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Il paradigma storicistico di Ernesto De Martino. L’ethos del trascendimento

483103204_671020425276664_3826798167614829383_ndi Sonia Giusti [*]

Introduzione                                                  

Il materiale raccolto da Ernesto De Martino nella sua opera postuma, La Fine del Mondo, si concentra sul tema della crisi dei valori del mondo contemporaneo che sembra incarnare una incipiente apocalisse culturale. Particolare attenzione è posta sui temi dell’esistenzialismo e della fenomenologia, nell’ottica di uno storicismo critico e di un neoumanesimo che vede nella memoria storica la costruzione di mondi, appaesati, resi tali dagli sforzi comunitari per una domesticità del mondo in cui rientra il rapporto natura-cultura che rinvia al pensiero di Croce, Gramsci, Heidegger [1].

Con un interesse particolare per la letteratura apocalittica, che denuncia il disagio della modernità come sintomo di crisi, Ernesto De Martino distingue le apocalissi culturali dalle apocalissi psicopatologiche precisando che nella vita religiosa il tema della fine del mondo si inserisce nel quadro escatologico, mentre nell’attuale congiuntura culturale dell’Occidente questo tema si diffonde come possibilità che l’umanità si autodistrugga. Il senso culturale della fine del mondo è messo a confronto con il documento psichiatrico in un progetto complesso, già anticipato nel Mondo magico, che si arricchisce di molteplici passaggi interdisciplinari gestiti nella contemporaneità delle patrie culturali. Le sue argomentazioni, di notevole spessore teorico, sono sostenute dalle spedizioni etnografiche nel Meridione italiano, svolte in Lucania e Puglia, tra il 1952 e il 1959.    

Il termine paradigma, inserito nel titolo di queste riflessioni sulla ricerca di Ernesto De Martino, è usato qui con il significato attribuitogli da Thomas S. Kuhn, che ha due caratteristiche:

 «i risultati presentati sono sufficientemente nuovi per attrarre uno stabile gruppo di seguaci, distogliendoli da forme di attività scientifiche contrastanti con essi e nello stesso tempo sono sufficientemente aperti da lasciare al gruppo di scienziati costituitisi su queste nuove basi, la possibilità di risolvere problemi di ogni genere» [2].

29786Prima di entrare nel vivo della grande opera postuma di Ernesto De Martino, laboratorio ancora aperto ai problemi dello storicismo italiano, ci sembra utile precisare la centralità del tema dell’esistenza nel pensiero demartiniano, come “potenza di esistere”, concetto già presente in Naturalismo e Storicismo nell’etnologia del 1941.

Fu Enzo Paci a rilevare, nella recensione a Il mondo magico, la presenza della filosofia esistenzialista, ma è certo che De Martino aveva già in mente il pensiero di Vico il quale, cercando nella natura del linguaggio e della religione, sentiva che nelle età primitive «le forme spirituali possiedono già una energia, una corpulenza». Per Vico la preistoria è già storia: di fronte alla possibilità di capire le menti di quei primi uomini “tutte seppellite ne’ corpi”, egli scrive:

«… in tal densa notte di tenebre, ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamare in dubbio: che questo mondo civile è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana» [3].    

De Martino aveva letto La natura come storia senza storia da noi scritta, in La storia come pensiero e come azione, dove Croce sostiene che la storicità non si nega agli esseri naturali; una storicità non scritta, dice Croce, nel senso che non sarebbe sostenuta da un “bisogno di azione”. De Martino scopriva anche tra i popoli primitivi “il bisogno di azione”, la minaccia dell’annientamento e la volontà di salvezza, trovando nel magismo un fatto culturale nient’affatto naturalistico, ma piuttosto una energia propositiva. In questo senso l’angoscia per la perdita della presenza è all’origine della cultura, ma per De Martino «non l’essere degli esistenzialisti, ma l’ethos del trascendimento è il principio dello stare al mondo». Il filo conduttore dello storicismo demartiniano, senza residui metafisici, è crociano e vichiano, a cominciare dal suo saggio del 1933, Il concetto di religione. Il progetto di una etnologia storicistica si innesta sul libro di Croce, La storia come pensiero e come azione (1938) dove l’A. scrive che la storicità non si nega agli esseri naturali, quindi neanche ai popoli primitivi, altrimenti, a catena, si dovrebbero escludere dalla storia anche genti straniere considerate inferiori.

