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«…Il fiore stesso te lo insegna…». L’eredità di Giovanna Serri (1926-2021), contadina, tessitrice, intellettuale di Armungia
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2021 @ 00:55 In Cultura,Società | No Comments
il centro in periferia
di Maria Gabriella Da Re
Qualche anno fa è morta Mariuccia Usala, la storica maestra di Armungia, paese della regione storica del Gerrei, nella Sardegna centro-meridionale. Alla volontà e tenacia di Mariuccia si deve il museo etnografico del paese, Sa domu de is ainas. All’inizio degli anni ottanta con un piccolo gruppo di sue ex alunne ha raccolto ed esposto per la prima volta gli oggetti che le famiglie o mettevano da parte perché non più utilizzabili o perché li volevano donare al museo nella cui mission credevano. Qualche giorno fa è morta Giovanna Serri (1926-2021). Entrambe due rocce di oltre novanta anni. Due foglie cadute dell’albero della vita e della cultura di Armungia, luogo di nascita di Emilio Lussu, per niente estraneo alla vicenda che racconteremo [1].
Ho imparato molto da Giovanna, soprattutto sulla tessitura, ma anche sulla vita, sulla forza delle donne, sulle passioni coltivate nonostante tutto. Era simpatica a tutti. Scrive Eugenio Testa nel suo diario di campo [2]: «Giovedì 20. Ricevimento a scuola. …Prima siamo andati con Clemente e Stefanini a trovare Giovanna Serri. È molto simpatica. Appena entrati in casa sua ho avuto l’impressione come di un’aura positiva: ‘le cose sono a posto, sono come devono essere, come è giusto che siano’. Una espressione della persona che la abita… ». E Federico Scarpelli in una nota al suo saggio nello stesso numero di “Lares”: «La grande riconoscenza e l’affetto che conservo per lei non dipendono solo dalle tante storie che mi ha raccontato con espressività e intelligenza narrativa, ma anche dalle sue qualità umane e da un senso dell’ospitalità capace di mettere subito a proprio agio questo aspirante antropologo romano piuttosto preoccupato» [3].
Giovanna Serri è nata ad Armugia nel 1926 in una famiglia di agricoltori. Il padre, non avendo figli maschi, la portava con sé in campagna fin da ragazzina: «Io a zappare, io a mietere, io a portare i buoi al pascolo, facevo tutto come se fossi un ragazzo maschio» [4]. Queste capacità le saranno molto utili nei momenti difficili della vita. Dopo il fidanzamento, dalla suocera impara la tessitura, grande passione e risorsa morale e materiale della sua vita («Ho cominciato con la mia coperta per sposarmi»). Con il marito Egidio, parente dei Lussu, ha gestito per molti anni le proprietà di ‘zio Emilio’ e dal 1946, giovane sposa, è andata ad abitare in casa Lussu. Qui ha assistito il marito fino alla morte, avvenuta precocemente; qui ha allevato le sue tre figlie.
Molti i dolori di Giovanna, dolori difficili da vivere nella quotidianità come la malattia e la morte precoce del marito. Ma alcune risorse importanti: l’appoggio di Emilio e Joyce, la compagnia di Nenetta Casu con la quale ha coabitato nella casa della famiglia Lussu per vent’anni, la passione per il telaio che ha coltivato anche nei momenti più difficili e di maggior lavoro nei campi e nella casa. Tesseva a orixeddas, nei ritagli di tempo, e quelle piccole ore strappate alle opere e ai giorni la rilassavano, prendeva respiro e così è diventata una delle più brave tessitrici del paese. Aiutava, quando poteva, altre donne a fare l’ordito, a «tirare fuori i disegni», vale a dire a fare i calcoli per progettare la costruzione di un manufatto e il conseguente montaggio del telaio, le fasi più difficili di cui si compone la complessa catena del tessere, che non tutte le tessitrici del paese dominavano. Costruiva così nella quotidianità il suo essere «archivio di memorie della comunità nella storia, una raccontatrice legata alle vicende di Emilio e Joyce Lussu e della loro famiglia» [5].
