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Il Genio è donna!
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2021 @ 02:01 In Cultura,Società | No Comments
di Laura Leto
‘Genio’ è una parola singolare maschile di origine latina che, come riportato sul Dizionario della lingua italiana, rappresenta una divinità tutelare, uno spirito solitamente benevolo che protegge un determinato popolo, città o nazione [1]. Secondo quanto riportato dallo storico Giuseppe Giliberto – unica fonte che illustra la storia del Lazzaretto di Palermo dalle origini sino all’importante restauro del 1833, su iniziativa di Leopoldo di Borbone e su progetto dell’architetto camerale Nicolò Puglia – l’architrave dell’ingresso principale, lungo la strada dell’Acquasanta, era decorato da «rilievo scolpito a stucco il genio della salute, che l’emblema delle Reali insegne fa colonna, fiancheggiato al di sotto nell’opposto lato dall’Aquila, e del Cornucopio» (Giliberto 1840: 11).
Lo stemma d’ingresso al Cimitero acattolico presentava sin dal principio una figura inequivocabilmente femminile della quale, ad oggi, rimane il corpo mutilo della testa e delle braccia, ma sono ancora visibili i sandali e i seni, evidenziati dal panneggio della tunica. Probabilmente il braccio sinistro era poggiato sullo stemma borbonico del quale rimane poco ad eccezione del drappo che si apre a sipario alla sommità del recto e lo copre interamente sul verso. Al di sopra era presente la corona reale con croce cristiana, ad oggi non pervenuta, doveva essere un’opera di grande maestria considerata la leggerezza delle forme.
Ho avuto modo di verificarne la sua esistenza mediante una tela ad olio inedita di Andrea Sottile [2] che verrà pubblicata al termine dei miei studi. L’emblema è incorniciato sulla destra dall’ala dell’aquila, simmetricamente rispetto all’ipotetico braccio della donna. L’ala destra è ancora presente, diversamente da quella sinistra che è rimasta in situ sino al 2007 per poi essere ridotta in frantumi nel 2019 [3]. Ne ho riconosciuto i frammenti sparsi tristemente sul terreno e ho denunciato l’accaduto senza averne il minimo riscontro.
L’aquila si presentava dunque con le ali spiegate, iconografia tipica dell’emblema della città di Palermo, alla quale viene spesso associata la cornucopia, simbolo per eccellenza di abbondanza e fertilità. Quest’ultima si ritrova di frequente al fianco di Cerere, dea della prosperità, accostata da sempre in Sicilia al ciclo delle stagioni e alla fecondità della terra. Anche in questa composizione, come riferisce Giliberto, doveva essere collocata alla base degli altri stucchi.
Seppur la sua Memoria abbia per me un grandissimo valore per lo studio del sito, reputo necessario chiarire l’identità della figura femminile come Hygieia [4], divinità di origine greca, allegoria della salute. Sul portale d’ingresso, nella pietra squadrata proveniente dalle cave di Portella di Mare, venne ricavata una nicchia con la scritta ‘LAZZARETTO’ in altorilievo. I caratteri oggi non sono più visibili, ma la traccia è ancora leggibile. Non stupisce che un luogo destinato alla guarigione delle persone ne presentasse l’allegoria.
Igiea viene rappresentata come una fanciulla con i capelli raccolti e vestita solitamente da un peplo, abito tipico della Grecia classica, fermato sulle spalle da fibule, con ai piedi dei sandali intrecciati alle caviglie. Attributo della dea è il serpente che viene dissetato grazie all’ausilio di una patera, scodella decorata e solitamente utilizzata per i sacrifici. Talvolta si uniscono le piante dell’alloro o dell’ulivo. Il rettile rimanda all’idea di eternità – si pensi all’uroboro – al concetto di rinnovamento, grazie alla sua capacità di cambiare la pelle, unitamente alle potenzialità del suo veleno che nei riti conduceva a diversi livelli di coscienza e si prestava ad utilizzi officinali [5].
La presenza di tale attributo consente di evidenziare il legame con Asklepios, divinità guaritrice di origine greca, figlio di Apollo, cresciuto dal centauro Chirone che gli insegnò la disciplina medica. Era rappresentato da un uomo con barba, in posizione stante o seduto in trono, vestito dall’himation che lasciava scoperta la spalla destra e il torace (Palazzi 1990: 38). La caratteristica principale è il bastone al quale è avvolto un serpente, allusione al mito che racconta l’episodio della resurrezione del gigante Glauco [6].