Ripensando questo concetto crociano, Renata Viti Cavaliere sostiene che anche Croce auspicava perciò l’emancipazione del pensiero storico dal naturalismo e scrive:

«Oggi ci appare davvero liberatorio lo studio demartiniano dei popoli primitivi che lasciava emergere con straordinaria efficacia il processo di strutturazione dell’umano nel rapporto intimo col mondo fino all’affermazione del Sé come soggetto autonomo e spontaneità creatrice. Eroico ci sembra quel ripensamento dello storicismo avvenuto in tempi difficilissimi … quando fu scritto Il mondo magico».

VERITA' E METODORenata Viti Cavaliere definisce eroico il suo storicismo coltivato in tempi difficilissimi e “davvero liberatorio” lo studio dei popoli primitivi dal quale emergeva il processo di strutturazione dell’umano e l’affermazione del «Sé come spontaneità creatrice» [4].

Nel Mondo magico De Martino parla di storicismo eroico contrapponendolo allo “storicismo pigro e sermoneggiante” di chi intende interpretare la realtà in una forma statica, uno storicismo come “potenza rivoluzionaria” che fecondi la conoscenza storica. In questo progetto il mondo magico – con il problema dei suoi poteri e di chi li esercita – rappresenta la sfida cognitiva capace di incrementare la consapevolezza storica, e la formazione di un nuovo umanesimo [5].

Per capire il peso della filosofia esistenzialista nell’impianto sistematico della ricerca demartiniana, è utile un riferimento al pensiero di Hans Georg Gadamer (1900-2002), allievo di Martin Heidegger, del quale ha condiviso l’esigenza di comprendere, come modo di essere, l’Esserci immerso nella propria concreta situazione storica. Il filosofo tedesco affronta le questioni centrali della teoria ermeneutica esistenzialistica, concentrandosi nel suo principale tema che è la comprensione. La ragione, scrive Gadamer, è una continua autochiarificazione; è la ragione degli illuministi, non dogmatica e assoluta, quella che opera criticamente su se stessa; e ci ricorda il detto di un venerabile erede della cultura antica, Simmaco, orientato contro la pretesa di potere della nuova religione, in nome dell’antica tradizione romana che vale anche oggi in nome della ragione contro ogni dogmatismo, quale che sia la sua provenienza: “uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum”.            

Gadamer ci ricorda come in Grecia, per la prima volta, Aristotele, nella Politica, dice: l’uomo ha il logos «non come ragione, ma come discorso», cioè l’uomo ha il linguaggio che non esprime solo dolore o piacere, ma ciò che è utile o dannoso, giusto o ingiusto, trovando in questo contesto un’altra parola, ethos, che indica il comportamento responsabile di chi sceglie, di chi imposta la sua propria vita nella comunità.

A Platone è legata la forza civile della parola paideia:

«il compito dell’uomo e il compito della politica consistono nell’avere il potere senza usarlo impropriamente per l’accrescimento del proprio: questo è il grande insegnamento della filosofia platonica, cioè solo per mezzo della paideia, solo per mezzo dell’educazione, si può vincere l’istinto di aggressione radicato nell’uomo».

