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Il teatro, un ponte nel Mediterraneo

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2019 @ 01:37 In Cultura,Migrazioni | No Comments

copertinadi Bernardino De Bernardis

Immigrazione, clandestinità, integrazione, sono tra le parole più usate, spesso abusate, al nostro tempo tanto che nemmeno l’edizione di Sanremo 2019 ne è stata risparmiata. Sul piccolo e grande schermo l’argomento è ormai uno dei temi delle sceneggiature. Da qualche tempo anche il teatro si è fatto avanti, forse su questo fronte con un piccolo ritardo. Ospitiamo il punto di vista di un regista, autore del testo e interprete della pièce Immigrati brava gente, che tratta immigrazione e clandestinità in salsa partenopea dove gli “immigrati” e soprattutto i “clandestini” come categoria siamo noi: ne esce un lavoro articolato che mette insieme la lezione della commedia napoletana classica con lo stile fiction e nuova cinematografia locale dove i temi di attualità sono trattati in versione pop. Una commedia sulle paure sociali e il coraggio di affrontarle che fotografa il Mediterraneo di oggi e non solo quello della sponda nord. D’altronde ogni Paese ha un suo sud e la Tunisia in testa, ad esempio, si è paragonata all’Italia rispetto all’accoglienza, alla diffidenza e al razzismo – in quel caso verso gli ‘africani’ – oggetto oggi di un’autocritica. Un quadro sociale ma anche culturale che ci racconta questo continente liquido in continuità con il passato dove spesso l’incontro è diventato uno scontro.

Vorrei partire proprio dalla rilettura della storia citando un passaggio dell’Eneide, Libro I 538-543 di Virgilio che recita Huc pauci vestris adnavimus oris. Quod genus hoc hominum? Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Hospitio prohibemur harenae; bella cient primaque vetant consistere terra. Si genus humanum et mortalia temnitis arma, at sperate deos memores fandi atque nefandi: «In pochi a nuoto arrivammo qui sulle vostre spiagge. Ma che razza di uomini è questa? Quale patria permette un costume così barbaro, che ci nega perfino l’ospitalità della sabbia; che ci dichiara guerra e ci vieta di posarci sulla vicina terra. Se non nel genere umano e nella fraternità tra le braccia mortali, credete almeno negli Dei, memori del giusto e dell’ingiusto».

Non è dunque un tema nuovo ma una dimensione che da sempre appartiene al Mediterraneo e che lo ha reso quello che è oggi, anche nel teatro e nella cultura in generale. Nella società ‘mediatizzata’, dove quasi tutto è apparenza e comunicazione – pena non esistere – sempre più condizionata dallo schermo del computer in un’esposizione e rappresentazione costante e virtuale, il teatro gioca un ruolo essenziale, di azione, come racconta la stessa parola, “dramma”, da drama, azione appunto. Tra l’altro, se ogni forma d’arte è per definizione catartica, il teatro proprio per la sua peculiarità riesce più delle altre a creare le condizioni, sia per l’attore che per lo spettatore, ideali per proiettare e quindi esorcizzare le emozioni su elementi neutrali come un personaggio e una storia, permettendo a tutti di vedere da una prospettiva forse più obiettiva il tema affrontato.

La forza del teatro, sia nella forma scenica sia di concerto, ancor più oggi di ieri, è proprio quella di offrire l’opportunità di una condivisione vera e non virtuale che garantisca ancora un sincero processo di socializzazione sempre più minato dall’era dei social. Il teatro, a differenza di tutte le altre forme d’arte, ha come peculiarità quella di necessitare della copresenza hic et nunc di chi “usufruisce” dell’evento e di chi lo “fornisce”; questa copresenza fa sì che l’evento si trasformi in un rito in cui il ruolo tra spettatore e attore per certi versi si confonde e si sovrappone diventando un’unica entità al servizio dell’emozione.

1A tal proposito mi piace ricordare un’esperienza personale come attore allievo, non ancora come regista – è un auspicio – che ho avuto modo di vivere nel corso del Master di 1° Livello di Teatro nel Sociale e Drammaterapia presso Università La Sapienza, con persone di provenienze diverse, ad esempio dei rifugiati. Si è trattato di un incontro molto stimolante sia a livello emozionale i percorso psicologico personale, sia di arricchimento dei linguaggi del corpo e verbali, oltre che di contenuti, per lo spettacolo. In questo senso il teatro è vita, è più che una simulazione del confronto.

Proprio restando nel Mediterraneo dov’è nato il teatro occidentale, in Grecia con la tragedia e la commedia e il teatro delle marionette, da sempre ha una funzione sociale che racconta popoli diversi mettendo al centro il dialogo tra l’umano e il divino, i cittadini e gli stranieri. Ritengo che il teatro sia rimasto l’unico baluardo contro l’imperante imperversare di realtà virtuali di socializzazione in cui le emozioni sono sempre frutto di filtri che alterano la veridicità dei rapporti. In tal senso il teatro, pur essendo paradossalmente tra le più antiche forme d’arte, si propone come strumento tra i più trasgressivi, rivoluzionari e innovativi.

