Stampa Articolo

Il paradosso dello Stato-nazione: critica dell’ontologizzazione nel pensiero di Michael Herzfeld

9791256141180-lostatonazione-coverdi Pietro Vereni

1.   Introduzione

Nella sua opera Lo Stato-nazione e i suoi mali (2024), Michael Herzfeld propone una critica radicale alla confusione tra “Stato” e “nazione”, ritenendola responsabile di derive razziste, esclusiviste e violente nelle società contemporanee. Tuttavia, la sua argomentazione si fonda su una tensione interna: mentre da un lato lo Stato-nazione viene tematizzato come entità concettuale riconoscibile e costante, dall’altro lato l’etnografia che ci offre mostra la scomposizione quotidiana, la permeabilità, l’instabilità di quell’apparente monolite teorico. Questa tensione è, a mio avviso, più di un problema retorico: si tratta di una contraddizione epistemologica che mette in discussione la coerenza dell’impianto teorico del lavoro di Herzfeld.

Sintesi del volume

Nel libro Herzfeld riflette criticamente sulla confusione ideologica e politica tra Stato e nazione, che a suo avviso è una delle fonti principali dei mali contemporanei: razzismo, esclusione, nazionalismo aggressivo e persino genocidio.

Lo Stato viene presentato come una struttura amministrativa con funzioni pratiche, mentre la nazione è vista come un’entità mitica, spesso idealizzata, che pretende un’identità unica, pura e immutabile. Quando le due cose si fondono in un’unica idea, lo Stato finisce per diventare strumento di esclusione e veicolo di una retorica identitaria che può giustificare anche la violenza sistemica.

10347455Herzfeld insiste all’inizio sull’importanza di distinguere fra “Paese” (realtà politica e territoriale) e “nazione” (costruzione simbolica ed emotiva) ma non sembra perseguire questa idea – che compare in una simile formulazione anche in Geertz (1999) – per sondare invece altre direzioni. Propone un’antropologia che non si limiti a studiare i gruppi subalterni, ma che osservi anche i meccanismi del potere, smascherando le retoriche ufficiali, le complicità culturali e le “intimità” che rendono normale l’esclusione.

Roma, e in particolare il quartiere Monti – assieme a riferimenti contrappuntistici con la Grecia e la Thailandia, gli altri due “campi” di Herzfeld – è il caso emblematico di questa riflessione: una capitale dove lo Stato e la retorica dell’“eternità” convivono con il degrado, la gentrificazione, le pratiche clientelari e la solidarietà informale. La città diventa un laboratorio in cui vedere come la cultura e il potere si intrecciano nella vita quotidiana.

2.   Lo Stato-nazione come oggetto ontologizzato

Fin dal titolo, Herzfeld assume il “modello Stato-nazione” come un oggetto storico definibile, stabile, riconoscibile. Il testo costruisce un’immagine dello Stato-nazione come macchina di naturalizzazione dell’identità, razionalizzazione del potere e giustificazione della violenza. Questo approccio ricorda il modo in cui Timothy Mitchell (1991) ha definito lo “Stato” come un effetto strutturale, ossia come una costruzione discorsiva che separa artificialmente sfera pubblica e privata, interno ed esterno, per produrre l’illusione di un’entità autonoma e sovrana.

Tuttavia, Herzfeld compie un passaggio ulteriore: attribuisce allo Stato-nazione un’intenzionalità maligna, rendendolo il luogo primario del razzismo istituzionale. In questo senso, l’analisi di Herzfeld rischia di cadere in ciò che James Ferguson (1994) ha definito “reificazione del potere statale”, ovvero il trattare il “governo” come un soggetto coerente e centralizzato, laddove invece si ha a che fare con regimi multipli di pratiche e rappresentazioni.

71ewbgisaal-_ac_uf10001000_ql80_3.   L’etnografia come critica implicita dell’ontologizzazione

A contraddire l’idea di uno Stato-nazione compatto e maligno, interviene però la ricca etnografia romana e comparata che Herzfeld sviluppa nel cuore del libro. L’autore esplora pratiche burocratiche informali, gestualità quotidiane, solidarietà marginali, dialettalità e “intimità culturale” (Herzfeld 2005) che mostrano come la sovranità statale sia sempre incompleta, frammentata, negoziata.

Queste osservazioni trovano consonanza con gli studi di Akhil Gupta (2012), per cui lo Stato deve essere pensato non come una totalità ontologica, ma come un insieme eterogeneo di pratiche diseguali e spesso incoerenti, che si presentano come unità solo perché credute tali. In altre parole, la percezione del potere statale come entità compatta è già il risultato di un “effetto Stato” (Mitchell), e non di una realtà univoca.