L’ideale di Platone è la priorità della vita teoretica sulla politica, ideale che si consolidò con la fondazione dell’Accademia e con la metafora della caverna. Scrive Gadamer: Nella Repubblica, Platone parla di “cibi spirituali” e della loro somministrazione per mezzo della nuova retorica e commenta:

«Infatti questi cibi non possono essere assaggiati prima di venire in tavola, cioè le convinzioni inculcate per mezzo di corsi penetrano immediatamente, e chiunque presti loro ascolto e si lasci convincere è già con questo subito conquistato da esse. Questo è il pericolo e il rischio di ogni ‘discorso’ tanto nell’educazione e nell’insegnamento quanto nella vita pubblica. Ciò che ci conquista in tal modo, ci rende prevenuti …  La nuova retorica dei moderni mass-media uguaglia realmente in efficacia la paideia sofistica dell’Atene del V secolo, anzi, la supera per la forma tecnica della diffusione universale, che non offre più a chi ascolta o legge, il confronto di una persona che parla alla quale si può a propria volta rivolgere la parola: questa nuova retorica, al pari dell’antica, precede oggi come allora ogni riflessione critica e instaura il potere dell’“ovvio”» [6].

Nel libro di Ulrich Beck, La società del rischio9788843068142_0_0_536_0_75, pubblicato in Italia solo nel 2000, si legge: nella modernità avanzata la produzione sociale della ricchezza, ossia la forma del progresso, va sistematicamente di pari passo con la produzione sociale dei rischi. Ulrich è un intellettuale inserito nei più alti livelli dell’establishment culturale e accademico globale, che ha insegnato ad Harvard, a Cambridge, alla London School of Economics, alla Maison des sciences de l’homme. Eppure il suo libro, tradotto in venticinque lingue, è passato senza suscitare approfondimenti.                                  

Quelli che prima erano considerati punti di forza, risorse, ora sono minacce, scrive Beck: la potenza tecnologica, lo sfruttamento della natura, la quantità di merci difficili da smaltire, la produzione dei beni che porta anche notevoli rischi: il rischio atomico, ambientale, climatico, l’inquinamento, la deforestazione, la riduzione della biodiversità. Siamo di fronte ad una “doppia modernità”: da una parte il miglioramento delle condizioni di vita di molte fasce di popolazione, lo sviluppo della tecnica e della scienza, l’ampliamento della conoscenza, del prolungamento della vita, della scolarizzazione di massa; dall’altra la sensazione di vivere un’esperienza terminale, in cui è messa in gioco la sopravvivenza della stessa umanità.

Volendo rappresentare scenograficamente il momento storico in cui si può cogliere, in Italia, l’inizio di questa esperienza terminale, può essere utile ripensare, insieme alle conseguenze del massacro della Seconda guerra mondiale, al cambio del tipo umano «che la scelta antropologica di fine secolo ha reso pervasivamente dominante della nostra società». Per quanto riguarda l’Italia, Marco Revelli azzarda una data indicativa per questo cambio di mentalità e disponibilità verso la vita: egli localizza nell’autunno del 1980, a Torino, la decisione aziendale della FIAT di espellere 23.000 operai; dopo un decennio di lotte sindacali, «in migliaia gli operai stavano abbarbicati ai cancelli, come le conchiglie a uno scoglio, nello sforzo impari di non lasciarsi strappare da quello che era diventato il luogo della loro nuova cittadinanza». E ricorda il fascino del resoconto del giovane Piero Gobetti, in Visita alla Fiat, nel 1923, dove descriveva gli operai:

«Hanno la dignità del lavoro, l’abitudine al sacrificio e alla fatica. Silenzio, precisione, presenza continua … il senso di tolleranza e interdipendenza costituirà il fondo severo di questi spiriti nuovi e la sofferenza contenuta dovrà alimentarne le virtù della lotta e l’istinto della difesa politica».

