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Il paese secondo Gesualdo Bufalino

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2020 @ 00:43 In Cultura,Letture | No Comments

copertinail centro in periferia

di Nicola Grato

Nel guscio dei tuoi occhi/ sverna una stella dura, una gemma eterna./ Ma la tua voce è un mare che si calma/ a una foce di antiche conchiglie,/ dove s’infiorano mani, e la palma nel cielo si meraviglia./ Sei anche un’erba, un’arancia, una nuvola…/ T’amo come un paese. Gesualdo Bufalino, L’amaro miele

 «Ma se nei lunghi anni che ho vissuti finora, ho fatto così brevi viaggi e soggiorni; se ho dormito non molto più di mille notti fuori dal medesimo letto; non mi sento perciò di lodare nessuna ostrica malavogliesca: a star fermi o a camminare ciascuno avrà avuto le sue ragioni. Solo che a me, sedentario, è parso sempre di potermi senza disagio intitolare insieme cittadino di Dappertutto e di un piccolo borgo dal nome sdrucciolo, fra gl’Iblei e il mare. Tanto ho creduto facile poter accordare, all’interno di me, la musica famosa e un poco paurosa dell’universo con quella di uno zampillo di fontana, dentro un carcere di mattoni, al centro di una piccola piazza mediterranea».

Queste le parole di Gesualdo Bufalino tratte dal suo Museo d’ombre, libro «di opere, giorni, gesti, linguaggi e luoghi scomparsi», secondo le parole dello scrittore stesso. Bufalino in questo libro parla del suo paese, di Comiso, e lo fa con sguardo disincantato e parimenti innamorato: con lo sguardo di chi trova nel proprio luogo (di nascita, di adozione, di passaggio) motivo per consistere, ubi consistam.

La scrittura di Bufalino, si sa, è un luogo fecondo di immagini; il suo stile ha un pentagramma perfetto, ma qui ci occuperemo del Bufalino geografo del proprio paese e della propria piazza, luoghi di elezione dai quali lo scrittore comisano esce poche volte fisicamente, ma compie viaggi con le parole tra i più esorbitanti. I luoghi descritti da Bufalino sono quei luoghi che avrebbero subìto in Sicilia le deturpazioni della storia: luoghi in cui «riconoscere nella compianta figura dei padri l’immagine di un’alleanza di occhi e mani leali, l’ipotesi insomma di una comunità e di una terra abitabili…». Queste parole scritte nella Nota introduttiva di Museo d’ombre nel 1982 risultano attualissime per chi vive oggi nei paesi della Sicilia interna: altro che paesini ridenti e inscrivibili e trasferibili tout court sulle guide del Buono del Bello e del Turistico, ma di fatto comunità spesso depauperate (migrazioni certo, ma anche perdita di sé, rancore e noia, scorni politici), e luoghi marginalizzati.

museoInsomma, non c’è da stare allegri, da un canto, dall’altro i paesi sono sempre posti in cui poter coltivare il proprio status di esseri umani, anche dove e soprattutto dove l’umanità stenta, è abbandonata, è distante dai centri decisionali.

Ma torniamo a Bufalino, alla sua sedentarietà feconda di viaggi letterari. Del 1982 è la prima edizione delle poesie del comisano, il titolo è un ossimoro rivelatore, e ci parla proprio della condizione dell’uomo e, diremmo, di chi abita in un piccolo borgo lontano da tutto: L’amaro miele. Già dalla Dedica, dopo molti anni, poesia proemiale, le intenzioni chiarissime del Nostro: «Queste parole scritte senza crederci/ e tuttavia piangendo, /a un me stesso bambino che uccisi o che s’uccise, / ma che talora, una due volte l’anno, / non so come fiocamente rinasce/e torna a recitarsele da solo…». È lo struggimento malinconico, sentimento diffuso di chi guarda al presente sentendone inadeguatezza rispetto ai propri sogni; di chi guarda a un paese vedendone cambiato il volto irrimediabilmente (i paesi non sono i luoghi dove una umanità postumana vive il proprio buen retiro, sono invece formidabili cartine di tornasole del disagio, dell’abbandono, della marginalizzazione).

In questa poesia Bufalino passa in rassegna tutta l’umanità che in paese appassisce, nonostante – verrebbe di dire – le guide dei più bei borghi d’Italia: «coscritti balbuzienti, spretati dagli occhi miopi, / guitti fischiati, collegiali alla gogna, /re in esilio invecchiati a un tavolo di caffè…». Alla parola della poesia è affidato il compito di segnare le mappe, di guidare nel viaggio attorno a una piazza, a una fontanella. La poesia può insegnarci a guardare a un luogo con spirito di unità, ovvero con quell’atteggiamento che miri a cogliere il preciso senso di un luogo, quello che una volta era il genius loci. Niente di più distante, a questo proposito, dell’opera che in genere compiono le Pro loco: il paese come luogo edulcorato, le Tradizioni, il Buon Cibo, le Feste. Lo spirito del luogo è la fatica di starci, a nostro avviso: non altro. Lo spirito del luogo è lo spaesamento: fuori luogo, fuori tempo, in ritardo con il mondo della produzione forsennata ma con gli occhi bene aperti sul futuro, con una progettualità rispettosa innanzitutto e soprattutto dell’ambiente, che oggi è il vero tema apparecchiato sul tavolo di tutti noi.