L’etnografia di Herzfeld, pur senza tematizzarlo esplicitamente, decentra l’autorità dello Stato-nazione e ne mostra la dipendenza dalla performatività dei cittadini, dai codici locali, dalle pratiche di negoziazione e persino dalle forme di complicità quotidiana.

bourdieu24.   La contraddizione epistemologica e l’illusione della doxa

Questa tensione interna può essere letta alla luce di un’intuizione epistemologica di Pierre Bourdieu (2005): la nozione di illusione della doxa. Con questo termine, Bourdieu indica un errore del pensiero critico che, pur volendo smascherare le forme di legittimazione del potere, finisce per adottare le stesse categorie di pensiero che quel potere ha naturalizzato. È la condizione in cui il ricercatore pensa con le categorie del potere, anziché sulle categorie del potere.

Nel caso di Herzfeld, l’illusione della doxa si manifesta nel trattare lo Stato-nazione come se fosse un oggetto concettuale coerente e riconoscibile, invece di interrogarlo come costruzione storica e discorsiva. L’autore denuncia l’essenzialismo identitario degli Stati moderni, ma presuppone una forma essenzializzata del concetto di Stato-nazione, attribuendogli tratti omogenei (razionalità burocratica, violenza razzista, sacralizzazione dell’identità) che ne fanno una figura quasi mitologica. Nel capitolo conclusivo, è vero, sembra ricredersi e cede a una definizione contestuale dello Stato, ma è piuttosto sintomatico che questa definizione non sia quella effettivamente utilizzata in tutto il corso del volume.

La rigida oggettivazione dello Stato-nazione entra in conflitto non solo con l’epistemologia cui Herzfeld si dichiara fedele, ma con la stessa etnografia che egli produce: la realtà osservata è fatta di negoziazione, ambiguità, intimità, compromesso, mentre il concetto teorico mobilitato sembra appartenere a un livello di astrazione incompatibile con la complessità empirica.

Nel lessico bourdiano, si potrebbe dire che Herzfeld critica la doxa dello Stato-nazione senza mettere in discussione la propria adesione parziale a quella stessa doxa. E così rischia di naturalizzare il nemico che vorrebbe decostruire.

71-gofwcpol-_ac_uf10001000_ql80_dpweblab_5.   Il fraintendimento del “razzismo cortese”

Nel corso del testo, Herzfeld propone una lettura del discorso sulla cultura nazionale come manifestazione di un “razzismo cortese”, ovvero una forma apparentemente soft ma sostanzialmente violenta di esclusione razziale (ivi: 116, 121 e passim). Tale concetto riprende, in parte, le nozioni di “nuovi razzismi” o “razzismo differenzialista” elaborate da Balibar e Wallerstein (2019) e da Taguieff (1994), secondo cui il riferimento alla cultura può diventare un dispositivo per mascherare una gerarchia di tipo razziale. Tuttavia, la formulazione di Herzfeld appare discutibile sul piano logico: per sostenere che l’orgoglio culturale equivalga a razzismo mascherato, bisognerebbe dimostrare che i suoi promotori ritengano la cultura non trasmissibile, esattamente come non lo è la stirpe biologica. In assenza di tale dimostrazione, e a fronte del fatto che la maggior parte dei discorsi nazional-conservatori presuppone invece la possibilità o addirittura l’auspicabilità dell’assimilazione culturale, l’equiparazione tra orgoglio nazionale e razzismo si rivela infondata. In questo senso, Herzfeld finisce per imputare alle destre culturali una forma di razzismo che esse, nella maggior parte dei casi, non sostengono né in teoria né in pratica. Mescolare patriottismo culturale e razzismo non è solo un errore analitico: è una strategia retorica che svuota la categoria di “razzismo” del suo potenziale critico, rendendola sinonimo di qualsiasi affermazione di identità collettiva. Una critica antropologica coerente dovrebbe invece distinguere tra esclusione violenta e coscienza culturale, evitando così di riprodurre essa stessa le dinamiche di semplificazione ideologica che intende decostruire.