Recuperare il mio rapporto di affetto e di conoscenza con Giovanna non è facile. Dopo tanti anni (circa 40) il rapporto con lei prescindeva dal mio essere antropologa e dal suo essere tessitrice. Riguardava ormai due persone, entrambe anziane, che vivevano con semplicità e spontaneità il reciproco rispetto acquisito in tanti anni di frequentazione e che guardavano con gioia il nuovo progetto artigianale di Barbara Cardia (nipote di Giovanna) e di Tommaso Lussu (nipote di Emilio), che qualche anno fa ha trovato un luogo adatto per realizzarsi in una parte del museo etnografico, da me curato e inaugurato nel 2000. Per questa ragione, nonostante il progetto di Barbara e Tommaso derivi soprattutto da Giovanna, oltre che ovviamente da loro stessi, me ne sento anche io un po’ parte [6].
Ho da subito amato Giovanna per la sua disponibilità. Quando parlo di lei, non riesco neppure a pronunciare la classica parola ‘informatrice’, da tempo, come è noto, sottoposta a critiche dagli antropologi. Ma non era neppure una vera e propria amica, né l’ho mai chiamata ‘zia’, come si usa in Sardegna per esprimere rispetto verso una compaesana anziana. Che cosa è stata per me Giovanna, che mi ha fatto capire molte cose della tessitura, mi ha accolto nella sua casa, raccontato parte della sua vita e che mi sorrideva sempre quando mi vedeva entrare nella bellissima corte fiorita di casa Lussu a farle perdere tempo?
Certamente la sua vicinanza alla famiglia Lussu e al fatto che con Nenetta Casu erano considerate da tutti le custodi dei luoghi lussiani mi hanno condizionato positivamente. Giovanna tesseva nella casa, in diversi luoghi a seconda di ciò che doveva fare. La fase della orditura veniva svolta in s’umbragu, l’antico loggiato dei buoi, a sinistra del corpo centrale, il montaggio del telaio in una delle stanze della casa, la quale è forse l’unico esempio ad Armungia di casa antica quasi perfettamente conservata. Sa lolla (il loggiato) chiusa, che caratterizzava le case a corte di questa zona collinare, è ancora la sede della cucina, dove si svolge la vita durante il giorno e dove si accolgono i visitatori e gli ospiti. Qui Giovanna ed io abbiamo a lungo parlato sedute su quelle sedioline (anche a me come a Elena Bachiddu piace chiamarle così) basse, tipiche della Sardegna. Qui Nenetta e Giovanna sono state intervistate da Pietro Clemente ed Eugenio Testa, docenti degli stage romani e da altri giovani studenti aspiranti antropologi, tra cui soprattutto Elena Bachiddu, Sandra Ferracuti e Federico Scarpelli. I loro scritti sono di grande importanza per me in questo momento, attivano la mia memoria e le emozioni di allora. Non nascondo che in questi giorni in cui mi sforzo di ricordare e di dare senso a ciò che scrivo, il lavoro è accompagnato da una certa ansia. D’altra parte non è una novità: in diversi momenti ho espresso in quegli anni lontani la sofferenza che produceva in me la responsabilità dell’allestimento del museo Sa Domu de is ainas, come gli scritti e le trascrizioni delle interviste di Sandra Ferracuti testimoniano [7].
Di casa Lussu parla a lungo Elena Bachiddu:
Nel museo, poco distante dalla casa, una bella foto mostra Emilio che fa quattro passi sotto la pergola. I Lussu hanno conservato il focolare al centro della cucina. «Come una scultura – commenta E. Bachiddu – questo ha per me la forza evocativa di un fare quotidiano che nelle posture del corpo non ha ancora sollevato da terra i gesti del calore, dei cibi, dello scambio simbolico» [9].
