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Il migrante con le scarpe nuove

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2019 @ 01:25 In Letture,Migrazioni | No Comments

foto-1di Cinzia Costa

Serve davvero poca fantasia per immaginare lo scenario che Timur Vermes [1] presenta al lettore del suo ultimo romanzo: Die hungrigen und die satten edito in Germania per Eichborn nel 2018 e pubblicato in Italia da Bompiani nel settembre 2019 con il titolo Gli affamati e i sazi, con una accurata traduzione di Francesca Gabelli.

Poca fantasia perché tutti gli elementi principali che compongono la narrazione sono notizie, fatti e personaggi di cui ogni giorno, ormai da anni, leggiamo sui giornali o sui tabloid di gossip. I protagonisti della storia e i fatti raccontati non esistono, ma sono molto più che verosimili, perché corrispondono perfettamente a dei profili chiari e nitidi, facili da identificare nella realtà e che sono immersi, incastrati [2] in una ragnatela di personaggi e fatti realmente esistenti e a noi coevi: personaggi politici, accordi internazionali, episodi storici e di cronaca (principalmente della Germania contemporanea). La storia che si legge è dunque tanto assurda quanto plausibile, e per certi versi logica, che ad un certo punto della lettura viene da chiedersi come mai questi fatti non siano già avvenuti, o, come dice uno dei protagonisti del romanzo, «la cosa sorprendente è che nessuno abbia avuto prima questa idea».

Ma facciamo un passo indietro: supponiamo che la storia contemporanea faccia il suo corso, come noi lo conosciamo, fino a domani. Lo scenario è lo stesso che fa da sfondo alla cronaca di oggi: centinaia di migliaia di persone che dall’Africa mirano a spostarsi verso l’Europa nella speranza di una vita lontana da pericoli o semplicemente più dignitosa; l’Unione Europea ha stilato degli accordi in tema di circolazione interna dei suoi cittadini e di accoglienza dei richiedenti asilo, vigono quindi il trattato di Schengen e di Dublino, e ha attuato delle strategie di protezione dei suoi confini esterni anche attraverso l’esternalizzazione delle frontiere [3]; reality show triviali e soubrette avvenenti, ma non di certo particolarmente sagaci, imperversano nei palinsesti dei canali televisivi dei Paesi europei. Tutto fila “liscio” secondo la sceneggiatura attuale. Ad un certo punto però (potrebbe essere dopodomani), in una fase “post-Merkel” per la Germania, l’Europa, sulla scia delle scelte politiche già intraprese, inasprisce la propria posizione in materia di protezione delle frontiere.

«Quando la gente saliva sui barconi, l’Europa ha cercato di chiudere il Mediterraneo. E quando l’Europa si è accorta che non è possibile chiudere un mare intero e sorvegliare una costa tortuosa lunga migliaia di chilometri, allora ha spostato di nuovo il confine sulla terraferma, questa volta però in Africa. Ha pagato l’Egitto, l’Algeria, la Tunisia, il Marocco e un po’ anche i libici, ma un po’ di meno, ovvio. Perché a tutt’oggi nessuno saprebbe a chi darli i soldi, in Libia. Ma agli europei non è bastato. Anche perché i nordafricani hanno imparato la lezione e si sono messi a riflettere ad alta voce su cosa sarebbe successo se non avessero sorvegliato con attenzione quei confini. Lo hanno imparato dai turchi: grazie a loro tutti hanno visto quanto rispetto e attenzione si riceve a far leva sui migranti. Così gli europei hanno messo mano ad altri fondi e tirato la linea successiva a sud del Sahara».

Questo ha fatto sì che proprio sotto il Sahara, in uno Stato non identificato, potrebbe essere il Ciad, la Repubblica Centrafricana o il Camerun, si sia formato il più grande lager dell’Africa, esteso quanto una metropoli con paio di milioni di abitanti, dove la gente si accumula in attesa di poter partire prima o poi verso l’Europa. Quest’attesa è resa però vana e senza termine dal fatto che è diventato ormai impossibile riuscire a racimolare abbastanza denaro «per pagare il prezzo dei passatori [4] che gli europei, chiudendo le frontiere, hanno fatto lievitare».