6.   Lo Stato come spazio intermedio?

Pur condividendo molte delle premesse teoriche avanzate da Michael Herzfeld – in particolare la critica alla naturalizzazione dell’identità nazionale, la necessità di storicizzare i dispositivi di appartenenza e l’attenzione all’intimità culturale come codice situato – la mia prospettiva si discosta sensibilmente dalla sua nel momento in cui si affronta il nodo dello Stato-nazione come oggetto politico. Herzfeld, infatti, tende a rappresentare lo Stato nazionale quasi esclusivamente come un apparato burocratico di controllo e normalizzazione, una struttura pervasiva che produce esclusione e che agisce come veicolo delle violenze culturali e simboliche più o meno esplicite del potere. A mio avviso, questa visione risulta riduttiva, per due motivi differenti che tratterò separatamente.

97808166243796.1     La passione per lo Stato

Cresciuto in terra veneta e educato proprio a Venezia tra gli undici e i vent’anni, sono stato esposto alle incredibili vette artistico-culturali della Serenissima Repubblica, vale a dire uno Stato il cui nome, non posso farci nulla, mi emoziona, e insieme ho dovuto sorbirmi le miserie morali della nathion veneta che in quei primi anni Settanta cominciava a gettare il suo fango anti-meridionalista per arrivare alla  fondazione della Liga Veneta nel 1979. Intendo dire che non si realizza sempre lo scisma morale – che Herzfeld sembra porre per assodato – tra Stato freddamente burocratico e nazione invece suscitatrice di calorosa passione. Sono sicuro che molti potrebbero citare dei momenti in cui è lo Stato, con la sua efficienza, con la sua struttura, con la sua gerarchia, ad avere la meglio quanto a sex appeal sulla nazione, soprattutto quando questa si presenta nel suo lato più gaglioffo.

Michael avrà sicuramente conosciuto dei misellines come li ho conosciuti io: uomini e donne (più spesso uomini) che hanno avuto esperienze lavorative o di vita all’estero e che tornano sprezzando senza particolari reticente l’inefficienza del sistema amministrativo greco e, soprattutto “la mentalità” (η νοοτροπία) del popolo greco. Ammiratori della validità teutonica (e perfino italiana!) questi “greci odiatori dei greci” fanno il tifo per quella burocrazia e per l’apparato normativo che sentono manchevole nella loro patria d’origine.

Anche in Italia ci sono persone che – come me – pensano che le strutture burocratiche, le gerarchie amministrative e la precisione anche nelle catene di comando siano state necessarie, per esempio, per avere la Biblioteca Marciana, un tesoro di efficienza amministrativa sedimentato in secoli di noiosi regolamenti e sistemi di coerente organizzazione dei volumi, oppure per gestire per secoli una struttura architettonica così fragile come la Basilica di San Marco. Senza l’istituzione nota come “Fabbrica di san Marco”, che è stata espressione diretta dello Stato veneziano (non della Chiesa, cui è stata ceduta dopo l’unificazione italiana), il lavoro molteplice e frammentario dei mercanti, dei marinai, dei soldati, dei predicatori, dei predoni, degli architetti, degli ingegneri, degli scalpellini, degli innumerevoli artigiani e degli idealisti veneziani non si sarebbe mai potuto sedimentare nel corpo della Basilica, e sarebbe stato un inane dibattersi anarchico e disorganizzato di interessi individuali e in conflitto.

In effetti, è ogni pietra restaurata, ogni canale dragato con cura, che a Venezia ci ricordano che senza un Magistrato alle Acque severo fino alla spietatezza non potremmo ammirare la bellezza che tanto affascina i visitatori di tutto il mondo. Chi danneggiava il sistema idrico era considerato un traditore dello Stato, perché Venezia stimava le acque della laguna come la sua cinta muraria e quindi ogni intervento doveva essere gestito direttamente dallo Stato, lasciando poco o nulla spazio alla creatività o alla libertà degli individui, delle corporazioni o anche dell’intera nazione come gruppo fisico di esseri umani, che sapevano di essere tali, in quel contesto, solo se accettavano di essere parte integrale di una struttura amministrativa complessiva, lo Stato, appunto.

71busscs31l-_ac_uf10001000_ql80_Cosa viene a vedere, il turista che scende a Venezia? La bellezza dello Stato, l’incredibile capacità che gli esseri umani hanno di unire estetica e politica, bellezza e potere. Da un coacervo di banditi, cavadori di sale e fuggiaschi dalla terraferma, l’amministrazione della Repubblica Serenissima ha prodotto una forma di spazio mai vista prima, e una civiltà che è entrata a pieno titolo tra le grandi della storia umana. La nazione veneta si è cominciata a pensare tale coagulandosi attorno alla forza militare, economica, politica e culturale dello Stato veneziano.

