenza coloniale, l’eurocentrismo (Bubba 2025). La polemica non ha fatto che rendere evidente il nodo centrale, ossia che oggi l’Europa è diventata un’arena in cui si fronteggiano identitarismi speculari, incapaci di costruire un terreno comune.
A mancare non è soltanto una visione politica forte, ma proprio una visione culturale condivisa. L’Europa nata per superare le sovranità nazionali si è ridotta a un apparato tecnico-burocratico, a una fortezza amministrativa ossessionata dalla contabilità, incapace di parlare al cuore delle persone. Non sogna più e non racconta più storie. E laddove non si costruisce un immaginario condiviso, lo spazio viene occupato dalla nostalgia e dalla paura.
Il risultato di questa crisi simbolica è visibile ovunque: dai confini chiusi alle retoriche di “prima gli italiani”, “prima i francesi”, “prima chiunque”. Il sogno di una cittadinanza europea si sgretola sotto i colpi di un ritorno al nazionalismo. I movimenti sovranisti, i protezionismi economici, l’ossessione per la “vera identità” minacciano non solo le istituzioni europee, ma l’idea stessa di una comunità politica plurale.
In questo clima, la cittadinanza non è più un diritto inclusivo, ma un privilegio da difendere, magari armando le frontiere o trasformando il Mediterraneo in un cimitero invisibile. I corpi migranti diventano nemici simbolici, capri espiatori di ogni crisi. E l’Europa, nata per superare i fantasmi del nazionalismo novecentesco, rischia di ricascarci dentro, con parole nuove ma logiche simili.
In questa deriva, le riflessioni di Hannah Arendt tornano ad avere una forza drammatica. Ne Le origini del totalitarismo (2009), Arendt descrive non solo i regimi del Novecento, ma soprattutto le condizioni che li hanno resi possibili: l’atomizzazione sociale, la perdita di senso del mondo comune, l’isolamento degli individui, il discredito del linguaggio e dei fatti. Il totalitarismo non nasce solo da un’ideologia forte, ma da una società debole, disgregata, incapace di riconoscere sé stessa. Non è un regime che prende il potere, ma un clima che rende possibile l’inimmaginabile.
Parlando di desolazione, Arendt parla anche di noi europei, privati di narrazioni, soli di fronte alla complessità, con una politica ridotta a pura gestione tecnica. È questo il terreno in cui germogliano i nuovi autoritarismi, che non hanno più bisogno di divise o ideologie totalizzanti, ma che agiscono attraverso la retorica della sicurezza, la logica del nemico, la riduzione della libertà a consumo.
Non è la replica del passato che ci minaccia, ma una sua mutazione; e Arendt ci avverte: gli elementi del totalitarismo – l’imperialismo, il razzismo, l’antisemitismo – non sono scomparsi, ma possono sempre ricomporsi. E oggi si manifestano in forme nuove: dalla chiusura identitaria al disprezzo per l’altro, fino alla perdita di fiducia nel valore della democrazia. In altre parole, l’Europa sembra oggi incapace di delineare una propria postura autonoma, in cui le pulsioni sovraniste, securitarie e identitarie – che si esprimono tanto nelle retoriche elettorali quanto nelle scelte strategiche – erodono la fiducia nei valori democratici e pluralisti. Come ha recentemente ammonito Sergio Mattarella (2025), il rischio è quello di un nuovo «vassallaggio felice» dell’Europa: un ritorno alle logiche di potenza che già nel Novecento portarono alla guerra. Il presidente italiano ha ricordato che la strategia dell’appeasement non funzionò nel 1938 e non funzionerà oggi; e che la pace non si ottiene rinunciando ai valori, ma riaffermandoli con fermezza. In un intervento particolarmente lucido all’Università di Aix-Marseille il 5 febbraio 2025, Mattarella ha richiamato i pericoli di una delega del potere democratico ai «neo-feudatari» digitali, definiti «novelli corsari», che ambiscono a gestire porzioni della sfera pubblica – dal cyberspazio allo spazio extra-atmosferico – sostituendosi agli Stati e usurpando la sovranità popolare. Di fronte a tali derive e all’asservimento dell’Europa a logiche imperiali esterne, l’unica strada praticabile è quella dell’autonomia culturale e politica, fondata su una memoria storica vigile e su una visione condivisa del bene comune europeo. Il punto di ripartenza è nell’aprire uno spazio per pensare insieme e per interrogarsi sul senso dell’Unione Europea.