Contemporaneamente in Germania la produzione televisiva di una modesta emittente privata sta pensando di mandare in onda un’edizione speciale del format “Angelo tra i poveri” [5] che ha visto la popolare e avvenente presentatrice tedesca Nadeche Hackenbusch visitare, nel corso delle diverse puntate, un centro di accoglienza e mostrare le condizioni di vita dei migranti lì ospitati. Lo special prevede che la showgirl trascorra un periodo di alcune settimane nel lager per raccontare attraverso il reality show le condizioni di vita dei migranti in attesa e dare alla soubrette la possibilità di mostrare tutta la prodigalità di cui è capace, con un’impronta di paternalismo bonario e palliativo (il maschile è necessario anche se in questo caso la “prodigratice” è mamma) di cui l’Occidente detiene certamente il primato. «Vogliamo consolidare il prodotto originale e non indebolirlo. Vogliamo che Nadeche Hackenbusch vada all’origine del problema. […] Nel campo profughi più grande del mondo».

1A questo punto i due piani della narrazione, che finora avevano corso parallelamente, si incontrano e la produzione televisiva organizza delle audizioni per identificare un personaggio chiave, che avrebbe il compito di fare da interprete ed aiutante per la presentatrice nel corso delle riprese. Questa costituisce un’occasione unica per tutti i migranti che partecipano alla selezione nella speranza di unirsi alla troupe e, al termine delle riprese, di partire insieme a loro per la Germania.

Il selezionato è Lionel, un giovane africano che conosce diverse lingue, che ha lo charme del mistero [6] e che indossa delle scarpe da ginnastica nuove di zecca, dettaglio questo che stuzzica la curiosità degli europei. Il particolare delle scarpe nuove interroga anche gli altri profughi che, per la maggior parte, indossano ciabatte da spiaggia o pantofole, e che si chiedono che senso abbia spendere tanti soldi per un paio di scarpe all’ultimo grido, quando si potrebbero mettere da parte per provare almeno a raccogliere la cifra per pagare il passatore o, in ogni caso, si sa che si rimarrà ancora a lungo incastrati in un lager come quello in cui vivono.

Trovo particolarmente interessante sottolineare una scelta chiara dell’autore del romanzo: Lionel è il nome che, in seguito ad un divertente aneddoto relativo ad un’incomprensione, la troupe televisiva affibbia al ragazzo africano di cui non conosciamo il vero nome, ma che Vermes nomina sempre esclusivamente con il termine “migrante” o, appunto, Lionel. Mentre di Nadeche Hackenbusch conosciamo il nome anagrafico, i soprannomi attribuitigli dal pubblico e dai media tedeschi e il nome con cui è appellata dai migranti, Malaika (“angelo” in swaili), di “Lionel” sappiamo solo come gli altri lo chiamano, il migrante è lui, ma potrebbe essere un altro, non ne conosciamo la nazionalità, la condizione, la storia pregressa o l’occupazione. Questa indeterminazione è una scelta forte e prorompente attraverso la quale Vermes ricorda al lettore il modo in cui siamo abituati a guardare “i migranti” e a parlare di loro, in modo generale, astratto e impreciso, senza focalizzare mai l’attenzione sulle singole identità e sulla varietà illimitata che contiene un’espressione generica come “migrante”. Questa non-definizione, che si oppone invece all’attenzione per i dettagli, le declinazioni e le particolarità di “noi occidentali” contribuisce fortemente alla creazione di una polarità tra un Noi, chiaro, bene definito e polifonico, e un Loro, sfuocato e monolitico, che nella maggior parte dei casi non ci sforziamo neanche di conoscere. Questo atteggiamento etnocentrico è molto chiaro quando ci imbattiamo in discussioni “sull’Africa” senza fare distinzione tra più di 50 Stati che la compongono, ma non ci sogneremmo mai di parlare genericamente di Europa senza distinguere tra un estone e un portoghese. O ancora, tristemente, quando ci troviamo a raccontare una strage in mare e parliamo delle vittime enumerandone solo quantità, sesso e distinguendo tra adulti e bambini; quando ci troviamo invece a raccontare una tragedia europea, o più generalmente occidentale, i media si premurano di ricercare nomi, indagare storie individuali e intervistare familiari e conoscenti, ricostruendo quell’identità individuale di cui neghiamo il diritto a chi non appartiene a Noi.