“Schettino salga a bordo, cazzo!” è una frase che ogni italiano che abbia più di trent’anni riconosce immediatamente, e collega alla tragica notte del 13 gennaio 2012, quando la nave Concordia stava affondando e il comandante fuggì ignominiosamente, alla faccia dell’intimità culturale, verrebbe da dire, visto che il danno alla nave fu causato dalla bravata del comandante Schettino, che si avvicinò troppo alla riva per fare il cosiddetto “inchino” all’isola del Giglio. Gregorio De Falco pronunciò quell’ordine, così inconsueto nella forma, perché era l’allora ufficiale della Capitaneria di Porto di Livorno, vale a dire incarnava lo Stato. In quei momenti De Falco era lo Stato, con la sua ossessione per le regole e per l’assunzione di responsabilità in quanto suo “servitore”, mentre Schettino non era altro che l’ennesimo Pulcinella italiano. Con il dovuto rispetto per Pulcinella, possiamo dire con serenità che l’intera cittadinanza italiana si è schierata dalla parte di De Falco, cioè dello Stato, con un forte senso di passione e di orgoglio.

Che è lo stesso orgoglio, per restare in tema di inchini e genuflessioni inopportune, che fa sì che la gran parte dei cittadini italiani, siciliani compresi, non trovi particolarmente attraente la pratica di “piegare i santi” di fronte alle case dei mafiosi e preferisca avere come propri eroi culturali servitori dello Stato come Falcone e Borsellino e i molti altri (fino, non dimentichiamolo, al fratello dell’attuale Presiedente della Repubblica, che in Italia ha soprattutto la funzione sacrale di incarnare il potere dello Stato) che si sono sacrificati perché l’Italia resistesse alle terribili pressioni del crimine organizzato.

Gli Stati (non solo moderni), intendo dire, possono suscitare grandi passioni in quanto Stati, senza bisogno di fare riferimento ad alcuna dimensione nazionale e quindi possono essere oggetto di investimento emotivo non meno delle nazioni. Ma è quando pensiamo agli Stati come soggetti di regolamentazione puntigliosa che possiamo evidenziare un altro loro lato affascinante, che non sembra emergere nella raffigurazione che ci presenta il libro di Herzfeld.

71zhw0qnqml-_ac_uf10001000_ql80_6.2 Lo Stato contro il mercato

Prestare attenzione allo Stato solo come fredda macchina di servizi, incapace di esercitare un ruolo politico in senso etimologico, ma costretta a tenere in piedi dispositivi tanto anonimi quanto necessari, è una visione che rischia di eludere la funzione integrativa in senso sociale che lo Stato nazionale ha storicamente esercitato. Se, come suggerisce Ernest Gellner (1983), l’omogeneizzazione linguistica e culturale promossa dagli Stati moderni è stata una condizione necessaria all’emergere del capitalismo industriale, è altrettanto vero, come ricorda Karl Polanyi (2010), che gli stessi Stati nazionali hanno storicamente rappresentato l’unico argine politico alla spontanea espansione del mercato autoregolato. In tal senso, lo Stato-nazione non è solo una macchina di produzione dell’identità e della disciplina, ma anche uno strumento di contenimento dell’imperialismo economico globale.

Gellner sottolinea come la standardizzazione culturale e la creazione di una lingua nazionale abbiano permesso la formazione di economie nazionali efficaci, rendendo possibile la cooperazione tra individui provenienti da regioni distanti e culturalmente eterogenee. Questa forma di omogeneizzazione, tuttavia, non coincide con l’omogeneizzazione totale promossa dal mercato globale, che – come ci ha insegnato Polanyi – tende a trattare ogni ambito dell’esistenza (all’inizio natura, lavoro, denaro, e poi salute, istruzione, vita) come merce fungibile, astratta e scambiabile indipendentemente dai contesti sociali e culturali.

Il punto centrale, dunque, è che, mentre Herzfeld tende a leggere lo Stato come parte integrante del problema – ovvero come veicolo della violenza più o meno razionale della modernità – io credo che lo Stato, e in particolare lo Stato nazionale, vada invece compreso come uno spazio di mediazione: non la  soluzione definitiva, certo, ma neppure il cuore del problema. È il luogo in cui si negoziano diritti, si costruiscono rappresentanze, si organizzano resistenze, si articolano domande di riconoscimento collettivo. È il terreno sul quale si produce quella che potremmo chiamare una “differenza organizzata”: una forma di appartenenza che non si dissolva nell’indistinto globale, ma che neppure si chiuda nella pura località pre-statale.

