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Il fascino dello scontro: riepilogo di un percorso di ricerca

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2018 @ 01:25 In Cultura,Letture | No Comments

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Assedio di Messina, 1040

di Meriem Dhouib

Là fuori, oltre a ciò che è giusto e a ciò che è sbagliato, esiste un campo immenso. Ci incontreremo lì. 

Versi di una poesia di Djamaladdine Al Rumi. Incontrare l’altro o meglio scoprire l’altro l’infedele, il musulmano attraverso i racconti letterari o meglio i versi è ormai un campo ben sondato nella letteratura italiana. L’interrogarsi su queste epoche passate e focalizzare lo spoglio su testi del Trecento e del Cinquecento, poiché esordio culminante di scambi e scontri tra le diverse rive del Mediterraneo, è stata una delle priorità della mia ricerca.

La figura del nemico sullo sfondo delle guerre del XVI secolo, fu caratterizzata da una violenza prima sconosciuta. Se infatti nel Quattrocento l’atto bellico è fase non definitiva e mortale di uno scontro poi risolto prevalentemente sul piano diplomatico, nel Cinquecento esso assume una aggressività inaudita, tale da mettere in discussione la sopravvivenza stessa della comunità e dello Stato autonomo. Il nuovo e micidiale volto della guerra è rispecchiato dalla letteratura in modi diversi. Tutto parte da una considerazione fondamentale e cioè essere coscienti e consapevoli che, qualunque sia il nostro approccio, esso si muove da un interrogativo presente e sul nostro presente.

I miei primi esordi con la ricerca sono stati possibili grazie a un primo cammino di tipo teorico e didattico nella mia formazione universitaria. La scelta di questo argomento ‘l’incontro-scontro’ non è stata casuale; poiché la formazione in loco all’Università degli studi di Pavia, mi ha permesso di conoscere meglio la mia cultura al momento di presentarla e rappresentarla e di incontrare l’altro e anche scontrarmi con l’immagine veicolata dai pregiudizi. Senza voler entrare nei particolari delle mie vicissitudini vorrei soltanto ricordare che sono arrivata in Italia il 26 settembre dell’anno 2001, una data memorabile che ho ben impressa in mente. Gli attentati terroristici dell’11 settembre negli Stati Uniti seguiti, a distanza di poco tempo, da quelli avvenuti a Madrid e Londra e da tutta una serie di eventi che, in particolar modo in Europa, hanno avuto come protagonisti persone identificate a partire dalla propria religione (musulmani, appunto) hanno portato in primo piano la questione dell’alterità nelle nostre società e nel caso specifico, dell’altro musulmano. Dall’altro, però, questo straniero, che già il sociologo Simmel aveva efficacemente individuato come figura sociale essenziale per capire i meccanismi che legano o dividono tra loro le parti sociali hanno fatto emergere la relazione con le azioni di avvicinamento o allontanamento che nascono dal rapporto tra l’individuo indigeno e lo straniero.

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Battaglia tra crociati e saraceni

Nella sua opera Sociologia (1908) Simmel enuncia il concetto di spazio che gli consente di definire che non necessariamente la vicinanza o la lontananza spaziale tra gli individui determina la sensazione di intimità o di estraneità di un autoctono nei confronti di uno straniero. La concezione spaziale deve essere quindi impiegata come uno strumento comparativo con le altre forme sociali per comprendere con maggiore lucidità il proprio apparato sociale. Lo straniero per Simmel, non è un anonimo ed evanescente viaggiatore ma un membro concreto di un gruppo sociale, all’interno del quale vive e svolge normalmente la sua attività lavorativa, rappresentando a tutti gli effetti una parte integrante di una società. Lo straniero è il nostro vicino, quello della porta accanto, perché occupa spazi lasciati liberi dalla società ospitante. Questa ambivalente connotazione di questa sua simultanea vicinanza e lontananza evidenzia la più importante valenza della figura dello straniero: l’obiettività, una peculiarità fondamentale all’interno di una società poiché gli stranieri, per Simmel, operano e interagiscono all’interno delle strutture sociali pur non essendo coinvolti in relazioni personali o legami intimi.