In un tempo in cui l’Europa è chiamata a ridefinire la propria postura nel mondo, dopo la crisi dell’alleanza euro-atlantica e l’offensiva ideologica dell’asse Trump-Vance-Musk, l’antropologia offre una serie di strumenti indispensabili per riattivare l’immaginazione politica, contrastare derive identitarie e progettare nuove forme di coesione. L’etnografia, in quanto pratica dell’ascolto profondo e della sospensione del giudizio, permette di cogliere le molteplici visioni del mondo che abitano lo spazio europeo. Gli antropologi si muovono tra queste visioni come interpreti e come progettisti: decostruiscono categorie sedimentate (come identità, nazione, confine) e allo stesso tempo co-costruiscono dispositivi di senso, relazioni e orizzonti di possibilità. Più che spettatori di crisi, gli antropologi e le antropologhe possono essere alleati dei processi di transizione. In un contesto segnato da complessità e conflitti, la loro funzione si avvicina a quella proposta da Bruno Latour (2009) con l’idea del “Parlamento delle Cose”: uno spazio politico allargato in cui anche i non umani – ambienti, tecnologie, animali, materiali – entrano in scena attraverso la mediazione di portavoce capaci di ascoltare, tradurre, rappresentare. In questa prospettiva, l’antropologia agisce come una disciplina che facilita una “diplomazia tra mondi differenti”, restituendo voce ai silenziati, legittimità ai saperi situati, e allargando lo spettro delle soluzioni immaginabili.
Questa funzione si rivela oggi cruciale non solo sul piano culturale e sociale, ma anche in ambiti come l’energia, l’urbanistica, la governance ambientale, la sicurezza. L’attuale dibattito europeo, a partire dal Rapporto Draghi e dalle strategie di decarbonizzazione, mostra come sia urgente affiancare alle logiche industriali una riflessione partecipata sui modelli di vita, di sviluppo e di convivenza. Non basta “installare” l’idrogeno verde o digitalizzare l’economia, ma bisogna accompagnare questi passaggi con una trasformazione culturale, capace di mobilitare le soggettività, gli affetti e le memorie. L’antropologia può essere, in questo senso, la cassetta degli attrezzi di una cittadinanza riflessiva e trasformativa.
L’idea di cittadinanza in Europa è ancora troppo ancorata a un paradigma nazionale, ereditato dallo Stato moderno, mentre da tempo l’antropologia insegna che l’appartenenza non si fonda (soltanto) su diritti scritti nella legge, ma su pratiche quotidiane di riconoscimento, di cura e di interazione. In un’Europa attraversata da flussi migratori, da forme ibride di residenza, da identità diasporiche e da nuovi nomadismi digitali, la cittadinanza deve diventare un processo fluido e plurale, cioè capace di includere soggettività oggi escluse dai diritti e dalla rappresentanza. In altri termini, deve diventare una pratica attiva, generativa, fondata non solo su diritti ma su responsabilità collettive. Ancora una volta, lo ha ricordato Mattarella quando ha fatto riferimento alla Carta delle Nazioni Unite, che si apre con “Noi popoli”, non “noi Stati” o “noi mercati”. È questo spirito che dovrebbe ispirare una riformulazione della cittadinanza europea come spazio di partecipazione, dignità e pluralismo.
Il tema imposto dai nuovi potenti globali ha riproposto una retorica ossessiva della sicurezza e della difesa dei confini, spesso legata a una retorica identitaria e xenofoba. L’antropologia invita invece a pensare i confini non come muri ma come soglie, luoghi di interazione, contaminazione e negoziazione. L’Europa può sopravvivere solo se abbandona il mito della fortezza e si pensa come architettura porosa, in grado di valorizzare la pluralità. Anche le infrastrutture della transizione – come la “dorsale dell’idrogeno” [2] – non sono indifferenti o imparziali, perché tracciano nuovi confini tra inclusi e esclusi, centri e periferie. Evidentemente, è necessario ripensarle in modo relazionale, anche grazie agli strumenti dell’antropologia del territorio.
Dall’Europa di Ventotene all’Europa di Lampedusa
Così come Ventotene fu, durante l’abisso della Seconda guerra mondiale, il luogo simbolico in cui si concepì un’Europa libera e unita, oggi Lampedusa rappresenta la nuova soglia simbolica del continente: crocevia di tensioni, sofferenze, ma anche di possibilità. Se Ventotene fu il laboratorio dell’utopia federale, Lampedusa è oggi il banco di prova dell’Europa dei diritti, dell’accoglienza, della solidarietà. Da Ventotene ci giunge l’eredità di un sogno politico; da Lampedusa l’urgenza di una responsabilità concreta. Pensare un’Europa di Lampedusa significa immaginare un’Europa che non fugge dal mondo, ma che si apre al dialogo, che riconosce le proprie contraddizioni e si impegna a trasformarle.