In altri termini, mentre Herzfeld denuncia con forza l’ipostatizzazione della nazione come entità organica e sacra, sembra al tempo stesso ipostatizzare negativamente lo Stato, come se fosse un blocco compatto, impermeabile, refrattario alle negoziazioni dal basso. Ma se, come egli stesso sostiene, l’antropologia ci insegna che ogni realtà sociale è sfumata, situata, contraddittoria, allora anche lo Stato andrebbe analizzato nella sua plasticità politica e nella sua porosità etnografica.

Per essere franchi, ritengo che lo Stato-nazione abbia svolto, e possa tuttora svolgere, una funzione protettiva contro l’espansione illimitata del mercato. In questo senso, molti fenomeni identificati come “nazionalisti” o “populisti” potrebbero essere riletti, alla luce della lezione di Polanyi, come tentativi di resistenza localizzata all’universalismo astratto del capitalismo globalizzato. Lo Stato-nazione non è necessariamente una macchina di esclusione; può anche costituire uno spazio intermedio, un livello identitario e politico che si colloca tra la micro-comunità locale e l’indistinto globale. È questa ambivalenza dello Stato che credo debba essere recuperata, proprio contro le visioni manichee che vedono in esso unicamente lo strumento della coercizione moderna.

Mi domando, con sincero spirito di confronto e con l’affetto che si deve a un collega che considero non solo un punto di riferimento intellettuale, ma anche un amico dal raro spessore umano, come si possa tenere insieme — senza attriti — una metodologia etnografica così sensibile alle sfumature locali, alle ambiguità situate, ai codici relazionali più minuti, con una rappresentazione dello Stato-nazione che, in questo libro, appare invece marcatamente generalizzante e costruita secondo logiche ideal-tipiche.

Forse è proprio in questa tensione — tra il microscopio dell’etnografo sul campo e la cornice compatta della “teoria antropologica” — che si annida una questione epistemologica profonda, che varrebbe la pena di portare alla luce in modo esplicito e condiviso.

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Riferimenti bibliografici
Anderson, B. (1983). Imagined Communities. Verso.
Balibar, É., Wallerstein, I. (2019) [1988]. Razza, nazione, classe: le identità ambigue. Trieste, Asterios.
Bourdieu, P. (2005) [1980]. Il senso pratico, Roma, Armando.
Ferguson, J. (1994). The Anti-Politics Machine. University of Minnesota Press.
Geertz, C. (1999) Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, il Mulino.
Gellner, E. (1983). Nations and Nationalism, Ithaca, Cornell UP.
Gupta, A. (2012). Red Tape: Bureaucracy, Structural Violence, and Poverty in India. Duke University Press.
Herzfeld, M. (2005). Cultural Intimacy: Social Poetics in the Nation-State. Second edition. London-New York, Routledge.
Mitchell, T. (1991). “The Limits of the State: Beyond Statist Approaches and Their Critics”. American Political Science Review, 85(1), 77-96.
Polanyi, Karl. (2010) [1944]. La grande trasformazione: le origini economiche e politiche della nostra epoca. Torino, Einaudi.
Taguieff, P.-A. (1994) [1990]. La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, Bologna, il Mulino.

_____________________________________________________________

Pietro Vereni, professore associato di Antropologia culturale nell’Università di Roma “Tor Vergata”, insegna «Urban & Global Rome» nel campus romano del Trinity College (Hartford, Connecticut). Dal 2018 è abilitato di prima fascia nel settore M-DEA/01 Discipline Demoetnoantrologiche. Ha effettuato ricerche sul campo sul confine della Macedonia occidentale greca (1995-97) e sul confine irlandese (1998-99). Si è occupato di antropologia politica e delle identità e antropologia dei media, e attualmente conduce ricerche di antropologia economica sulla diaspora della paternità bangladese, sul sistema carcerario in Italia, sulla diversità religiosa a Roma e sulla funzione politica delle occupazioni a scopo abitativo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: “Come si rimane. Diaspore religiose e strategie di permanenza culturale”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, Rivista trimestrale, 1/2020. “Il nodo gordiano e il filo di Arianna. La forma dello spazio nella crisi del Covid-19”, in Documenti geografici, 1 (ns), gennaio-giugno 2020. “De consolatione anthropologiae. Conoscenza, lavoro di cura e Covid-19”, in F. Benincasa e G. de Finis (a cura di), Closed. Il mondo degli umani si è fermato, Roma, Castelvecchi, 2020; Perché l’antropologia ci aiuta a fare politica (e a vivere meglio), Roma, Castelvecchi, 2021.

______________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>