 In questo senso, lo straniero non è più colui che viene da lontano, ma è anche colui che dimora stabilmente fra noi, talvolta confondendosi nelle pieghe visibili o più nascoste dei nostri diversi spazi sociali. Oggigiorno, la globalizzazione determina sempre di più uno sconfinamento delle frontiere mentre nell’orizzonte di ciascuno di noi compare sempre di più uno scenario di estraneità in cui assumono legittimazione crescente il riconoscimento, l’umiliazione e il misconoscimento dell’altro per cui era impossibile non associare all’epoca del mio arrivo a Pavia, fenomeno in crescita ancora oggi, il termine arabo o musulmano con tutte le accezioni semantiche alla parola “terrorista”.

Interrogarsi sull’immagine dell’altro passa quindi essenzialmente dalla parola e, per dirla secondo i termini di A. Maalouf, «une vie d’écriture m’a appris à me méfier des mots. Ceux qui paraissent les plus limpides sont souvent les plus traitres» [1].

In un percorso scientifico ci sono temi ricorrenti che portano a quell’inestricabile selva di soggetti-oggetti poiché non c’è mai stata una visione universale né globale ma tante visioni a seconda del secolo nel quale ci troviamo; ecco perché come primo approccio nella preparazione del dottorato di ricerca ho passato in rassegna, a tabula rasa, tutti i testi chiaramente nell’arco cronologico che m’interessava, cioè Tre-cinquecento, tutte le occorrenze di arabo, barbaro/barbaresco, musulmano/islamico, maomettano, saraceno…Uno spoglio testuale che mi ha portato a cercare sia in testi di stampo economico (resoconti), sia religioso (pellegrinaggi), sia letterario (poesia e prosa), sia infine storico-politico (accordi, atti diplomatici…).

2-2L’intento principale oscillava tra la voglia di leggere lo sguardo dell’altro nella cultura arabo-musulmana ma soprattutto verificarne le fonti e l’originalità. All’inizio della mia indagine avevo anche tenuto in considerazione i numerosi studi sull’Orientalismo e lo sguardo dell’altro, soprattutto la visione di Edward W. Said o anche Todorov sempre in chiave letteraria. Avevo messo da parte le narrazioni fantasiose di Mandeville o Marco Polo o quella vasta mole di testi che oscillano tra la finzione e la storicità. Un Islam dipinto da tale o tale altro autore con una violenza incredibile. Un’oscillazione tra ammirazione e timore tutt’ora valida. I testi di iter o viaggi non solo erano interessanti per gli aspetti economico-commerciali ma forniscono anche una documentazione vastissima che permette di seguire l’evoluzione e le varie sfaccettature che il fenomeno assunse nel tempo. Ma soprattutto essi riflettono, nei suoi molteplici aspetti e nel suo divenire, l’immagine dell’Oriente percepita dai viaggiatori italiani.

Sono comunque ampiamente rappresentati nelle raccolte esaminate viaggi di pellegrinaggio in Terra Santa, viaggi di sovrani, prìncipi e prelati, di scienziati naturalisti, di artisti ed è compreso anche qualche viaggio di esplorazione e di evangelizzazione. In particolare, i pellegrini o meglio gli autori cristiani provarono in generale poco interesse alla cultura o lo splendore politico, scientifico dell’Islam: sempre visto come minaccioso portatore di pericoli, essenzialmente a partire dal Cinquecento che con l’avanzata ottomana e la conquista di Costantinopoli nel 1453 sancì la sua posizione di principale potenza dell’Europa sudorientale e del Mediterraneo orientale. Per secoli questo circolo vizioso non fu rotto dall’esteriorizzazione immaginativa. L’Islam diventò “un’immagine”, una visione in innumerevoli modi, compresi nel Medioevo e nel primo Rinascimento.

Il nodo di questa riflessione sta nel confronto. Tra l’essere e il parere all’altro vi è non soltanto una passerella consecutiva che tenti di confermare o contrastare l’altro. Come se l’immagine fosse possibile da confermare o da dimenticare. Esiste una miriade di opinioni sul musulmano ed è un tema altrettanto discusso e sviscerato all’osso. Non è un discorso retorico ma vale la pena cercare un filo rosso a tutta l’indagine.