Igiea era venerata individualmente in Grecia in un’epoca poco definita, probabilmente prima del III secolo a.C., ma una delle rappresentazioni più antiche risale al IV secolo a.C., dove la dea è riprodotta sul dritto di una moneta proveniente da Priansos, città cretese, sede di un santuario dedicato ad Asclepio. La dea è rappresentata seduta in trono, vestita dal chitone, con i capelli raccolti da una ghirlanda che lascia cadere due trecce, la mano destra accarezza la testa del serpente. Lo spazio destro della moneta è occupato interamente da una palma con i suoi frutti [7]. Sul verso si trova Poseidone con gli attributi del tridente e del delfino. Il legame tra le due divinità è ancora da chiarire, ma di certo l’elemento conduttore è l’acqua (Fabbri 2011: 47-84).
Come racconta Pausania, si attestano le prime tracce del culto nella regione del Peloponneso, in particolare presso la città di Sicione, dove era presente un santuario che ospitava le due effigi, le quali erano coperte da capelli intrecciati e pezzi di stoffa, donati durante i sacrifici o come ex voto (Villarosa 1852: 383). La presenza del tempio è ulteriormente certificata da un inno del poeta greco Arifrone di Sicione, vissuto nel V secolo a.C.:
Nell’opera Περιήγεσις τῆς ῾Ελλάδος, Pausania riferisce come il culto si sia diffuso in gran parte della Grecia dal momento che si trovarono statue ad Atene, a Oropo, cittadina dell’Attica, a Megara, a Corinto e ad Argo, dove vi era il tempio dedicato ad Asclepio [8]. Il santuario di Epidauro dedicato ad Asclepio, dell’antica regione dell’Argolide, offre una significativa testimonianza dell’accostamento del dio guaritore, non soltanto con la figlia, ma anche col padre Apollo, figlio di Zeus e di Latona [9]. Può essere considerato un dio benevolo e vendicativo, da collocare tra la vita e la morte, dispensatore di salute e soccorritore dei giovani, ma al contempo capace di distruggere la vegetazione e indurre carestie con i suoi raggi cocenti. I suoi attributi sono la cetra, il cigno o il lupo e le piante di ulivo e alloro (Palazzi 1990: 27).
Nel primo libro della descrizione della Grecia, Pausania cita la città di Acarne, nell’Attica, dove viene venerato Apollo Agièo e Minerva Igièa (Pausania 1817: I, 31, 3). Della dea, presso i vari siti, si riscontrano statue e statuette, amuleti, iscrizioni ed ex-voto, i quali riproducono fedelmente le parti del corpo guarite. In Sicilia, nel 1915, vennero scoperte tracce del culto dall’archeologo Paolo Orsi. In particolare a Messina, riemerse una copia romana del I/II secolo d.C. presso l’area del Duomo, assieme a due iscrizioni votive coeve, una incisa su una colonna di un’acquasantiera all’interno dell’edificio religioso, purtroppo andata distrutta, l’altra fortunatamente è custodita presso il Museo Regionale della Città. Anche quest’ultima era incisa su un elemento che reggeva un fonte battesimale, collocata all’interno della vicina chiesa della Cattolica. Entrambe le incisioni recitavano: «Ασκληπιω και Υγεία σωτήρσιν πολιούχοις» (Calì 2009: 169-170). I ritrovamenti sottolineano l’importante legame con l’elemento acqua e soprattutto suggeriscono la presenza di un originario Asclepeion in situ.
In ambito romano era conosciuta come Salus. A Roma il 5 agosto si celebrava la festa del Templum Salutis, in occasione dell’anniversario della costruzione del tempio sul Quirinale da parte del generale e console Gaio Giunio Bubulco Bruto, il quale nel 311 a.C., vinta la seconda guerra sannitica, promise alla dea di onorarla con l’edificazione dell’altare. Il 30 marzo ricorreva la festa di Salus Publica Populi Romani, nella quale era rappresentata come personificazione della pace e della concordia del popolo, dunque della sua salvezza [10]. In origine Salus faceva parte delle quattro divinità femminili della salute, assieme a Strenua, colei che dà forza [11], Cardea, colei che protegge la casa e Febris, associata alla protezione dalla febbre malarica (Palazzi 1990: 38). Successivamente, attorno al V secolo a.C., venne adorata come alter ego femminile di Asclepio. Igiea/Salus veniva invocata per la protezione o il totale risanamento dalla malattia, era più legata alla prevenzione piuttosto che al rimedio vero e proprio per il quale veniva interpellato più di frequente il padre [12].