978880625442higLa rottura tra la figura dell’operaio che esprimeva lo spirito di quel tempo con quella del “consumatore” dei nostri tempi, attraverso la raccolta di storie di vita che Marco Revelli definisce «vite in frantumi, dominate da solitudine e disorientamento», mette in luce la parcellizzazione del lavoro come prima causa dello sfarinamento sociale. Scrive Revelli: «Esistenze consumate tra una miriade di lavori parziali e precari, ognuno nell’orizzonte di pochi mesi, eterogenei e incongruenti tra loro … spesso diversi fra loro, al di sotto del titolo di studio e del percorso formativo … occupazioni brevi, messe insieme per ottenere un salario sufficiente». È la dimensione corrosiva di simili esperienze che rivela le crisi di identità di intere generazioni; la scomparsa di un mondo, la grande crisi che ha soppiantato il valore novecentesco del lavoro con la «lotta sociale al contrario»[7].

Nel medesimo periodo in cui Gobetti si rifugiò in Francia,  Hannah Arendt, studiosa del sistema politico europeo del ventesimo secolo, allieva di Jaspers, che dovette lasciare la Germania nel 1933 perché di famiglia ebraica, scriveva con particolare attenzione alle forme dei totalitarismi del ventesimo secolo: »ci troviamo di fronte a una generazione che non è affatto sicura di avere un futuro … perché il futuro è come una bomba a orologeria sepolta, ma che fa sentire il suo ticchettio nel presente» [8].

Di fronte a questo sintetico quadro di una umanità che dispera del presente, immersa nella solitudine quasi ontologica di un destino inesistente, da fine del mondo, l’articolata composizione filosofica demartiniana, evoca la robusta tensione etica di una storica responsabilità umana.

Costruito sull’idea gramsciana dell’ottimismo della volontà, il percorso storico-filosofico dell’etnologo italiano si contrappone al pessimismo dell’intelligenza, nella visione costruttiva di un mondo retto dall’ethos del trascendimento.

Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025 
[*] Testo introduttivo al volume Il paradigma storicistico di Ernesto De Martino. L’ethos del trascendimento in stampa nella Collana “Dialoghi” della casa editrice del Museo Pasqualino. Si pubblica in anteprima e si ringrazia l’Editore per l’autorizzazione.
Note
[1] E. De Martino, La Fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino, 1977.
[2] Th. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1962.
[3] G. B. Vico, Scienza Nuova, I, 1725: 541-542.                        
[4] R. Viti Cavaliere, L’esistenza nel pensiero di Ernesto De Martino a cinquant’anni dalla morte, Le Lettere, Firenze, «Scienze e Arti», 20 aprile 2016. Cfr. anche di Viti Cavaliere, De Martino e Vico, in Aa.Vv., Ernesto de Martino tra fondamento e insecuritas, Liguori, Napoli, 2014
[5] E. De Martino, Prefazione a Il Mondo magico, 1973: 13,17.
[6]  H. G. Gadamer, Verità e metodo, con Introduzione di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1983. Cfr. anche di Gadamer, Il problema della coscienza storica, Guida, Napoli, 1974 e di M. Mustè, L’ermeneutica di Hans George Gadamer, in «Rivista Trimestrale», 1, 1986.
[7] Cfr. M. Revelli, Questa sinistra inspiegabile a mia figlia, Einaudi, Torino, 2024: 109, 113, 126-129; cfr. di
 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Bari, 2012.
[8] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, 1952 e La banalità del male, 1963.

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Sonia Giusti, già docente di Antropologia culturale e antropologia storica presso l’Università degli Studi di Cassino e Presidente del Corso di laurea in Servizio sociale. Ha lavorato sui temi trattati da Ernesto De Martino e Raffaele Pettazzoni e sullo storicismo inglese di Robin George Collingwood, oltre alle ricerche sui Diritti Umani e sulla storicità della conoscenza. Ha svolto seminari presso le Università di Roma, Urbino, Palermo e Oxford, presso la Bodleian Lybrary. È autrice di diversi studi. Tra le più recenti pubblicazioni si segnalano i seguenti titoli: Forme e significati della storia (2000); Antropologia storica (2001); Percorsi di antropologia storica (2005).

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