Tutto comincia da un urgenza di metodo, di schema e di strumenti. Il primo approccio è quello alla parola e cioè l’indagine storico-linguistica interrogando i vari codici e il materiale linguistico a disposizione.  I primi passi sono stati nell’intento di fare dei confronti critici con una prospettiva eminentemente didattica. Dallo spoglio si è formulato un elenco lessicale accompagnato da alcune considerazioni. La maggior parte dei testi analizzati erano di tipo letterario. All’inizio la distinzione tra testo teatrale o poetico non è stata messa in evidenza ma man mano hanno cominciato a delinearsi dei generi letterari tre-cinquecenteschi più ricchi di altri. Si è capito, ad esempio, che il genere poetico è essenzialmente denso di richiami lessicali al mondo arabo-musulmano. L’indagine è stata condotta anche su un genere poco sondato, come la poesia regionale oppure i canti popolari. Ho subito scartato i documenti storici come i resoconti, o le cronache anche per un coerenza generale della ricerca e un interesse puramente letterario. Per termine letterario intendiamo tutti i testi che più o meno riguardano la cultura e, per riprendere le parole della Nuova Cronica di Giovanni Villani per definire Dante Alighieri, «fue grande letterato quasi in ogni scienza», cioè uomo dotto che s’interessa a tutte le manifestazioni della cultura.

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Saraceni dell’Opera dei pupi

In questo magma testuale, era importante selezionare in un primo tempo i testi di autori noti come Dante, Petrarca, Boccaccio, Degli Uberti, Boiardo, Ariosto. E come in tutti i percorsi di ricerca s’incrociano testi anche di autori anonimi o meglio non molto conosciuti da un italianista tirocinante. Si è delineata in questo modo una visione iniziale di quello che ho chiamato il glossario del conflitto terminologico Islam/Cristianesimo (maometterie, maomettano…). In linea di massima, la mole di testi individuati usa gli stessi termini con lievi differenze, come ad esempio trovare in un testo “saracino” in senso positivo e in un altro negativo. Certo che, come ci insegna Eco, il pensiero è l’interpretazione di un’interpretazione che a sua volta era un’interpretazione. Ecco perché, a volte, i sintagmi si ripetono da un testo all’altro, che si tratti di una novella del Boccaccio oppure di un verso di Fazio degli Uberti. Questo gioco interpretativo all’infinito dello scontro-incontro rende impossibile trovare un unicum semantico ma tanti altri. La pretesa di raggiungere la verità attraverso un sistema concettuale o ideale è cosa vana da un lato o dall’altro. Esiste tuttavia la stessa terminologia che si ripete in vari contesti testuali diversi.

In linea di massima una prima idea fondante di questo ragionamento è che una buona parte della letteratura italiana è stata alimentata da questo lessico che presenta un’evoluzione cronologica e una geografia mentale e reale. In effetti, si è potuto identificare nella lingua italiana una rappresentazione del ‘diverso’, ‘l’infedele’, ‘l’altro’, il musulmano. Quest’interpretazione come tutti gli studi orientalisti dimostrano fu rinforzata da alcune considerazioni erronee. L’Islam e la sua lessicografia risultarono per tanti secoli e in tante testimonianze testuali simboli del terrore, della devastazione, dell’invasione e soprattutto della conversione crudele. L’immagine di minaccia o di conflitto è passata molto facilmente nella poesia detta cavalleresca o in alcuni casi di testi viatici o resoconti di pellegrinaggi.

4Il poema enciclopedico Dittamondo di Fazio degli Uberti che iniziò nel 1345 non è solo un mero resoconto di viaggi attraverso l’Europa e le parti più vicine dell’Africa e la Palestina, ma rappresenta un ricco serbatoio di leggende, notizie geografiche e storiche. Protagonista del viaggio è lo stesso autore, che, esortato dalla Virtù e guidato da Solino, compie emblematicamente le sue esperienze intellettuali. Nel Dittamondo, come nella Commedia, si evidenzia l’uso delle personificazioni simboliche, delle apparizioni, delle visioni che introducono digressioni storiche ed esortazioni etiche. Le leggende presenti nel Dittamondo, a volte, mi ricordano il meccanismo odierno dei media che trasformano un dettaglio di vita comune ad una generalizzazione di idee e di preconcetti molto spesso fasulli. Il Dittamondo, ad esempio, riporta una serie di informazioni sulla vita del profeta Muhamad, associandogli leggende e poteri magici oppure il Decameron che fantastica su Salah Eddine Ayoubi, meglio noto come il Saladino.

