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“Il mare era la prima volta che lo vedevo”. Fra Sicilia e Gambia
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2019 @ 01:32 In Migrazioni,Società | No Comments
di Mari D’Agostino
«Putenza di gibbiuni» è quanto avrebbe detto, secondo la cosiddetta ‘tradizione orale’, un contadino dell’entroterra siciliano giunto per la prima volta al cospetto del mare. La traduzione italiana, qualcosa come «che enorme gebbia!», non rende altrettanto bene lo stupore di fronte a una realtà per lui del tutto nuova e straordinaria. La grande efficacia di questa espressione, diffusa in Sicilia e utilizzabile in contesti più diversi per esprimere esagerata meraviglia, deriva dalla enorme sproporzione fra il mare e la ‘gebbia’ (“vasca che contiene acqua e che vien utilizzata per abbeverare campi e dare da bere agli animali”) di cui il termine ‘gibbiuni’ è accrescitivo sic. -uni (it. –one).
Riferirsi al mare, una realtà che fa parte del bagaglio di parole/saperi più comuni (almeno per chi vive oggi in Europa), utilizzando un dato lessicale/esperenziale così distante, può semplicemente avere il sapore della battuta e dello scherzo. Ma può anche farci, almeno per un attimo, guardare al mare con gli occhi e le orecchie di quell’immaginario contadino.
Per le persone della mia generazione non è poi così difficile. Mio nonno e mia nonna paterna hanno vissuto tutta la loro vita a Collesano, un paese di poche migliaia di abitanti nell’entroterra della Sicilia, sulla direttrice Palermo-Messina. Come per tanti loro coetanei, il mare, pur lontano poche decine di chilometri da casa, non faceva parte del loro orizzonte di vita. Certo era capitato ad entrambi di scorgerlo a poca distanza, sulla macchina a noleggio che li ha condotti a Palermo un paio di volte nella vita, in uno dei rarissimi spostamenti legati a gravi malattie. E, a partire dagli anni ’60, quando la televisione era diventata una presenza costante dei loro pomeriggi e serate, erano divenute anche per loro familiari, insieme a tante altre immagini, quelle di mari in tempesta o spiagge assolate. Ma nonostante questo, il mare era rimasto sempre per loro, nati negli ultimi decenni dell’Ottocento, qualcosa di estraneo e inquietante. Ricordo con precisione mio nonno che, durante il periodo di nostra permanenza estiva nella sua casa nel centro del paese, con chiaro rimprovero, domandava «ma chi ci iti a-ffari a-mmari?» («ma che ci andate a fare a mare?») quando qualcuno di noi nipoti osava accennare alla possibilità di una gita a mare. Dove noi vedevamo secchielli e salvagenti, lui vedeva una realtà minacciosa ed ostile, di cui avere sempre e solo paura. Il suo era il mondo del grano, delle vacche e giumente, delle pecore, e appunto delle gebbie.
Anche i nonni materni, pur vivendo a Cefalù, paese oggi internazionalmente noto anche per la sua grande spiaggia, credo non avessero mai messo un piede nell’acqua di quel mare che era pochi metri da casa loro. Il rapporto fisico col mare era riservato, nella loro infanzia e giovinezza, e poi anche nelle altre fasi della vita, solo alle famiglie dei pescatori, dalle quali loro, piccoli proprietari terrieri, ci tenevano a marcare le distanze. Il ritorno di me e di mio fratello bambini, pieni di sabbia e sudati, da una mattinata passata sulla spiaggia di Cefalù era accompagnato dalla voce di mio nonna che sentenziava «pariti piscaturazzi», («sembrate dei pescatoracci»). Sembrare pescatori – o meglio ‘piscaturazzi’, con l’aggiunta del suffisso sic. –azzi, (it. –acci), indicatore del senso dispregiativo del termine – equivaleva a un giudizio inequivocabile sullo stato di pulizia dei nostri piedi e vestiti. E poi, per loro, come per tutti a quei tempi, il mare era la paura della furia incontrollabile, del naufragio. Erano immagini e ricordi delle numerose tragedie che, nei primi decenni del secolo scorso, avevano avuto come vittime pescatori di Cefalù. E, insieme a queste, le spesso travagliate esperienze di migrazione che negli anni ‘30-‘40 avevano condotto parte della famiglia in America su piroscafi di grandi e medie dimensioni, non sempre affidabili. Nessuno, per fortuna, aveva fatto naufragio, ma il pericolo che si correva in quelle traversate era parte della loro ‘enciclopedia’ essenziale. La paura del mare era in quel caso la paura dell’Oceano, di quelle onde che, nei racconti di chi aveva fatto la traversata, avevano una forza di gran lunga superiore a quelle del Mediterraneo.