Al piano superiore le stanze di Emilio, lo studio, la camera da letto, la stanza delle selle: tutte in perfetto ordine, decorate secondo lo stile antico, opera di Giovanna e Nenetta, con teneri disegni stilizzati eseguiti con l’aiuto di modellini di carta. In passato ogni anno in tutti i paesi spettava alle donne di imbiancare e decorare le pareti della casa, oltre che rifare con cura i pavimenti in terra battuta («…dove non c’è casa non c’è ‘grazia’», traduceva Pigliaru da detti della sua Barbagia) [10].
Giovanna e Nenetta erano custodi della casa, carica della presenza-assenza di Emilio e Joyce e anche del loro figlio Giovanni, ma non erano affatto subalterne. Quella era anche la loro casa oltre che un monumento e anche la loro vita l’ha segnata per sempre. Ho avuto l’impressione, vedendola agire, che anche Joyce ne fosse in qualche modo condizionata. Era casa sua, ma si comportava, come dire, in punta di piedi, come se la casa e quelle due donne della sua vita rappresentassero un mondo accettato, «cristalli ancestrali» [11], in cui era un po’ ospite, ospite amata, adorata da sempre e per sempre, ma in cui non esercitava il suo severo pensiero critico come nel mondo della modernità. Lei era un innesto, un ramo rigoglioso; ma le radici non erano sue, erano quelle robuste dell’olivastro, le stesse di Emilio.
Questo luogo non poteva che suscitare in me un affetto rispettoso e anche oggi quando vi entro mi sento sempre un’ospite, un po’ trattenuta nella manifestazione degli affetti. Il rispetto, accompagnato da un certo timore reverenziale, è derivato anche dalla consapevolezza della profondità e complessità del sapere e saper fare tessile di Giovanna. Anche Nenetta sapeva tessere, ma Giovanna aveva esercitato più a lungo, non essendosi mai allontanata da Armungia, mentre Nenetta a 26 anni, quando era nato Giovanni, era a andata a Roma come sua tata ed era rientrata in paese dopo la morte di Emilio nel 1975.
Emilio Lussu nel corso del tempo, sia da Armungia che da Roma, ha sempre seguito e aiutato Giovanna nella sua attività tessile che con la malattia del marito era diventata essenziale per la sua famiglia. Subito dopo la guerra le fa costruire un buon telaio, che in precedenza Giovanna si faceva prestare. Costo due starelli di grano. Su interessamento suo e di Joyce comincia a lavorare anche per un negozio di Roma. Ma per Emilio i prezzi fissati da Giovanna sono troppo bassi e da allora la questione dei prezzi viene gestita da lui. Non so con quali risultati. Giovanna comunque, preoccupata di non pesare troppo sui Lussu, continuava a lavorare anche per clienti del suo paese. La continuità era economicamente fondamentale: «Io mi faccio questo conto: “riu chi curri, mai pudescidi” (fiume che scorre non marcisce mai). L’importante è fare il giro. Anche se è poco…».
Sono stata sempre affascinata dalla tessitura, da quando ho cominciato ad occuparmi di cultura materiale. Ne percepivo il mistero. Capivo che nella tessitura manuale tutto stava nella testa di chi tesseva. Il piccolo telaio orizzontale, in uso nella maggior parte dell’Isola, è un oggetto tecnologicamente assai semplice, un sostegno di fili. Il difficile è capire come questi fili sparsi, che derivano dai lavori agricoli e pastorali, ad un certo punto diventino un sistema complesso (metafora che ho tratto di peso e senza molta consapevolezza dal premio Nobel per la fisica di quest’anno) capace di trasformarsi in fiori, frutta, rami, castelli, balli tondi e così via, tutta l’infinita gamma dei disegni di coperte, tappeti, asciugamani, vestiti e altri oggetti che portano la natura, il paesaggio, reali o inventati, e la ‘grazia’, dentro le case e sul corpo di chi le abita. Bene culturale immateriale? Certo. Forse più di altre attività tradizionali. Ma il mistero sta anche nella conoscenza della potenzialità della materia e dei suoi segreti. E Giovanna conosceva tutti questi segreti, compatibilmente con la tecnologia nota nel mondo rurale dell’Isola durante la sua vita, il tessere a mano in un piccolo telaio orizzontale.