Il nesso metodologico sta nel filtrare le informazioni e nell’identificare una serie di collegamenti tra questi. Dalle prime considerazioni anche solo lessicali si è andato a verificare questo concetto di conflitto-scontro nel corpus proposto inizialmente per la tesi di dottorato. Si è di conseguenza elaborato un glossario ragionato dove abbiamo evidenziato le categorie più interessanti per non cadere in quelle già identificate da E. Said nel suo famoso saggio Orientalismo oppure nel saggio di F. Faloppa Parole contro.

Credo che per individuare qualsiasi categoria lessicale sia prioritario lavorare sul vocabolario. Il lavoro di ricognizione del campo semantico si deve infatti considerare come un’operazione fondamentale e imprescindibile. Un’indagine sistematica mi ha permesso di identificare una linea di autori che considerano il saraceno un uomo positivo, cioè uno scienziato, filosofo commentatore come per certi versi lo troviamo nella Commedia dantesca nelle figure di Averroè e Avicenna. Mentre in altri testi troviamo il contrario e cioè un antagonista della fede cristiana, sanguinario, violento. Da qui deriva tutto un ragionamento sul nesso violenza-conflitto. Dopo aver lavorato sull’immagine in positivo di pochissime testimonianze si è passato a cercare dove si coglie di più questo aspetto e in che modo evolve. Il corpus individuato mi ha portato a valorizzare il Cinquecento in quanto secolo di grandi scontri storici che ha alimentato la finzione e il genere del poema in ottava rima. I primi lavori fatti riguardavano l’onomastica e la toponomastica.

La letteratura dei resoconti e dei viaggi mi ha fatto perdere, a volte, il nesso logico in virtù del déjà vu nei lavori di orientalisti del calibro di E. Said o di G. Gabrieli. Per non discostarmi da quest’indagine ho focalizzato tutto il lavoro sui manoscritti e le stampe di pellegrinaggi, per capire anche meglio l’impatto dell’Islam e la sua immagine non soltanto nei discorsi riportati da frati francescani ed essenzialmente domenicani. Cercavo in quelle righe non l’orientalista curioso e assetato di esotismo ma, in termini moderni, l’islamologo senza retorica e l’ho potuto individuare  in Riccoldo da Montecroce, vera silloge dell’incontro/scontro nel lungo lavoro della tesi di dottorato. Il missionario esploratore fiorentino, oltre alla sua buona conoscenza della lingua e della cultura araba, è stato capace di guardare oltre i precetti religiosi e canonici. Egli ha avuto il merito di difendere qualità spesso ignote ai popoli dell’epoca, soprattutto dal pubblico europeo. Riccoldo ha anche colto l’alterità nel Cristianesimo o meglio nei cristiano-orientali, come ad esempio i maroniti. Riccoldo non è pleonastico come di norma accade nella narrazione negli itinerari, empatico si emoziona, a volte riporta qualche notizia sul commercio di certe merci ma si allontana molto dal modello consueto dei pellegrini della sua epoca che s’interessano ai fatti commerciali o a quelli politici.

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Assedio delle mura di Acri 1291, Dominique Papety, 1840

Devo ammettere che c’erano numerosi documenti in veneziano, ad esempio, che ho tralasciato. Ricordiamo a questo proposito il ruolo che ha giocato Venezia in quanto tappa di partenza e di gestione dei numerosi pellegrini che si sono imbarcati: mercanti e armatori, specie veneziani ma non solo sulle loro navi, insieme alle merci, gruppi di pellegrini, allocati a bordo. La scelta del periodo storico non è stata casuale, cioè tra il XIII e XV, e cioè quando cadde in mano araba San Giovanni d’Acri, ultimo brandello di terra mediorientale rimasto nelle mani dei conquistatori cristiani (1291). In quel clima era diffusa la propensione all’intervento militare antimusulmano, teso alla cacciata degli infedeli, alla riconquista della Terrasanta e alla fondazione di un Impero o di un Regno cristiano nelle terre d’Oriente.