Il rapporto con il mare dei miei nonni era certamente distante anni luce da quello di molti siciliani ed europei oggi, fatto di esperienze per molti versi simili alle mie: giornate intere, indimenticabili, fra acqua e sole, con amici e colleghi, a Scopello o a Cefalù, a Pantelleria o Salina, con figli ancora piccoli ma già espertissimi in tuffi ed immersioni. Con tavolate vocianti, vino e birra ghiacciata, pesce e anguria. E insieme a questo la consapevolezza, anch’essa profondamente diversa da quella che avevano i miei nonni, poco più che alfabetizzati, che proprio il mare Mediterraneo, ha avuto ed ha ancora oggi, una dimensione letteraria, storica, politica, economica, naturalistica di importanza eccezionale non solo per l’Europa. E di questa dimensione, che accompagna ancora oggi la crescita culturale di un grande numero di giovani di tante parti del mondo, fanno parte sia il Mare Nostrum dei romani, mare al centro del mondo allora conosciuto, sia il Mediterraneo, ‘mare mediano’ o ‘intermedio’ (al-Bahr al-Mutawassit secondo la denominazione araba), nel quale il riferimento è a uno spazio che unisce e mette in contatto. Molte fra le lingue moderne, d’altra parte, continuano in forme diverse il nucleo semantico di “mare medio, mare in mezzo alle terre”. Oltre alle lingue romanze anche l’inglese Mediterranean Sea, il tedesco Mittelmeer, l’ebraico Hayam Hatikhon, il berbero Ilel Agrakal, l’albanese Deti Mesdhe. E proprio l’idea di Mediterraneo come crocevia di civiltà è quella più fortemente presente nella cultura europea, così come abbiamo imparato, fra gli altri, da Henri Pirenne e Fernand Braudel.
Questi brevi cenni alla mia storia familiare e al sentire comune di tanti Europei, e non solo, servono da sfondo per guardare al presente e alle novità rispetto a questa, mia/nostra percezione. Partendo dai nomi, il cui cambiamento è spesso spartiacque fra mondi ed esperienze.
Il nome Mare Nostrum che un tempo serviva a collocare queste acque al centro del mondo, crocevia di traffici commerciali indispensabili per fare grande la città eterna, oggi indica altro. Se lo cerchiamo su un motore di ricerca quale Google dobbiamo scorrere molte pagine per trovare il riferimento al nome latino, alla storia e alle vicende politiche dell’Impero; quantitativamente dominante è, infatti, il riferimento ad una sigla militare, all’operazione Mare Nostrum, una missione di salvataggio in mare dei migranti in arrivo dalle coste libiche al territorio italiano, realizzata dalla Marina e dall’Aereonautica Militare italiana nel 2013 e 2014.
Fra l’etichetta che abbiamo imparato a conoscere sui banchi di scuola e quella alla quale ci rimanda massicciamente Google, c’è una enorme distanza. Anche in questo caso può essere utile farci guidare da questo scarto per confrontare immagini e parole, questa volta non sull’asse temporale ma su quello spaziale. L’orizzonte a cui guarderemo oltrepassa le coste del Nord Africa (linguisticamente e culturalmente ben conosciute e per molti versi vicine) e giunge alle aree a sud del Sahara, assai distanti non solo in termini di chilometri ma di lingue, culture, esperienze di vita.
