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Il dialogo con i morti a Napoli
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 00:43 In Cultura,Letture | No Comments
La discesa nell’Ade è un tema caro all’antichità: da Ulisse a Enea, molti sono gli eroi della mitologia classica che oltrepassano il limite, spingendosi nell’aldilà per incontrare i propri defunti e chiedere loro appoggio e protezione in cambio di benevolenza. Un contatto fra i vivi e i morti che diviene necessario agli uomini per orientare favorevolmente il corso degli eventi e compensare la perdita irreversibile di un caro congiunto.
I cimiteri, luoghi deputati al culto dei morti, costituiscono pertanto un universale culturale, presente in ogni società: rappresentano il tessuto connettivo della civiltà stessa, il modo in cui gli esseri umani fondano la propria esistenza sulla memoria e sulla pìetas verso i Lari.
In questo senso Giovambattista Vico faceva derivare l’umanità stessa dal termine humare, seppellire, restituire i propri cari alla terra. A nessuno può negarsi il diritto di sepoltura, neanche ai nemici (Tacito). Coloro che ne sono privi, restano pertanto in una condizione di liminarietà: sono anime vaganti, sospese fra il cielo e la terra e trovano dimora nel Purgatorio, luogo di transito per eccellenza. Spiriti irrequieti, non più vivi ma non del tutto morti perché ancora non purificati: proprio come i revenants, minacciosi se non confortati dalla presenza degli uomini.
E al Purgatorio è dedicato l’ultimo libro di Marino Niola, edito da Meltemi (2022), dal titolo Anime. Il Purgatorio a Napoli, con lo scopo di esplorare la vita sotterranea del sottosuolo partenopeo. In particolare l’autore si rivolge al culto delle pezzentelle, anime pezzenti, o più semplicemente capuzzelle, testoline: teschi di cadaveri gettati alla rinfusa dopo le pestilenze del Seicento e dell’Ottocento, che affollano gli ossari ai margini dei cimiteri della città antica, quello delle Fontanelle, sotto la collina di Capodimonte, nel quartiere storico della Sanità, il santuario di Santa Maria ad Arco e la Basilica di San Pietro ad Aram. Gli ipogei costituiscono un richiamo evidente degli usi funebri del mondo antico, sia per la collocazione topografica, nel sottosuolo urbano, che rievoca la configurazione labirintica del regno dei morti, sia per la presenza di sorgive, come nel cimitero delle Fontanelle, che evidenziano il legame fra l’acqua e la purificazione dei cadaveri.
Quello delle pezzentelle – afferma Marino Niola – è l’espressione di una pietà popolare ancora viva nella città, un culto che nasce dal basso che recupera pratiche precristiane. Si tratta di una forma di pietà popolare verso questi teschi privi di identità, che ben risponde a quella concezione indulgenziale della vita, del do ut des, tipica del Meridione d’Italia.
Come gli antichi greci scendevano nell’oltretomba a visitare i morti, così i il popolo napoletano penetra nel sottosuolo attraverso le grotte per interrogare queste anime purganti, in attesa di redenzione, del tutto simili a quelle dei corpi decollati, caduti sotto la ghigliottina dell’Inquisizione. Si tratta genericamente – come ricorda Giuseppe Pitrè negli Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano – di morti per cause violente, banditi e malfattori che nel trapasso si pentono e aspirano alla salvezza eterna. Per questa loro natura ambivalente diventano gli interlocutori privilegiati della povera gente e, nell’immaginario popolare, sono rappresentati fra le fiamme o sulle nuvole accanto ai santi e alla Madonna, nel ruolo di benefattori. Con la differenza che, mentre i primi sono riconosciuti dalla religione ufficiale, queste anime in pena, senza identità e senza sepoltura, hanno bisogno dello stretto contatto dei vivi, affinché possa attuarsi la loro beatificazione.
Gli spiriti dell’oltretomba chiedono di uscire dall’anonimato degli ossari, implorando ai credenti la loro adozione, appaiono in sogno durante la notte, rivelando la propria identità e narrando la storia vissuta in terra. Garantiscono l’accoglimento delle grazie richieste e ogni sorta di protezione in cambio di cure e conforto. Uno scambio di beni e servizi – chiarisce Marino Niola – che si adopera attraverso il refrisco, letteralmente refrigerio, sollievo dall’arsura che affligge i condannati. Il refrisco prevede una serie di attenzioni nei confronti del teschio, una volta avvenuta la conferma delle proprie qualità miracolanti, che prevedono la cura e la pulizia del cranio e della teca dove viene riposto, confortato da luci e fiori e da ogni altro tipo di ornamenti e suppellettili donati a testimonianza della devozione.