Migliaia di pellegrini che spesso con mezzi finanziari insufficienti intraprendevano il proprio viaggio mistico e affidavano alle pagine di un diario, accanto alle proprie sensazioni più squisitamente religiose, sentimenti di abbandono. Passando a raffica tanti manoscritti pubblicati in parte a metà dell’Ottocento, mi sono resa conto di una dicotomia ben evidente tra i racconti domenicani più virulenti e quelli francescani meno aggressivi. Nel rapportare il comportamento dei saraceni la maggior parte di questi itinerari descrivono l’infedele, barbaro con particolare disprezzo o timore. In questa panoplie di itineraria è stato quasi naturale scegliere il testo di Riccoldo da Montecroce, di cui ho fatto oggetto la tesi di dottorato, pubblicata nel 2009, perché rispetto ai suoi contemporanei o predecessori ha colto l’idea di Islam attraverso una lettura diretta dei testi sacri. La prova di tutto questo sono le glosse (appunti di Surat dal Corano) sui suoi vari manoscritti. Il testo è stato doppiamente interessante perché da un lato mi ha permesso, in quanto dottoranda, di esercitarmi su un volgarizzamento di effettuare una trascrizione, le sue relative note linguistiche, di imparare a distinguere gli aspetti etimologici e morfologici e di tessere le basi di una competenza di insegnamento di testi in volgare scegliendo i volgarizzamenti toscani di un autore praticamente contemporaneo al padre della lingua italiana, cioè Dante Alighieri (1265-1321)/Riccoldo da Montecroce (1243-1320).

L’equazione in base alla quale frequentare di più una civiltà porti a tollerarla meglio, in realtà non funziona per tanti pellegrini, almeno in quel periodo: i commenti dei viaggiatori occidentali sono per lo più improntati a odio e disprezzo nei confronti degli abitanti musulmani delle aree visitate, della loro civiltà, delle loro abitudini, degli uomini che li governano e ovviamente della loro religione. Nel testo del nostro pellegrino si fa un viaggio dei sensi, tutto è descritto con particolare attenzione ai dettagli, perché probabilmente alimentato dalla conoscenza della lingua, il vero strumento di comunicazione con i popoli.

5Non vanno però escluse le considerazioni di odio soprattutto quando il pellegrino vede le macchie di sangue sulle vesti dei suoi compagni morti nella presa di Acri. L’assedio di San Giovanni d’Acri fu il primo confronto della terza crociata che durò circa due anni e che costrinse il re di Gerusalemme ad occuparsi personalmente della difesa della Terra Santa. Fu anche l’evento più sanguinoso e distruttivo dell’intero periodo delle crociate che culminò con la consegna di Acri al Saladino. Qui vale la pena aprire una parentesi storica perché nel nostro ragionamento scientifico e in questa modesta ricerca si sono stabiliti due momenti storici di costruzione semantica attorno a questo ‘fascino dello scontro’: la caduta di Acri (1291) e poi la battaglia di Lepanto (1571). La prima sancisce i termini saracino, barbaro, maomettano e l’altra barbaresco, turco e una serie di termini come cane, canaglia e anche ‘merda’ e minchion (vedi ms. Marciano classe IX, N, 273 Lettera a Sultan Selin). Il lessico di odio e rancore è più presente nei testi ultimamente pubblicati tra il 2010 e 2016.

A questo punto risulta inutile ritornare al discorso di Riccoldo da Montecroce oggetto di studio di quasi otto anni e la letteratura religiosa o meglio viatica ad oggetto religioso. Va proseguito invece il ragionamento semantico dell’area dell’Islam nelle testimonianze letterarie italiane.