Ci faremo guidare da alcuni giovani, arrivati da qualche anno in Italia, grazie proprio all’operazione Mare Nostrum o a quelle successive, anch’esse con nomi che rinviano al nostro passato greco-romano: operazione Triton, Themis, Sophia, Frontex. Limiteremo la nostra piccola inchiesta solo a giovani provenienti dalla Guinea Conakry e dal Gambia, Paesi affacciati per lungo tratto sul Golfo di Guinea, e ad un ragazzo del Mali, nazione priva di sbocchi a mare. Prenderemo in considerazione sia migranti analfabeti all’arrivo in Italia, sia migranti fortemente scolarizzati.
Souleyman e Amadou, sono due ragazzi della Guinea Conakry (rispettivamente di 21 e 18 anni), arrivati in Italia (nel 2016 e 2017) completamente analfabeti, quindi nelle condizioni migliori secondo i nostri antenati geolinguisti, per essere buoni rappresentanti delle loro lingue e culture. Essi, insieme ad altri che conosceremo fra poco, hanno in queste pagine il ruolo di “intervistati”, “parlanti”, “native speaker”, “informatori”, “fonti”. O forse meglio, in termini meno tecnici, di provvisorie guide per cercare di addentrarci in pezzi di mondo che conosciamo ancora poco e spesso solo dall’angolo visuale delle nostre percezioni e paure.
Souleyman e Amadou sono due rappresentanti prototipici di quelli che l’Italia (e l’Europa) chiama ‘migranti economici’, di chi ha attraversato prima il deserto e poi il mare semplicemente (sic!) per migliorare le proprie condizioni di vita, e quindi da rimandare a casa loro il più presto possibile. In entrambi i casi il loro arrivo in Italia ha come motivazione quella di sfuggire a forme di vera e propria schiavitù, iniziate quando erano piccolissimi, dovute alla disgregazione del loro nucleo familiare e al loro essere privi di protezione da parte degli adulti. Come tanti altri giovani, e in particolare quelli dei quali parleremo in queste poche pagine, sono fortemente dotati di una caratteristica importantissima per i geo-socio-linguisti: sono straordinariamente curiosi e acuti, sanno descrivere con precisione, non si stancano delle domande, si divertono per gli strani ‘terzi gradi’ a carattere linguistico a cui sono spesso sottoposti da me.
Sono entrambi fulanì cioè appartengono ad uno dei due gruppi etnici più rilevanti del Paese (insieme ai malinké e soussou). La lingua della loro famiglia è il pular (conosciuto anche come pulaar, pula, ful, fulfulde, peulh), ma come la stragrande maggioranza di chi arriva dall’Africa subsahariana padroneggiano diverse lingue, nel loro caso anche francese, maninka e wolof. Per le prime due lingue la spiegazione è scontata: esse fanno parte delle lingue del territorio nazionale e vengono apprese di norma in contesti esterni alla famiglia.
La terza, il wolof, è una lingua appresa da entrambi in Senegal, dove sono stati inviati poco più che bambini; il primo da un falegname per imparare il mestiere e il secondo in una daara (termine arabo che indica un luogo di formazione) nella quale ha appreso, insieme ad un centinaio di ragazzini e sotto la guida di un seriñ daara (in wolof ‘maestro’), come recitare il Corano e come mendicare al mercato per potere sopravvivere. L’acquisizione spontanea di nuove lingue durante i frequenti periodi di mobilità, anche precedenti al viaggio migratorio che li ha condotti fin qui, è una realtà assai comune per tanti ragazzi africani. Ciò determina un ulteriore arricchimento del diffuso multilinguismo sociale e plurilinguismo individuale che caratterizza in particolare l’Africa occidentale dalla quale provengono tanti giovani migranti.
Le interviste sono state fatte in italiano, lingua che sia Souleyman che Amadou (e anche gli altri ragazzi di cui parleremo in seguito) padroneggiano assai bene oralmente e sanno ora anche scrivere e leggere. Raramente scrivono (quasi esclusivamente su facebook) in pular, maninka e wolof, lingue che usano invece costantemente nella comunicazione orale anche attraverso media.