Il discorso dominante sull’identità europea è ancora troppo segnato dalla genealogia – dal sangue, dalla cultura, dalla storia – come se appartenere significasse “discendere da”. L’antropologia propone invece una visione dell’appartenenza come cura, come responsabilità. Non si appartiene a un luogo perché si nasce lì, ma perché ci si prende cura delle sue fragilità, si partecipa alla sua trasformazione, si abita il suo futuro. Questo vale per le comunità locali come per l’intero progetto europeo. Appartenere all’Europa, oggi, significa impegnarsi nella sua transizione ecologica, nella sua rigenerazione democratica, nella difesa della sua pluralità interna.
Sul piano economico, in Europa ci troviamo a un bivio: da un lato, le sfide imposte dalla guerra, dalla deglobalizzazione, dalla transizione energetica spingono verso modelli di autosufficienza strategica e protezionismo industriale; dall’altro, cresce la consapevolezza che senza un ripensamento radicale dei modelli di produzione e consumo non sarà possibile garantire né sostenibilità né giustizia sociale. L’antropologia propone un’economia della cura, fondata sulla rigenerazione dei beni comuni, sulla solidarietà intergenerazionale e, chiaramente, sulla partecipazione. L’economia dell’idrogeno, ad esempio, non potrà funzionare solo come mercato, perché dovrà essere anche spazio di giustizia e redistribuzione. Solo così sarà possibile trasformare la vulnerabilità energetica in occasione di coesione sociale.
Se l’asse euro-atlantico è entrato in una fase di ridimensionamento, con gli Stati Uniti sempre più ripiegati su sé stessi e tentati da un isolazionismo armato, e se Russia e Cina si pongono come interlocutori spesso ostili o condizionati da logiche neoimperiali, l’Europa ha oggi l’opportunità – e la responsabilità – di immaginare una nuova alleanza strategica, che non dovrebbe cercarsi nell’asse Est-Ovest, né nel ritorno nostalgico al passato coloniale, ma nello sviluppo di un orizzonte Sud, orientato verso il continente africano.
L’Africa non va più pensata come “problema” o “periferia”, ma come partner centrale nella costruzione di un mondo plurale, interdipendente e sostenibile. Questa inversione di sguardo richiede un mutamento profondo nei linguaggi, nelle politiche e nelle logiche di scambio: dall’aiuto allo sviluppo alla co-costruzione di un futuro comune, dalla logica estrattiva a quella della reciprocità culturale e tecnologica, dalla gestione securitaria dei flussi migratori alla mobilità come diritto e risorsa.
Perché ciò accada, è essenziale riconoscere che il passato coloniale dell’Europa in Africa è una ferita aperta che ha generato violenze, saccheggi, diseguaglianze e memorie ancora oggi irrisolte. Ma proprio questa consapevolezza storica può diventare un punto di forza, una coscienza critica che impedisca di ripetere gli stessi errori sotto nuove forme, siano esse economiche, tecnologiche o politiche. Solo a partire da un’onesta elaborazione del passato coloniale, e da pratiche concrete di restituzione, riparazione e ascolto, sarà possibile immaginare un nuovo paradigma relazionale (Gugg 2025).
Voci africane come Achille Mbembe (2014), teorico del “decolonizzare il mondo”, o Felwine Sarr, promotore di un pensiero africano della contemporaneità e co-autore del rapporto sulla restituzione del patrimonio saccheggiato (Sarr, Savoy 2018), offrono strumenti potenti per costruire una cooperazione fondata sulla simmetria e sulla memoria attiva. In dialogo con loro, figure europee come Bénédicte Savoy, storica dell’arte e coautrice dello stesso rapporto, o l’economista Esther Duflo (Premio Nobel per l’economia nel 2019), impegnata in un approccio etico allo sviluppo, incarnano l’urgenza di ripensare radicalmente le categorie classiche dell’aiuto, dell’innovazione e della cooperazione (Duflo 2009).