La tessitura non è solo tecnica, ma anche socialità e gerarchia: «(le tessitrici) sono accoppiate a due a due, però c’è sempre una che non è capace», dice Giovanna. Inoltre per montare il telaio, vale a dire avvolgere l’ordito nel subbio posteriore, far passare i fili attraverso i licci e il pettine secondo il disegno e collegare la massa dei fili al subbio anteriore, ci vogliono almeno quattro persone. Ma negli anni ottanta, quando le ho conosciute, lei e Nenetta cercavano di farcela da sole con qualche accorgimento. Chiedere aiuto era diventato pesante. Anche sulla reciprocità Giovanna ha un’etica molto precisa ed è prudente nel rispondere alla domanda sull’aiuto:
Se la gelosia, l’invidia, l’egoismo, la mancanza di sincerità – come lei chiama il complesso di sentimenti che disturbano i rapporti tra tessitrici – bloccano la reciprocità, Giovanna risponde con altrettanta durezza: «Però io dico che soprattutto a noi ci rovina la gelosia, oltre che siamo poveri. Non abbiamo niente, risorse di nessun genere. Abbiamo anche la gelosia». Il tema dell’invidia, oggetto di infinite ricerche di sociologi e antropologi, che hanno studiato le cause del sottosviluppo nel nostro Meridione dagli anni cinquanta in poi, sono, per così dire, ‘liquidate’ da due parole di Giovanna.
“Tirar fuori i disegni” era spesso la ragione del contendere, vale e dire copiare un disegno che piace da altri manufatti o anche da altre cose, come vedremo, e trasferirlo in un altro manufatto. Le tessitrici, di Armungia e di altrove, a fianco ad una serie di disegni che avevano imparato dalle loro maestre, amavano copiarne altri – adattandoli alle tecniche locali – da tessuti di altri paesi, dalle tessitrici amiche e parenti, dalle vetrine dei negozi di Cagliari, da stampe e giornali, dando inconsapevolmente al concetto di tradizione un significato molto dinamico e affatto essenzialista, ben diverso dall’idea di ripetizione eterna degli stessi modelli e disegni. Giovanna parla di disegni antichi e moderni, nella intervista non pronuncia mai la parola tradizione. Ed era curiosa dei disegni visti di qua e di là, cercava di ricordarseli a memoria o prendeva appunti e li trascriveva sui quaderni di tessitura una volta arrivata a casa [12].
Sapeva trarre ispirazione dagli oggetti più improbabili. Durante una traversata con la nave della Tirrenia per raggiungere a Roma una importante iniziativa sindacale nazionale, in cabina occupava una cuccetta bassa e aveva modo di osservare la rete metallica della cuccetta sovrastante. Il disegno della rete ha attratto la sua attenzione, “l’ha tirato fuori” e trascritto nei suoi preziosi quaderni. E quel disegno è andato ad arricchire la galassia di quelli a disposizione, senza che Giovanna si sia chiesta se facesse parte della tradizione sarda o no. Problemi che tanto occupano i dibattiti sul patrimonio qui in Sardegna. Era lei il patrimonio, l’interprete, lei la depositaria di ciò che contava nella cultura del luogo. E non era solo il disegno o le tecniche, ma, come ho detto, anche l’aiuto e lo scambio reciproco, l’accoglienza, la trasmissione del sapere alle giovani ancora inesperte, in una parola la riproduzione della socialità.
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