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Accampamento informale di Porte de la Chapelle (ph. Veronica Di Benedetto Montaccini

Il reality show comincia, registra ascolti altissimi e le poche settimane di riprese si concludono; Lionel è eccitato all’idea di lasciare il lager e raggiungere la Germania con Nadeche, che nel frattempo è diventata la sua fidanzata. Nadeche, tuttavia non è pronta a lasciare il lager, come «un’allegra e radiosa Giovanna d’Arco» deve rimanere lì per aiutare i migranti: «we have so much to do. We cannot simple go home!», come dice nel suo pessimo inglese. Quando le speranze di Lionel sembrano appassirsi sotto il paradosso di una elargizione di soccorso cucita su misura del soccorritore e non del soccorso, arriva chiara e lampante la soluzione, semplice e banale come tutte le cose che stanno sotto i nostri occhi, ma non vediamo mai. L’idea parte da una costatazione: «Non ho soldi, ma ho molto tempo e due piedi», e nella sua stessa situazione si trovano altri due milioni di persone che vivono nel lager, fatta eccezione per il fatto che lui ha delle scarpe nuove.

Centocinquantamila persone si metteranno in marcia insieme, attraverseranno a piedi tutti i Paesi che si trovano nella traiettoria verso la Germania: bloccare alle frontiere 20, 50, 100 persone è semplice, ma bloccarne CENTOCINQUANTAMILA oltre che impossibile è sconveniente, soprattutto se si sa già che la meta di quelle persone non è il proprio Paese; allora in quel caso è meglio che passino e il più velocemente possibile. La traversata viene organizzata in modo puntuale e sicuro: Lionel contatta il boss della gang del lager, Mojo il Blu, proponendogli l’affare della sua vita. Mojo dovrà occuparsi del rifornimento di acqua, energia e cibo per tutta la marcia; i camion che si occuperanno dell’approvvigionamento dovranno anche fare da guida al corteo, che avanzerà ogni giorno di 15 km; per partecipare alla traversata i migranti pagheranno 5 dollari al giorno tramite un’app sui propri smartphone; il denaro versato verrà utilizzato per pagare Mojo e per corrompere le guardie alle frontiere.

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Lampedusa, Museo dei migranti

Il pagamento giornaliero attraverso l’applicazione avrà due vantaggi: nessuno dovrà portare con sé denaro contante, questo diminuirà o eliminerà la possibilità di furti o estorsioni tra i migranti stessi; inoltre tutti potranno partecipare alla marcia perché per partire non sarà necessario racimolare tutta la somma di denaro in un’unica soluzione, ma si avrà il tempo di raccogliere il denaro o farselo inviare dalle proprie famiglie, nell’arco di tutto il viaggio, che potrebbe durare anche anni. Lionel, con il supporto di Nadeche, coordinerà tutto, terrà i rapporti con Mojo e prenderà accordi con la polizia di frontiera dei diversi Paesi da attraversare. La televisione filmerà tutto, e questo aiuterà i migranti a far conoscere la propria condizione e ben disporre l’opinione pubblica tedesca al loro arrivo [7]. Così spiegato il sistema sembra perfetto, e in effetti lo è.  In un passo del romanzo, il Ministro dell’interno tedesco intervistato, a chi gli chiede se secondo lui i migranti stiano marciando incontro alla morte lui risponde: «No, rischiano la vita come hanno fatto anche prima. Ma in un modo molto più efficiente che alla lotteria dei gommoni».

Questo meccanismo organico procede, migliorandosi di mese in mese; i migranti rimangono in marcia per più di un anno e arrivano alle porte dell’Unione Europea. Il governo tedesco, spettatore del format televisivo campione di incassi, assiste alla marcia e si prepara, valutando strategie di attacco, di difesa o di accoglienza. La narrazione procede conducendoci ad una riflessione che si confonde con il riflesso della nostra storia su uno specchio quanto mai autentico e schietto. Viene quasi da chiedersi, in certi punti, se quello che l’autore racconta è parte del romanzo o è qualcosa che in effetti è già successo: accordi con Paesi terzi per frenare la marcia [8], insorgenza di gruppi neonazisti sul territorio nazionale e gruppi di attivisti per i diritti umani che alla frontiera regalano peluche ai migranti [9].