Come disciplina dell’ascolto e sapere relazionale capace di tradurre visioni del mondo differenti in progettualità condivise, l’antropologia può offrire strumenti preziosi per questa trasformazione. E l’Europa ha bisogno di alleati che non siano satelliti né clienti, ma soggetti sovrani con cui condividere una visione di lungo periodo fondata sulla giustizia climatica, sulla transizione energetica equa, su modelli economici rigenerativi. Soprattutto, ha bisogno di rigenerare la propria immagine nel Sud globale, abbandonando la retorica paternalista e abbracciando una diplomazia culturale fondata sulla memoria, sul riconoscimento e sulla responsabilità.
La transizione energetica stessa può diventare terreno privilegiato di una cooperazione euro-africana, a condizione che non si ripetano gli schemi di dipendenza del passato. La produzione decarbonizzata di energia nel Sahel, nel Maghreb o nel Corno d’Africa potrebbe offrire benefici reali a entrambe le sponde del Mediterraneo, se fondata su accordi trasparenti, formazione condivisa, infrastrutture sostenibili e accesso equo ai benefici.
Si tratta di una prospettiva in cui l’Europa può scegliere se rifugiarsi nella paura e nei cordoni sanitari, come propongono le nuove destre identitarie, oppure se riscoprirsi nel dialogo con l’Altro. E questo Altro, oggi più che mai, ha il volto di un continente giovane, dinamico, ingiustamente marginalizzato: l’Africa, appunto. Solo riconoscendolo come soggetto storico, non come destinatario passivo, sarà possibile costruire un’Europa davvero plurale, post-imperiale e capace di futuro.
Come ho provato ad argomentare, l’Europa del futuro non potrà più fondarsi su un’idea identitaria monolitica né su una semplice ingegneria istituzionale. Serve un nuovo slancio politico, immaginativo e culturale, capace di generare visioni trasformative. In questo quadro, la proposta di una Comunità euro-mediterranea – più che una semplice Unione Europea – si configura come orizzonte necessario. Una transizione simbolica e operativa che porti l’Europa da fortezza a ponte, da spazio difensivo a spazio relazionale.
Per avviare questa transizione, è utile individuare alcuni assi strategici che possano fungere da riferimento per la costruzione di un’Europa post-nazionale. Questi assi non sono da intendersi come categorie rigide, ma come traiettorie di pensiero e di azione, capaci di ispirare le politiche e le istituzioni verso un futuro più giusto, inclusivo e sostenibile.
Innanzitutto, serve una nuova grammatica dell’immaginazione istituzionale. L’Europa non può più accontentarsi della gestione tecnocratica o del compromesso permanente, ma ha bisogno di un progetto forte, inclusivo, capace di superare il dominio estrattivo, la guerra permanente e l’assolutismo dei mercati. In altri termini, come sosteneva Alexander Langer (1996), è necessario imparare la lentezza e la mediazione, per rendere vivibili le differenze. In questa direzione si colloca anche l’appello di Thomas Hylland Eriksen (2023) a una «diversità lenta», antidoto al surriscaldamento globale, al fine di preservare la complessità e la resilienza delle società umane e degli ecosistemi.
L’identità europea va dunque ripensata in termini relazionali e plurali. Non si tratta di difendere confini ma di attivare connessioni. Il collettivo Europe’s Un/doing (Krzyzanowski, Oberhuber 2007) propone di de-essenzializzare l’identità europea, accettandone la porosità e la natura processuale, nel senso che l’Europa non si fa una volta per tutte, ma viene continuamente “fatta e disfatta” attraverso pratiche discorsive, negoziazioni istituzionali, identità mutevoli e tensioni politiche. Su questa scia, Michel Agier (2013) invita a riconoscere lo straniero non come eccezione o anomalia, ma come figura costitutiva del vivere europeo. In questa logica, l’Europa è un rizoma, non una radice, cioè uno spazio aperto, fluido, di interpretazione.
Di conseguenza, anche la cittadinanza va pensata come mobile, non più vincolata a criteri territoriali o di discendenza. Aihwa Ong (1999) ha proposto la categoria di “cittadinanza flessibile” per descrivere quelle forme di appartenenza che si costruiscono in movimento, oltre i confini statali. È in quest’ottica che possiamo immaginare una cittadinanza europea fondata sulla responsabilità, sulla partecipazione, sull’inclusione, cioè una cittadinanza generativa che riconosca i legami affettivi, culturali, simbolici tra persone e territori.
In questo scenario, l’economia non può restare ancorata al paradigma della competizione cieca e della crescita illimitata, perché, al contrario, la transizione ecologica richiede una ridefinizione profonda dei modelli produttivi e distributivi. Occorre immaginare un’economia del legame e della cura, capace di valorizzare i saperi locali, le reti solidali, i beni comuni. Chiaramente, serve una volontà politica che traduca questi indirizzi in una fiscalità comune orientata all’investimento sociale e alla sovranità energetica verde, ma che abbia anche consapevolezza che questo tipo di conversione abbraccia anche la democrazia e la giustizia.