La devozione a Igiea, proprio perché incarnazione del motto latino mens sana in corpore sano, è connessa anche alla dea greca Athena, la romana Minerva, figlia di Zeus, nata direttamente dal suo cervello e per tale ragione simbolo di sapienza, divinità della guerra, delle arti, delle scienze e protettrice delle città. I suoi attributi, rappresentati magnificamente sulla statua dell’acropoli d’Atene, opera del noto scultore e architetto autoctono Fidia (490 a.C. ca. – 430 a.C.) [13], sono l’elmo, la lancia e lo scudo con la testa di Medusa. Si racconta che donò alla Città la pianta dell’ulivo, il cui olio era utilizzato come farmaco, elemento riscontrato in associazione a tutte le divinità legate alla salute. Veniva frequentemente rappresentata con decorazioni di serpenti – come nel caso del pettorale della statua di Fidia, dove è presente anche un grosso esemplare dietro lo scudo – legati all’iconografia di Igiea e Asclepio.
A Minerva Igiea, venivano attribuite capacità profetiche e medicali. Quest’ultima era venerata ad Atene, come racconta Pausania, grazie a Pericle (431 a.C. – 404 a.C.), militare e oratore ateniese, che eresse una statua in bronzo della dea, la quale gli era apparsa in sogno invitandolo a curare un operaio caduto dal porticato in costruzione (Zannotto 1847: 445-446). Lo scrittore greco precisa che al centro del lato orientale dei Propilei, ingresso monumentale dell’acropoli di Atene, iniziava la strada che conduceva al Partenone, ivi si trovava il simulacro di Athena Igiea, alla cui base vi erano numerose iscrizioni votive, assieme alla firma dello scultore che realizzò la statua in bronzo, Pirro, vissuto attorno al 430 a.C. (Pagliani 1889: 1088-1089):
In questo caso la statua di Hygiea era presente assieme a quella di Athena, l’una non escludeva l’altra: «vicino alla statua Diitrefe [uomo politico ateniese] vi sono le statue di Igiea, che dicono figlia di Esculapio, e di Minerva di soprannome anche essa Igiea» (Pausania 1817: I, 21, 5). Il legame nasce probabilmente da un’originaria epiclesi attribuita ad Athena (Alfieri Tonini 2011: 40). Nonostante le analogie, vi sono delle differenze nell’iconografia delle due divinità chiaramente esposte nell’analisi operata dal Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza archeologica, dove l’archeologo Celestino Cavedoni esamina una gemma di corniola incisa con la rappresentazione di Athena Hygiea – nota anche come Pallade Paeonia o Minerva Medica – di proprietà del Conte Giovanni Francesco Ferrari Moreni, storico e collezionista. Purtroppo non sono riuscita a reperire l’immagine del prezioso oggetto ma fortunatamente è possibile leggerne la descrizione:
La gemma poteva essere incastonata in qualche gioiello o essere utilizzata singolarmente come amuleto. Gli elementi che consentono di distinguere Hygiea da Minerva Hygiea sono legati all’aspetto guerresco di quest’ultima: l’elmo e lo scudo, unitamente alla verga la quale rappresenta lo strumento “magico-miracoloso” destinato ad addomesticare i serpenti e dominare i morbi.
Lo studio iconografico della scultura presa in esame si presta a un parallelismo con la figura del Genio di Palermo, nume tutelare pagano, riprodotto in diverse opere della Città, il quale ha come attributo il serpente che morde il petto dell’uomo barbuto, alludendo allo “straniero” che nel corso dei secoli si è nutrito della linfa vitale del popolo siciliano. Oltre al rettile, la figura è di frequente accompagnata dall’aquila e dalla cornucopia, come nel caso della scultura della fontana di Villa Giulia. Non è da escludere che dal territorio dell’Acquasanta abbia origine la più antica rappresentazione del Genio che sarebbe stato collocato successivamente sul cippo all’ingresso del Molo di Palermo. Secondo la tradizione viene identificato con l’eroe Palermo, il quale proprio grazie ad un’aquila identificò nella Conca d’oro il luogo ideale per fondare la città omonima (Barbera 2012).
Tutti i simboli sono riconducibili alla composizione in stucco. Sarà per queste ragioni che Igiea ha acquisito la denominazione di Genio?