Senza andare avanti sugli sviluppi della avvincente trama, è importante soffermarsi sul messaggio prioritario che credo voglia comunicare l’autore: le migrazioni sono uno di quei fenomeni storici che non possiamo scegliere di non affrontare; che i nostri governi o i popoli europei siano volenti o nolenti, per quanto le leggi possano essere restrittive o coercitive, i migranti partiranno. Su barche o gommoni, nascosti nelle stive di camion, a piedi, sugli aerei, scavalcando recinzioni.

foto-4Lo scenario che ci pone brutalmente davanti agli occhi Timur Vermes parte da una osservazione: fino ad ora abbiamo fatto finta di non vedere, abbiamo omesso il soccorso e abbiamo chiuso i porti. Questo non ha fatto sì che i migranti non partissero, o partissero in un numero inferiore, ci ha solo preservati dal vederli affondare davanti ai nostri occhi, ma solo in mare aperto a diverse miglia dalla costa, deresponsabilizzandoci dai nostri obblighi (quanto meno umanitari) e ripulendoci, in qualche modo, le coscienze. Ma cosa succederebbe se una strage come quelle del Mediterraneo avvenisse «davanti alla nostra porta di casa?» Ad un certo punto della loro marcia Lionel parla con un rappresentante del governo turco e in modo spietato dice:

«“Nessuno ritiene il mare responsabile di quello che fa. Il mare è il mare. Per lei è diverso. Voi siete la Repubblica turca. Potete scegliere.”
“Anche voi. Potreste fermarvi.”
“E invecchiare e morire davanti ai suoi confini? Non lo faremo. Marceremo e la costringeremo a prendere una decisione. Dovrà decidere delle nostre vite”».

L’appello dello scrittore sembra dirci: le migrazioni sono inevitabili, e per fortuna che esistono! Accogliere ci fa bene e ci conviene anche. Ma non tutti riescono a giungere a queste banali conclusioni, e allora, se non abbiamo il coraggio di riconoscere ragionevolmente che l’accoglienza è un affare a nostro favore, forse è il caso di appellarsi alle emozioni. E in un’intervista che ho letto online, alla giornalista che gli chiedeva se Angela Merkel potesse appellarsi alla “carta delle emozioni” per far presa sui propri elettori, Timur Vermes rispondeva:

«Non dico che debba farlo lei, ma dobbiamo per esempio farlo noi: intellettuali, artisti, scrittori. E devono farlo tutti, spiegando – anzitutto ai propri amici – che negare i problemi come farebbe un bambino di 4 anni, o farsi prendere dalla paura, non è un modo per risolvere un bel nulla. Non esistono altre opzioni all’accoglienza. Più tardi lo capiremo, più saremo vittime dei problemi invece di affrontarli»[10].
Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
Note
[1] L’autore è già noto anche in Italia per il suo primo romanzo Er ist wieder da (tradotto in italiano con il titolo Lui è tornato) diventato caso editoriale da cui è stato tratto l’omonimo film tedesco e il suo remake italiano.
[2] Il termine che mi è venuto in mente originariamente e che esprime perfettamente l’idea dell’impregnamento nel mondo circostante è embedded. La nota espressione ha origine in un contesto molto lontano da quello per cui lo utilizzo, è usata, infatti, da Karl Polanyi per spiegare l’inscindibile radicamento dell’economia nella cultura e nella società. Il libro che qui presento è un romanzo i cui protagonisti, i cui dialoghi, la cui scrittura, etc. sono intrinsecamente imbrigliati con il mondo reale contemporaneo, con tutto il suo bagaglio sociale, culturale e mediatico. L’edizione italiana del romanzo contiene un glossario di cinque pagine che presentano tutti i personaggi, perlopiù tedeschi citati nel corso di tutto il testo.
[3] Il processo di esternalizzazione delle frontiere è una strategia che l’Unione Europea mette in atto ormai da decenni e consiste sostanzialmente nel subappaltare la gestione delle frontiere esterne a Paesi terzi. A una sempre maggiore libertà di movimento all’interno dei confini dell’UE corrisponde, infatti, una sempre maggiore chiusura verso l’esterno. Uno degli esempi più eclatanti e criticati di questa politica è stato l’accordo del marzo 2016 stipulato tra Europa e Turchia per il respingimento dei migranti nel territorio turco, che ha previsto tra le altre cose aiuti economici e la contrattazione di alcuni termini per il rilascio dei visti dei cittadini turchi in Europa (accordo che ritorna in auge oggi come merce di scambio usata dalla Turchia per contrattare con l’Europa il termine degli attacchi al popolo curdo). Questo famoso accordo non è però il primo e giunse dopo che l’Unione, attraverso il Processo di Khartum e il Summit de La Valletta, con modalità simili aveva già erogato sostanziosi fondi a paesi come il Sudan, l’Eritrea, il Niger e paesi del Maghreb per controllare le pressioni migratorie provenienti prima dal Marocco e poi dal Corno d’Africa (https://openmigration.org/analisi/il-processo-di-esternalizzazione-delle-frontiere-europee-tappe-e-conseguenze-di-un-processo-pericoloso/).
[4] Il termine passatori si presenta come una traduzione particolarmente felice. Il termine generalmente utilizzato in Italia per fare riferimento a coloro che sotto pagamento organizzano traversate clandestine per mare e per terra dei migranti è quello sprezzante di “trafficante”. Senza nulla togliere alla delinquenza e alla brutalità con cui alcuni soggetti svolgono questo lavoro, il termine “passatore” (più vicino al passeur francese utilizzato nel settore degli studi sulle migrazioni) presenta in modo più neutrale e meno negativamente connotato un’attività che ha ragion d’essere prioritariamente in virtù della restrittività delle normative europee in termini di migrazioni: se esistessero canali di accesso legali e sicuri verso l’Europa, molto probabilmente il lavoro del passatore sarebbe pressoché inutile, o avvalersi di questo servizio sarebbe molto più economico. Senza contare, inoltre, che come hanno dimostrato diversi casi di cronaca, molto spesso, chi si trova a manovrare le barche nel Mediterraneo nel ruolo di trafficante, è un inesperto malcapitato che non ha potuto pagarsi il viaggio.
[5] È forse superficiale, ma al fine di inquadrare il timbro della trasmissione e il modello della produzione televisiva in questione è utile segnalare, a mio avviso, che il logo «consiste in una coniglietta maliziosa e carina, con una salopette e i seni un po’ troppo grossi».
[6] Che acquisisce ricorrendo a frasi appositamente sibilline che pronuncia strumentalmente per accattivare l’attenzione “dell’uomo bianco” e ottenere il lavoro.
[7] Il tema dei media e delle strategie di rappresentazione della realtà è centrale nel romanzo. Come già in Lui è tornato, l’autore riflette sull’utilizzo strumentale dei media e della narrazione di sé: nel caso di questo racconto, infatti, i migranti stessi sono coscienti della comunicazione come strumento da volgere a proprio vantaggio e attuano alcune strategie in tal senso, come per esempio far posizione nella prima linea del corteo donne e bambini in modo ben visibile, e farli riprendere dalle telecamere e dai droni.
[8] Tutta la storia raccontata nel romanzo ricorda chiaramente il fenomeno della Balkan route che nell’estate del 2015 vide migliaia di migranti dirigersi a piedi dalla Siria, attraverso la Turchia e i Paesi della penisola balcanica, per raggiungere l’Austria e la Germania (https://www.ilpost.it/2015/08/29/rotta-migranti-europa/). Al forte flusso migratorio della rotta balcanica seguiva il noto e già citato accordo dell’Unione Europea con la Turchia. Anche in questo caso le similitudini tra finzione del romanzo e realtà sono davvero parecchie.
[9] In un passaggio estremamente umoristico del romanzo si legge: «Ci sono alcuni curiosi. Molti di loro hanno in mano qualcosa di informe che a uno sguardo più attento si rivela essere un peluche. Lionel lo ha già sentito dire: i migranti attirano i turisti dei peluche come un pesce morto il gatto. Perché a quanto pare gli europei credono che per il migrante niente sia più necessario di un peluche. A parte l’Ungheria, dove la folla li ha presi a sassate. In verità, dopo aver dato un’occhiata all’interno dell’autobus, Lionel arriva alla conclusione che la maggior parte di loro adesso preferirebbe il sapone».
[10]ttps://www.repubblica.it/esteri/2016/09/05/news/timur_vermes_meclemburgo_merkel_germania_rifugiati-147229442/

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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione. Collabora con l’Associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture.

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