Le interviste che ho realizzato hanno avuto una struttura assai semplice. Poche domande: “come si chiama nella tua lingua materna il mare?”, “come si chiama il mare Mediterraneo?”; “raccontami quando hai visto per la prima volta il mare”, semplici spunti per avviare il racconto. Qui di seguito sono state trascritte solo parti di conversazioni a volte assai lunghe e durante le quali si è parlato di tanto altro.
Alla prima domanda “come si chiama il mare nella vostra lingua materna?” Souleyman e Amadou rispondono con due termini radicalmente diversi géej (Amadou)/ maayo (Souleyman). Rimango interdetta. Vengono dalla stessa zona della Guinea Conakry, una area dell’interno caratterizzata da ampia diffusione della pastorizia (alle quale spesso si dedicano i fulanì). La radicale diversità fra i due termini mi insospettisce. I due ragazzi messi a confronto ridono soddisfatti come spesso fanno quando hanno chiara la soluzione del problema che io invece non ho. La spiegazione è presto data: géej è il termine wolof, la lingua nella quale Amadou ha visto il mare per la prima volta. A sette anni alla morte del padre Amadou è stato inviato dalla madre, che vuole metterlo al riparo dalle violenze del nuovo marito (fratello del padre), in una scuola coranica a Dakar in Senegal. Lì impara rapidamente il wolof indispensabile, come si è detto, più che per imparare il Corano, per mendicare. Lì vede per la prima volta il mare: «mi ricordo che erano i primi giorni che ero lì / sono arrivato sulla spiaggia/ c’erano tanti bambini che giocavano con pallone // ho visto il mare / non avevo mai visto // non sapevo che c’era il mare/ la prima volta che sono andato avevo 7 anni // la prima volta che sono entrato m’è venuto piacere/ perché sono andato fare bagni/// mi ricordo acqua salata/ c’era molta gente/ musica / c’era gente dentro/ se no c’era nessuno no potevo entrare// perché avevo paura».
E ancora «in mia lingua non c’è Mediterraneo // se parlo mia madre/ dico ho passato mare // no so Mediterraneo // ho passato mare // non c’è mia lingua».
Souleymane, concorda, «in pular c’è solo il mare // maayo». E poi racconta «Il mare non ho mai visto in Guinea// ho visto per la prima volta in Senegal // avevo 10 anni //ho visto/ era molto grande / enorme// avevo molta paura //poi alla fine mi hanno convinto// sono andato/ ho fatto bagno e sono uscito// quando ho visto il mare / in Libia/ era diverso // il mare Mediterraneo/ essendo nel bordo del mare/ non c’è fine / era pericoloso // perché non avevo scelta / alla fine ho attraversato/ non avevo scelta/ non avevo scelta».
Questa percezione della diversità fra quello che sentono come il loro mare, la vasta insenatura dell’oceano Atlantico che prende il nome di Golfo di Guinea, e il mare che hanno visto in Libia è comune a tutti i ragazzi intervistati. E i termini ‘grande e pericoloso’ si ripetono costantemente anche per chi, pienamente scolarizzato ha avuto, assai prima di giungere in Italia, esperienza di mappe e carte geografiche. Così Fousseny ha 23 anni, viene dal Mali, dove ha studiato fino alle soglie del diploma. Oltre al bambara (parlata come L1 o L2 dalla stragrande maggioranza dei maliani), parla perfettamente francese (lingua ufficiale nella sua Nazione). Le sue risposte sono «mare si dice kɔgɔji in bambara // ji significa ‘acqua’ e kɔgɔ vuole dire ‘salata’ // vuole dire l’acqua salata// mare Mediterraneo è italiano e francese ma non esiste in bambara diciamo kɔgɔji Mediterranée // mare che si trova tra Africa e Europa // kɔgɔji è in generale tutti mari […] la prima volta [ho visto il mare] in Algeria //e dopo la Libia / e poi Italia // ho visto che era ancora più grande che il fiume// questo mare è grande e pericoloso // l’acqua del fiume più calma / […] la prima volta che ho visto // avuto paura // ho pensato “le persone che hanno attraversato/ ma come si fa / devi essere pazzo per attraversare”».