Il concetto di salute non era rivolto esclusivamente alla pratica medica, della quale il bastone di Asclepio divenne simbolo, ma era strettamente legato all’idea di benessere, abbracciando la cura del corpo, l’igiene e l’autocontrollo, principi cardine del culto di Igiea. L’attenzione rivolta alla cura del corpo era parte di un rito che connetteva alla sfera del divino; infatti non era casuale che le terme sorgessero in prossimità dei santuari. Mediante le abluzioni rituali, effettuate con l’ausilio di contenitori fittili con alto piede ci si preparava ai sacrifici o alle invocazioni. In molti santuari dedicati al pantheon della salute, l’acqua veniva canalizzata e confluiva in una cisterna all’interno del tempio, dove spesso vi era una fontana con l’effige della divinità (Melfi 2007: 342-343). Anche l’assunzione dell’acqua era un aspetto fondamentale, soprattutto se considerata dalle proprietà salutari.
La borgata dell’Acquasanta deve il suo nome proprio alla presenza di questa tipologia di acque che sgorgavano all’interno di una grotta dove sorse la piccola chiesa omonima, dedicata prima a Santa Margherita, protettrice dei naviganti, e in seguito alla Vergine. La densa rete di cavità dell’Acquasanta comprendeva una peschiera che venne parzialmente inglobata nella settecentesca Villa Lanterna, all’interno della quale sono stati ritrovati elementi architettonici di epoca punica, probabilmente riferibili a un originario santuario dedicato a divinità legate al ‘culto delle acque’, in assonanza con quelli fenicio-punici di Amrit, in Siria, a Sidone, nel Libano e ad Antas, in Sardegna (Purpura 2004: 6-13; 2010: 115). Anche presso l’isola di Gozo si sono riscontrate analogie strutturali, come nel caso del sito di Ras il Wardija, dove è presente un santuario datato attorno al III secolo a.C. (Gómez Bellard, P. Vidal González 2000: 108-109). Questi luoghi di culto sono tutti dotati di una vasca o cisterna nella quale veniva convogliata l’acqua di una sorgente, considerata sacra.
Fa parte di questa rete di “cavità termali” anche la Grotta del Bagno della Regina, dove insiste una vasca per le abluzioni di forma ovale, risalente all’epoca punica. La denominazione deriva dalla regina Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando I, la quale frequentava abitualmente il luogo durante la sua permanenza a Palermo. Fece realizzare una casina reale in stile neoclassico che aveva un accesso diretto alla grotta. La tenuta divenne sede dell’ospedale Enrico Albanese, dal suo fondatore, utilizzato come sanatorio a partire dal 1865 per la cura della tubercolosi e del rachitismo grazie alla talassoterapia e all’elioterapia (Chirco 2006: 443). Tutto ciò si pone in continuità con la coerente destinazione d’uso dell’area dall’epoca punica sino al XIX secolo.
I ritrovamenti del III sec a.C. e le iscrizioni di natura votiva ritrovate presso le grotte rimandano alla divinità Shadrapa [15], dio guaritore, al quale vengono associati i serpenti e gli scorpioni. A rafforzare la sacralità del luogo vi è anche Tanit, consorte di Baal, il cui simbolo è la piramide troncata alla sommità da una linea orizzontale, sulla quale appaiono il sole e/o la luna crescente. La dea era considerata protettrice delle città nelle quali veniva adorata. Presso i magazzini agricoli della Villa Domville – inglobata nel complesso di Villa Igiea – il Marchese Don Antonio de Gregorio Brunaccini, Principe di San Teodoro, trovò una stele mutila alla base che presentava l’incisione di una mano destra benedicente, affiancata da acroteri laterali decorati con elementi stilizzati. La parte superiore è separata da quella inferiore da una linea con motivo ad onde. In alfabeto punico vi è scritto: «Alla signora, a Tanit, volto di Baal ed al Signore Baal Hammon; ciò che ha dedicato L…» (De Gregorio: 1917). Assieme a questi era venerato Eshmun [16], dio guaritore assimilato ad Asclepio, probabilmente perché entrambi condividevano l’attributo del serpente. Il dio fenicio era inoltre associato al culto delle acque e della vegetazione, unitamente ad Astarte, dea guerriera e della fecondità.