Non mi sono attardata molto sul ‘volet’ trecentesco, a parte qualche considerazione sul Boccaccio già sondato e sviscerato dai maggiori filologi del Novecento. Si trovano tra l’altro molte testimonianze negli articoli presentati per l’abilitazione pubblicati in riviste di semantica, di storia della lingua oppure di filosofia. Tra il Due e Trecento il musulmano, non ancora chiamato in quel modo, rimane sinonimo di nemico del Cristianesimo e associato alle crociate. A parte qualche esempio isolato associato al commercio e allo scambio. D’altronde la bravura degli arabi è notissima e verificabile nei resoconti commerciali come in cosiddetti brevi, Breve dei consoli della Corte dell’ordine dei Mercanti, oppure Breve dell’arte dei calzolai di Pisa. Tutti documenti racchiusi negli Statuti delle città di Pisa o di altre città compilati da anonimi. Molti altri riferimenti si trovano nel Trésor Volgarizzato di Brunetto Latini che rappresenta di fatto un’enciclopedia medievale scritta in forma abrégée  rispetto alle trattazioni latine del XIII secolo, perché rivolto al pubblico della nuova cultura laica di mercanti, amministratori, giudici e notai (come Brunetto), desiderosi di strumenti più agili e didascalici. Brunetto non scrive il suo trattato in latino, ma in francese, la lingua emergente di allora, non essendo ancora il toscano, prima di Dante, una lingua abbastanza strutturata per potervi sostenere un’opera impegnativa in prosa. La storia universale, la medicina, le scienze naturali, la geografia, la retorica e svariati altri domini del sapere medievale sono divulgati con arguzia e immediatezza.

tresorNella geografia mentale di questi autori l’Arabia è legata all’idea di posto lontano, sconosciuto, desertico e pieno di pericoli. Terra anche di ricchezze, di ‘gemme arabiche’, dell’araba fenice’. Poco traspare da arabo l’accezione della fede. Nel corpus Due-Trecentesco risulta invece sinonimo di infedeltà, malvagità e anche di crudeltà tutto attorno a Saracino. La Saracinia racchiude l’impero islamico da Oriente ad Occidente. La guisa saracinesca rappresenta quell’insieme di tradizioni lontanissime dall’Occidente.

Mi piace riportare un esempio delle donne saracine in un testo chiave del Trecento il Libro d’Oltramare di Niccolò Da Poggibonsi : «Quando le saracine vogliono fare allegrezza, fanno così, che menano la lingua per la bocca, e fanno suono a modo di ranocchi, che non è ruina persona che l’avesse udite, che non facesse sbigottire»[2].

Si è detto già dall’inizio che esistono periodi storici di forte produzione di questi poemi (tra ottave e terzine) di misura anche diversa, a volte lunghi poemi, altre volte più corti, ma sempre nell’intento di illustrare un atteggiamento verso il nemico ormai invasore, perché dal Quattrocento in poi il termine saraceno sparisce per dar luogo a barbaresco, maomettano, turco, cane…

Le fasi cronologiche vanno dal consolidamento della potenza di Muhammad II (1452-1481) alle imprese contro Venezia (1499-1500), al regno di Selim (1512-1520), l’espansione dell’Impero di Solimano il Magnifico (1521-1534), la controffensiva spagnola e la battaglia di Tunisi (1535-1541) e chiaramente le guerre corsare (1542-1550), infine Lepanto (1571).

Il corpus testuale ritrovato è spesso di autori anonimi o meglio di autori che collaborano in quel progetto dell’elaborazione della lingua italiana in una stretta cooperazione tra linguisti, tipografi e filologi. A questo proposito si riporta un poema di un anonimo intitolato Pianto et lamento de Selin, pubblicato a Venezia nel 1571 da Muschio, in Miscellanea Marciana 168. L’incipit è «Zonta che fo a Selin la crudel nuova / che tutte le so bestie retagiae / in t’un dì fo chiarire da pope e prova» [3].