Del resto, la democrazia stessa deve essere intesa in senso ampio, non solo procedurale. Ad esempio, Didier Fassin (2018) ha sottolineato come l’etica pubblica si fondi sul riconoscimento delle vulnerabilità, sull’ascolto, sulla possibilità di discutere il potere. La democrazia culturale è una pratica critica, capace di mettere in discussione le forme istituzionalizzate del potere e di porre al centro della vita collettiva le vulnerabilità, le disuguaglianze e le esperienze marginali. Ciò implica il diritto a immaginare, rappresentare, raccontare. Richiede processi deliberativi, spazi di mediazione, educazione diffusa. Come nelle migliori pratiche di bilancio partecipativo e governance locale, le istituzioni devono diventare luoghi di apprendimento condiviso.
Questo si lega alla necessità di riconoscere il valore dei saperi critici nei processi decisionali. Shahram Khosravi (2017), invita a guardare l’Europa dai margini, dove si sperimentano forme inedite di solidarietà e resistenza, spesso informali, locali, affettive: è dai bordi, sostiene Khosravi, che si possono vedere meglio le crepe dell’edificio istituzionale e, allo stesso tempo, le possibilità di trasformarlo. L’antropologia, insieme all’ecologia politica e alle pedagogie popolari, può contribuire a costruire un sapere trasformativo, non per sostituire la tecnica, ma per integrarla con l’esperienza vissuta. È così che si può dare corpo a un nuovo umanesimo europeo, non astratto, ma incarnato e plurivocale.
In questo quadro, l’utopia non è un lusso, ma un compito. Pensare l’Europa non per come è, ma per come potrebbe essere, significa assumersi la responsabilità dell’immaginazione. In un mondo multipolare e disgregato, questa è già una risposta. Come ha ricordato Wim Wenders (2025) nel suo appello per l’Europa, ciò che ci unisce non è solo un mercato o una moneta, ma «una unità emotiva, una fonte di forza per tutti noi. E ora tocca a noi restituirgli quella forza».
È tempo, dunque, di immaginare – e costruire – un’Europa post-nazionale, solidale e visionaria.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] “Burden sharing” significa letteralmente “condivisione del carico” o “ripartizione degli oneri”, ed è un’espressione usata soprattutto in ambito politico, militare ed economico per indicare la distribuzione equa di costi, responsabilità o impegni tra diversi attori. Nel caso della NATO si riferisce alla questione di quanto ogni Paese contribuisca alla difesa comune, in termini di spese militari, truppe, equipaggiamento. All’interno dell’Unione Europea, invece, è un termine usato spesso in riferimento alla crisi migratoria, per indicare la necessità che tutti gli Stati membri si facciano carico, in maniera proporzionale, dell’accoglienza dei migranti e richiedenti asilo. Più di recente viene usato anche nel contesto dei cambiamenti climatici per indicare il modo in cui vengono ripartiti gli sforzi per ridurre le emissioni di CO₂ tra i diversi Paesi.
[2] La “dorsale dell’idrogeno” (European Hydrogen Backbone, EHB) è un progetto infrastrutturale europeo volto a creare una rete transnazionale di trasporto dell’idrogeno, attraverso la riconversione di gasdotti esistenti e la costruzione di nuovi. L’obiettivo è facilitare la distribuzione di idrogeno verde su scala continentale, connettendo i luoghi di produzione (spesso situati in aree periferiche o nel Sud globale) con i grandi poli industriali europei. Questa rete è pensata per sostenere la transizione ecologica e la decarbonizzazione dell’economia, ma pone anche interrogativi sulla governance delle risorse, sulle nuove geografie del potere e sulle disuguaglianze territoriali.
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Vance, J. D., 2025, “The Speech That Stunned Europe”, in “Foreign Policy”, 18 febbraio, disponibile online (in lingua inglese): https://foreignpolicy.com/2025/02/18/vance-speech-munich-full-text-read-transcript-europe/
Wenders, Wim, 2025, “L’Europe et la force des rêves. Un discours de Wim Wenders”, in “Le Grand Continent”, 1 febbraio, disponibile online (in lingua francese): https://legrandcontinent.eu/fr/2025/02/01/la-force-des-reves-un-discours-de-wim-wenders/
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.
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