Come Fousseny anche Mustapha, uno dei tantissimi giovani gambiani che hanno lasciato negli ultimi anni il loro Paese, è ben scolarizzato. Parla mandinka e jola apprese all’interno della famiglia, e poi wolof e inglese. Anche per lui la distinzione è quella fra mare e fiume fankase /muchamben (jola), fankaso /ba (mandinka). Segnala diversi esempi in quest’ultima lingua: «fankaso jawyatale significa ‘mare pericoloso’ come il Mediterraneo, fankaso kamoo kunungne ‘mare che inghiotte le persone’ kunung ‘inghiotte’, moo ‘le persone’; ba invece è come ‘river’, ‘fiume’». Dopo questa prima precisazione terminologica Mustapha racconta a lungo la prima volta che ha visto il mare. Anche per lui, come per Fusseny e tanti altri, è avvenuto durante quella che i gambiani chiamano la backway cioè il viaggio per “l’altra strada, la strada secondaria, la strada pericolosa” che li conduce in Europa.
Questa prima volta, diversamente da Souleyman e Amadou che «non sapevano che c’era il mare» è preceduta da un sapere ampio, fatto di libri di scuola e di mappe geografiche, ma soprattutto di tante immagini inviate via fb o whatsapp da coetanei in attesa nelle connections libiche (i diversi luoghi di raccolta prima della partenza, il più delle volte situati nei pressi del mare), da video musicali scaricati da youtube il cui titolo è spesso semplicemente Fankaso, da quanto attraverso internet è riuscito a procurarsi per prepararsi alla backway.
Non gli mancava quindi la cosiddetta ’enciclopedia’ ma l’esperienza diretta. «Conoscevo che già esisteva ma non avevo visto/ quando eravamo entrati in Libia/ dopo qualche mese ero a Tripoli// c’erano palazzi / le persone ti vedono/ ti possono anche sparare// sentivamo vuu vuu vuu / c’erano palazzi alti /sono salito su un palazzo con miei amici alto/ vuoto / senza nessuno // avevo sentito rumore vuu vuu // ho visto il mare// si agitava sempre non era calmo// /io avevo sempre paura/ ho pensato domani andrò dentro questo mare per attraversare in Italia// siamo stati dei mesi nella connection // un posto chiuso / per spettare quando viene buon tempo// e lì eravamo chiusi // un posto circondato da muri / c’erano due porte e una era sul mare// io andavo per guardare/ entravo in acqua/ solo i piedi/ cercavo di prendere confidenza// sono stato due mesi/ ho visto le barche che partivano// una notte sono venuti i libici/ i banditi /ci hanno portato via// in un’altra connection / sentivo il rumore/ avevo paura del mare/avevo paura del posto/ avevo paura /perché c’erano persone … /avevo paura che venivano i banditi/i militari//i libici/ avevo paura /c’erano stati naufragi/ erano morti tanti amici// io sapevo/ e poi ci hanno detto “dovete partire” e ci hanno portato a mare/ e abbiamo fatto una linea per partire /una fila// e io avevo paura /prima di andare abbiamo lasciato tutto/ scarpe /bracciale / collane // e poi /abbiamo tolto vestiti rossi// per la sfortuna // questa è una cosa che abbiamo detto noi ragazzi / quando siamo partiti dentro il mare/ ho avuto paura / guardavo /non c’era niente// non c’erano alberi/ niente/ niente. […] // ancora ho paura quando vedo il mare/ mi vengono in mente tante cose /anche ieri sera sono stato a guardare il mare/ mi siedo /sto a guardare /mi vengono in mente tante cose/ tante / ho bisogno di pensare da solo».
Per spezzare la tensione ci mettiamo ad ascoltare una delle tante canzoni gambiane che si intitola Fankaso, e Mustapha si offre di trascriverla in mandinka e di farne una versione inglese e italiana. La riporto qui sotto come altro piccolo contributo alla conoscenza di saperi, esperienze, immaginari che una parte dell’Europa vuole respingere al di là del mare.
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