Oltre al sintagma ‘Selim crudele’ o all’idea di violenza e crudeltà nelle due parole ‘bestie e retagiae’ troviamo nell’ultima terzina del poema una serie di lemmi relativi al profeta «Machometo busaro, inquio e can». Il testo è commentato da note e raccomandazioni che s’inseriscono nel nostro progetto di ricerca, cioè di come l’autore e l’editore lavorino in stretta collaborazione. Infatti Muschio in una nota dice

«Questo lavoro meriterebbe però un pò di attenzione da parte di coloro che si occupano di Lepanto e della poesia ispirata alla grande vittoria  dei turchi : Quai sono i Bembi, i Malpieri, i Troni/ Foscarini, Donati, e Mocenichi , / Soranzi, Balbi, Bragadini et Boni […]» [4].

Un elenco onomastico dei maggiori editori e linguisti che si sono interessati ai testi pubblicati a Venezia che parlano di scontro con i musulmani. In questa raccolta, di Guido Antonio Quarti Lepanto, edita a Milano dall’Istituto Avio-Navale nel 1930, oppure nel volume di grande rilevanza e che ho consultato lungo il mio percorso di ricerca Le guerre in ottava rima a cura di Marina Beer e Cristina Ivaldi, edite dall’Istituto di Studi rinascimentali di Ferrara nel 1988 e in particolar modo il volume sulle Guerre contro i turchi. Si potrebbe parlare di crociate tardive o meglio di quella visione particolarmente negativa nei confronti dei musulmani. È importante segnalare che per il secondo saggio si tratta di edizioni anastatiche che non presentano note oppure indicazioni tipografiche.

L’Ottocento è stato molto proficuo di edizioni sullo scontro Oriente/Occidente tra resoconti, poemi o racconti anche per gusto orientalista o forse per un’esigenza puramente linguistica in quella ben nota riflessione sulla lingua italiana e sulle sue testimonianze. Un’ossessiva ricerca di racconti sui corsari, le galere, le conversioni forzate, le donne rapite, le torture turche, spesso Tunisi è protagonista di questi racconti offuscati dalla finzione. Le coste barbaresche sono il bagno di sangue di questi scontri «Il sangue per il mare era quagliato/di turchi morti e di cristiani uccisi». Si ricordano, ad esempio, le peripezie di Guerino il Meschino che alla ricerca di suo padre va a ricattare i turchi, s’imbarca in una storia d’amore sul modello cavalleresco dell’amore interrotto o reso impossibile.

In tutte queste testimonianze il lessico dello scontro è in linea di massima lo stesso ma con indizi che ci rivelano se il testo è legato ai preconcetti bembiani e quindi toscani oppure in dialetto che sia veneto o napoletano di quel potenziale nemico ‘il turco’ pronto ad approdare, a rubare o a sequestrare. L’altro associato alla paura è ormai un fenomeno consolidato e sempre valido; basta sfogliare qualche quotidiano per vedere come l’immagine del musulmano sia stata storpiata e stigmatizzata in quell’aggettivo ‘terrorista’ e persista nelle società occidentali una crescente e banale stigmatizzazione dei musulmani e della loro religione. I media costruiscono la figura del nemico pubblico e amplificano a dismisura il timore percepito del radicalismo islamico.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
Note
[1] Amin Maalouf, Les identités meurtrières, Grasset 2002: 15.
[2] Niccolò Da Poggibonsi, il Libro d’Oltramare (1345), a cura di Alberto Bacchi Della Lega, Bologna, Romagnoli 1881.
[3] «Giunta che fu a Selin la nuova crudele che tutti i suoi uomini furono tagliati a pezzi (in un giorno furono liquidati tutti, da poppa a prora».
[4] Guido Antonio Quarti, Lepanto, Istituto Avio-Navale, Milano, 1930: 147.
[5] Andrea da Barberino, Bellissima istoria del Guerino detto il meschino, Napoli, Avallone 1849 (1473).
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Meriem Dhouib, nata a Tunisi, è professore associato di lingua, letteratura e civiltà italiana presso il dipartimento di lingue della Facoltà di Lettere e di Scienze Umanistiche della Manouba. Si occupa essenzialmente del periodo Quattro-Cinquecentesco, ha pubblicato nel 2009 I volgarizzamenti di Liber peregrinationis di Riccoldo da Montecroce (éditions Orient-Occident, Université de Strasbourg).
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