Nello specifico, sul tema dell’immigrazione, il teatro riesce ad essere la forma d’arte più inclusiva di tutte e in questo si dimostra sempre attuale e originale nonostante la sua millenaria esistenza. Sin dai greci e ancor prima, l’uomo cercava di proiettare nei riti prima e nell’azione drammaturgica dopo la propria esigenza di dare un senso alla realtà che li circondava. La grande attualità della citazione del passaggio dell’Eneide di Virgilio ci fa capire quanto temi come la paura nei confronti della diversità, la precarietà dell’essere umano che non può bastare a se stesso ma necessita sempre di una comunità che lo sostenga, siano temi trasversali senza tempo e senza spazio che intercettano domande archetipe che accompagneranno sempre l’uomo.

Non ritengo di essere in grado di mandare messaggi depositari di una verità assoluta, tanto più su un tema così difficile, né tanto meno penso che il teatro debba dare risposte, piuttosto forse il compito è quello di smuovere le coscienze con domande che possano spingere la gente quantomeno a riflettere e mettersi in discussione. Tuttavia non voglio eludere la responsabilità di chi sale su un palcoscenico: è inevitabile, essendo anche autore del testo nel caso dello spettacolo Immigrati brava gente, che vi sia un mio punto di vista sulla questione che penso emerga proprio da una domanda che il protagonista rivolge all’immigrato in una scena dello spettacolo durante un confronto serrato e per certi versi duro, quando dice: «aiutami a capire se esiste un modo per fare del bene senza rischiare». Egli non ha una preclusione pregiudiziale all’accoglienza ma non riesce a vincere le sue legittime paure, vorrebbe limitarsi a dare l’elemosina in chiesa da buon cristiano senza correre alcun rischio e per questo sentirsi la coscienza a posto ipotecando il suo posto in paradiso. Ma forse dietro questo atto, apparentemente cristiano, si nasconde semplicemente un comprensibile sentimento egoistico. Penso che il vero bene comporti inevitabilmente un rischio che va in qualche modo corso, perché anche quando alzi i muri solo apparentemente pensi di averli evitati, ma purtroppo quei rischi e quelle minacce si risolvono solo rimuovendo le cause che le hanno determinate e non evitando i sintomi.

Napoli-@Donato-r51

Napoli (@Donato-r51)

A proposito del mio testo ma in generale della scrittura teatrale, vorrei soffermarmi sulla scelta della lingua dialettale napoletana che racconta una città carrefour da sempre di popoli mediterranei, come dimostra anche la contaminazione della sua musica. Personalmente il dialetto in genere ritengo che sia il linguaggio del cuore; un’emozione ha più facilità ad essere espressa nel linguaggio che ha caratterizzato il tuo substrato culturale e familiare. Nel caso specifico il dialetto, qualsiasi esso sia, è un po’ la carta d’identità culturale di un luogo. Da una prima valutazione questo potrebbe sembrare un limite nell’ottica di un confronto inclusivo, ma invece penso che sia l’opposto, proprio perché è la carta d’identità di un luogo ne evidenzia anche tutte le sue influenze e contaminazioni che nel corso degli anni ci sono state. In questo il dialetto napoletano è carico di risonanze, colmo di richiami ad altre esperienze linguistiche frutto di dominazioni succedutesi nei secoli e in questo si possono trovare anche molte opportunità drammaturgiche in fase di scrittura.

L’ambientazione a Napoli è una scelta precisa, al di là della mia origine. Si tratta infatti di città mediterranea singolare dove lo spettacolo, la commedia in teatro e la musica hanno un’importanza clamorosa e ‘paradossalmente’ una grande universalità, grazie alla sua notorietà mondiale. Può diventare un simbolo e anche la sua lingua non è più percepita come un fatto locale. Napoli è infatti una città che nelle sue mille contraddizioni forse vive più di altre già nelle sue viscere il confronto con le diversità in genere e le paure che questo comporta. Tuttavia alle mille contraddizioni contrappone i mille culur come il grande Pino Daniele cantava in quello che è forse il manifesto in canzone di una intera città. L’auspicio è che da questi mille colori possa emergere un affresco di armonia nel rispetto reciproco delle diversità.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019 
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Bernardino De Bernardis, attore e regista, vive e lavora a Roma dove attualmente collabora con tre compagnie teatrali. Tanti gli spettacoli dei quali è stato interprete tra i quali Lo Zoo di Vetro di Tennessee Williams e L’Orso di Anton Pavlovic Cechov, la regia di E. Garinei-Roma; Il Gabbiano Jonathan, regia di F. Anzalone-Roma; Napoli Milionaria di Eduardo De Filippo, regia Gianni Giaconia; e Io non posso entrare, regia Paola Tiziana Cruciani presso il teatro Sette. Spesso autore, regista e interprete degli spettacoli come in Binari Paralleli; Ricomincio dal Presepe, Castelli di sabbia e Raccontami una storia, dopo la laurea in “Arte e scienze dello Spettacolo” presso l’Università degli studi “La Sapienza” di Roma, si è specializzato in “Saperi e Tecniche dello Spettacolo Teatrale”. Ha frequentato il Corso di regia teatrale diretto dal regista Duccio Camerini.
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