La prima parte del libro è dedicata alla malattia che l’autore ha affrontato nel sanatorio della Rocca, a Palermo. Significativamente s’intitola Gli annali del malanno. L’uomo è qui messo a confronto con la propria ineludibile debolezza, col proprio destino di maceria. Anche in queste ventisei poesie che compongono la sezione è presente il paese: è «l’isola di carne» che dorme; è il ricordo di «bivacchi di festa/accesi sotto la luna”; è la giovinezza. Nessun languore, ma quanto spietato sguardo, quanto riguardo per i ricordi: necessario carburante, materiale consistente, ma pericolosa zavorra quando adottiamo l’atteggiamento e la postura di chi si volta soltanto all’indietro.

Nella seconda sezione del libro, Asta deserta, è la poesia Al fiume, che qui riproponiamo perché crediamo possa nascerne un discorso su cosa voglia dire, oggi, paese:

Ippari vecchio, bianchissimo greto

a te ho consegnato la mia infanzia,

l’empia novella t’ho raccontato.

Come serpi nelle tue crepe

stanno tutti i miei giorni ad aspettarmi,

sotterrata nell’acque tue

c’è la pietra del mio cuore.

Ippari vecchio, fiume di vento,

voglio un’estate venirti a trovare.

Quanta rena di tempo è volata

fra le tue sponde di luce veloce,

quante tacquero trecce scellerate

ai davanzali che non scordo più

Ah moscacieca d’occhi e di scialli,

ah vaso mio di basilico scuro,

bocca murata dell’amor mio!

Ippari vecchio, fiume ferito,

fammi sentire la tua voce ancora.

Per strade rosse me ne sono andato,

per strade nere ritornerò;

col guizzo estremo d’aria fra le labbra

da lontano il tuo nome griderò.

Arrivare potessi alla tua foce

di crete pigre, di canne dolenti,

dove ti cerca sterminato il mare.

Ippari vecchio, zingaro fiume,

dove tu muori voglio anch’io morire.

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Gesualdo Bufalino nello spazio dell’ex mercato di Comiso

Nominare un luogo, farne persona con la quale si dialoga, alla quale confidare i propri segreti e, addirittura, consegnare la propria infanzia: quel grumo denso di memorie, giochi, volti, amori. Il fiume è depositario di tutto, dei segreti come delle scorie degli agglomerati urbani. Il suo corso è deviato, le sue acque perdono limpidezza, la sua foce è ostruita: la modernità, il contemporaneo in agguato. Il fiume come simbolo del passaggio, del mutamento: niente sarà mai come l’essere stati una sera d’estate in un determinato posto e solo quello: quando pensiamo così, ci viene in mente un paese. Ci viene in mente il tempo, che in paese è lento ma ha velocissimi scatti in avanti quando ci rendiamo conto che qualcosa non torna nel numero delle tante che abbiamo ben disegnate nella nostra memoria visiva: è morto qualcuno, e quando qualcuno muore in paese manca proprio allo sguardo, come un pezzetto di paesaggio scollato dalla mappa, una fetta di roccia scivolata nel mare. Non sembrerebbe, ma l’intero disegno della mappa cambia. Non torna più il conto.

Da una vecchia persiana, anni fa, in una stradina strettissima nella quale l’auto passava a stento, una vecchia dagli occhi azzurrissimi mi osservava. Passavo distrattamente da quella straduzza, solo dopo la morte di questa donna ho sentito radicalmente diverso il mio passaggio da quella via. Nominare un luogo, parlargli come a un vecchio amico. Niente di romantico in questa pratica: è semplicemente la vita dell’uomo sul Pianeta.

Oggi, nei nostri paesi, è difficile rivolgersi ai luoghi, discutere delle proprie ansie e delle proprie gioie con un muro, con una casa. È difficile, ma bisogna provare a esistere nei paesi. La difficoltà nasce soprattutto da quello che Vito Teti ha definito “pandemia” nei paesi: «Il paese, dalla fine dell’Ottocento in avanti, e soprattutto dai primi anni cinquanta del secolo scorso, ha conosciuto una lenta, prolungata, inarrestabile pandemia, che ne ha modificato l’aspetto urbanistico e architettonico, l’organizzazione dello spazio, le forme della produzione, e allo stesso tempo ha subito l’insorgenza di economie assistite, di nuove forme di dipendenza dai gruppi di potere, anche criminali, di nuove relazioni tra i suoi abitanti, di una diversa mentalità e anche di una sorta di apatia e rassegnazione dei suoi ultimi abitanti che spesso tendono a credere che tutto sia accaduto e che il cambiamento non sia più possibile» (Teti 2020).

saldiIl luogo esiste perché lo nominiamo, ne parliamo. Il fiume Ippari è il correlativo oggettivo di una vita così come il paese è il portato dell’esistenza, l’insieme delle esperienze, il topos della compresenza tra vivi e morti. Non bisogna abbaiare alla luna per il bel tempo andato ma pensare, anche attraverso le nuove tecnologie e in modo proattivo, a un futuro di questi centri sempre più piccoli, più dispersi: occorre tenere quanto vi può essere di buono nella sempre più crescente attenzione del mondo culturale nei confronti della montagna, dei paesi marginalizzati.