Pionieri nello sfruttamento delle acque sia del litorale che di quelle sorgive, furono i fratelli Pandolfo, Giuseppe, Vincenzo e Francesco Paolo, i quali nel 1871 realizzarono la nota stazione termale, dotata di camerini, bagni caldi e freddi, per persone in salute e per chi presentasse patologie, dalle più blande alle più gravi: infezioni della pelle, reumatismi, gotta, cachessia mercuriale, sifilide etc. Il business non riguardava soltanto l’impianto termale, ma anche l’imbottigliamento dell’acqua. I fratelli ricevettero un premio per la loro attività in occasione dell’Esposizione Nazionale, ne rimane traccia sulla targa marmorea posta all’ingresso che recitava:
Non è un caso che la famiglia Florio decise di chiamare Igiea – la cui statua in bronzo, realizzata dallo scultore Ettore Ximenes [17], è stata posta nei giardini della struttura – il Grande Sanatorio di lusso, realizzato nel 1899 dall’architetto liberty Ernesto Basile, il quale avrebbe dovuto curare i malati di tubercolosi polmonare, grazie al metodo sperimentato dal medico Vincenzo Cervello (Chirco, Lo Dico 2007: 87). L’edificio aveva numerose stanze che avrebbero ospitato i pazienti provenienti dal Sanatorio popolare della Guadagna e dagli ospedali dello Spasimo e del Civico. Il metodo, dotato di marchio registrato, era noto in tutta Italia e raggiunse anche l’America latina (Cancila 2007: 87). L’Istituto di Villa Igiea non sortì il successo sperato, non tutti avrebbero potuto permettersi un ricovero in un luogo così prestigioso; inoltre, una commissione inglese voluta dalla famiglia Whitaker, esaminando i possibili bilanci, sosteneva che l’investimento non sarebbe stato remunerativo. L’idea venne abbandonata e il rapporto tra Ignazio Florio e il professore Cervello si concluse nel 1902. L’edificio venne convertito nel noto albergo che restituì nuovo splendore alla zona costiera, aprendo uno dei periodi più belli della storia di Palermo.
Sui terreni dei Florio, nel 1922, sotto la direzione dell’ingegnere Antonio Zanca, venne edificata la Clinica Noto Pasqualino per volere del medico professore Antonino Noto. Venne affidata alla direzione del collega Guglielmo Pasqualino, il quale nel 1930 aveva sposato la pittrice Lia, figlia del fondatore. L’abitazione dei due coniugi sopra la clinica divenne un vero e proprio centro culturale dove si incontravano i più prestigiosi artisti e intellettuali del tempo (Chirco 2006: 237). Ancora oggi il bassorilievo in stucco di Igiea si affaccia sulla via Dante, fornendo un altro esempio di come la dea venisse associata agli Istituti Sanitari della Città. La sua fama era tale che le si dedicò addirittura il nome di un asteroide, scoperto da Annibale de Gasparis il 12 aprile 1849, dall’osservatorio di Capodimonte a Napoli. Venne battezzata Igiea da Ernesto Capocci di Belmonte e in onore della dinastia regnante, i due astronomi vi aggiunsero l’aggettivo Borbonica:
Il rapporto di Igiea col territorio sul quale insiste la sua scultura è indiscutibile, esattamente come – a mio avviso – l’identità di genere. Mediante un esame attento della composizione scultorea dell’Acquasanta ho potuto procedere con una ipotesi di ricostruzione grazie alla consulenza dell’architetto Flora la Sita che si è occupata della realizzazione grafica [19]. L’armatura in ferro ha suggerito l’andamento dello stucco, ormai pesantemente deteriorato, consentendo di risalire all’originaria posizione della parte superiore del corpo sinuoso di Igiea, alla quale è stata restituita la testa, secondo il modello iconografico ricorrente di matrice greca, con i capelli raccolti da una benda [20]. La presenza del becco dell’aquila ha permesso di comprendere l’orientamento della testa, sulla quale l’Architetto ha riprodotto il piumaggio presente nel resto dello stucco. Dell’emblema borbonico si scorge soprattutto il lato superiore-destro, dove è ancora riconoscibile lo scudo inquartato in decusse con l’aquila di Svevia e di Sicilia e le barre del casato d’Aragona, riproposte nello spazio di sinistra.
Auspico che l’Igiea possa essere restaurata al più presto, salvata assieme a tutti gli altri elementi che adornano il portale d’ingresso dell’attuale Cimitero acattolico “degli Inglesi”, simbolo della nostra Città e della sua storia.
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