Occorre esercitare attenzione, capire i paesi, la loro fragile vita che è la nostra. Ancora alcuni versi da L’amaro miele: «Ora è una strada per cadere insieme, /un fiume nero, ma so dove va» (Brindisi al faro). Amore e attenzione nei confronti dell’Italia fragile, dell’Italia sistema di piccoli paesi, dell’Italia dispersa nei rivoli di un capitalismo cieco: l’Italia dell’Ilva e di Milazzo antico luogo della coltivazione dei gelsomini per i profumi francesi e ora luogo inquinato, di sozzure.

Abbiamo citato all’inizio della nostra riflessione il Museo d’ombre, sorta di breviario, annale di ciò che è scomparso e di ciò che è residuale, libretto d’ore che ci parla di un tempo in cui «una specie di sottintesa alleanza vigeva ancora fra l’uomo e le cose». Maree, effimere farfalle, parole che scompaiono con le cose. È il paese il luogo per eccellenza di queste scomparse, le case in campagna con gli emblemi di età preistoriche, alle pareti vecchi cappelli di paglia: «Ma oggi…oggi che dire dell’arroganza con cui si pretende stravolgere le scansioni di quello spartito di vita-morte, per dissonarle, accelerarle, tardarle…?», si chiede il comisano.

argoDotato per il dispetto di una difterite in tenera età di un leggero strabismo, Bufalino pare affidare all’occhio fisso il mirino delle cose, mentre l’altro, mobilissimo, si esercita nell’arte della fuga: «…l’abitudine di mirare le cose con un occhio solo, lasciando l’altro svagarsi verso un misterioso punto di fuga, mi si configurò quale nutriente metafora del mio commercio con le scene e le figure del mondo» (Autoritratti a richiesta, testo inserito nella silloge di scritti intitolata Saldi d’autunno).

Restare, permanere in un luogo sempre con l’eccezione di repentini viaggi fuori di casa ma con frequentissimi viaggi della mente verso le regioni della fantasia: è un volo il paese nella scrittura di Bufalino, il volo di un rapace nel mezzogiorno stordente dell’Isola.

Nella memoria dello scrittore il paese, Modica in questo caso, ha le fattezze della donna amata, Maria Venera del libro Argo il cieco. In questo romanzo memoriale il paese viene raffigurato come una donna, con le cupole delle chiese che l’autore rassomiglia ai seni di Maria Venera, ma anche come un teatro: «Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia». La differenza tra la Modica della gioventù e Comiso appare lampante, eppure l’amore del ricordo e la stizza del presente non sono che le due facce della medesima medaglia: soltanto chi ama i paesi può provare il sentimento di astio nell’osservarne il degrado, il cambiamento repentino e, in alcuni casi, l’agonia senza fine.

fieleOccorre tuttavia innamorarsi dei luoghi, dei paesi, anche e soprattutto oggi, ma rifuggendo come una malattia mortale da ogni localismo: «…mi convinsi che ciascuno di noi ha almeno tre patrie: il villaggio o città dove nasce, la regione dove abita, la comunità nazionale a cui appartiene. Più tardi ancora capii che la terra è la patria di tutti; che il più remoto esquimese mi è fratello altrettanto quanto l’inquilino della casa di fronte… Dissi e scrissi che la mia patria più vera era la biblioteca, là dove mi parlavano in un sublime esperanto, mischiati insieme e consanguinei, Emily Dickinson e Gogol, Baudelaire e Novalis, Kālidāsa e Machado…» (Istruzioni per l’uso della Sicilia, in Il fiele ibleo).

Restare in un luogo, farvi ritorno, decidere di non partire: e chi dice che anche soltanto la volontà perseverante non costi fatica tanto quanto (ma anche di più) la partenza?

Permanere in un paese in conflitto per questioni politiche e familiari, a dispetto di ogni ragionevole spinta alla fuga, è l’orizzonte etico a cui non già affezionarsi per partito preso, ma la scommessa da tentare, una disperata speranza.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Riferimenti bibliografici
G. Bufalino, Paese d’ombre, Bompiani, Milano 1993
G. Bufalino, Argo il cieco, Bompiani, Milano 1994
G. Bufalino, L’amaro miele, Einaudi, Torino 1996
G. Bufalino, Il fiele ibleo, Avagliano, Cava dei Tirreni 1996
G. Bufalino, Saldi d’autunno, Bompiani, Milano 2002
V. Teti, “Paese” in Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di D. Cersosimo e C. Donzelli, Donzelli Editore, Roma 2020

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Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”, “larosainpiù”, “Poesia Ultracontemporanea”.

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