L’autore fa notare, a questo proposito, come le anime purganti dei cimiteri partenopei, mantengano la stessa identità della vita precedente, che rimanda, con ogni probabilità, più che a esperienze reali, a credenze e racconti popolari trasmessi oralmente nell’orizzonte folklorico dei napoletani. Si apre così uno scenario piuttosto variegato di tipi umani e personaggi fissi, riconoscibili dal loro abbigliamento: gli sposi, il carabiniere, il monaco, il marinaio.
Va ancora considerato che, fra le capuzzelle, vi è una precisa gerarchia da cui emergono quelle maggiormente venerate: Lucia, ad esempio, la sposa dalle nobili origini col velo nuziale sul cranio, richiama i visitatori per la sontuosità della cappelletta, la cui disposizione delle luci rivela il suo nome. Oppure la capa rossa, per via del colore dei suoi capelli in vita, vestito da postino e dunque portatore di buone notizie. Una delle più note è la capa che suda, sempre linda e lucidata malgrado la polvere dei sotterranei. La sua potenza salvifica è dimostrata dal fatto che, al contatto, la mano del richiedente si bagna: segno dell’avvenuto miracolo.
Fra tutti i personaggi dell’oltretomba, quello che riveste una maggiore efficacia simbolica è il Capitano, retaggio di una favolistica largamente diffusa in Europa, ma che nel Seicento ha trovato a Napoli il suo terreno più fertile. I contenuti di questo racconto richiamano il tabù dell’oltraggio ai morti. Il Capitano è un teschio che diviene oggetto di scherno e violenza da parte di un miscredente, prossimo alle nozze. Arriva il giorno del matrimonio e il Capitano irrompe durante i festeggiamenti, in alta uniforme, come ospite sconosciuto. Rivela la sua identità e uccide gli sposi per vendicarsi dell’offesa subita.
Da questo motivo narrativo si svilupperà, come è noto, il mito del Don Giovanni di Mozart e, in precedenza, del Burlador de Siviglia di Tirso De Molina, che non a caso vide la sua prima rappresentazione teatrale a Napoli. Don Giovanni, seduttore e libertino impenitente, aveva osato sfidare una statua di pietra. La sera successiva, il Convitato si presenta a cena e invita il miscredente al pentimento, ricordandogli l’offesa subita. Al ripetuto diniego del Don Giovanni, il malgradito ospite lo uccide, condannandolo a bruciare fra le fiamme.
È un racconto intriso di metafore e allegorie, spiega l’autore, che evidenzia il rapporto fra memoria e oblio. All’amnesia del miscredente che dimentica l’azione compiuta contro il morto, si contrappone la figura del Capitano come incarnazione della memoria, ricordando ai vivi le offese operate e presto dimenticate. In questo senso le figure del Capitano e del Convitato di pietra sembrano assolvere il ruolo di messaggeri dell’aldilà, chiamati a ricucire i fili della memoria, a rinsaldare i legami fra passato e presente, attraverso il ricordo dei morti. Appaiono pertanto come superstiti, custodi degli inferi la cui presenza scongiura il pericolo dell’oblio, di chi considera il passato un eterno presente.
A Napoli, a differenza degli altri luoghi dell’Occidente, vi è ancora una rete di solidarietà, un’etica collettiva verso le anime dolenti del Purgatorio e verso tutti i diseredati della terra. Espressioni di carità che si manifestano non soltanto nei luoghi di culto, ma anche in tutti gli spazi domestici e liminari. Le case del popolo napoletano sono pervase da spiriti funebri in qualità di numi tutelari che appaiono e scompaiono come larvae, fantasmi, idola, proprio come i Greci che li consideravano una categoria particolare di defunti. Sono le “voci di dentro” di Edoardo De Filippo, i monacelli, i trapassati di Totò.
Questo, tra i tanti, uno dei grandi meriti del libro: un invito a ripensare, attraverso il caso napoletano, al nostro rapporto con l’aldilà. Soprattutto in un momento come questo in cui si tende a rimuovere la morte da ogni orizzonte esistenziale. Oggi la fine del ciclo vitale è ridotta ad un mero evento fisiologico, un fastidio da allontanare, quasi un incidente di percorso che turba il mito di una longevità assoluta e dell’eterna giovinezza.
Eppure, da qualche tempo, la devastante pandemia che sta minacciando il nostro pianeta ha posto l’uomo di fronte al dramma di una morte angosciosa, in solitudine, privata dell’affetto dei propri cari. Questo libro è dedicato alle vittime del Covid: “a coloro che se ne sono andati soli e senza conforto. Al dolore dei parenti che non hanno potuto neanche vederli e salutarli. Alle anime in pena dell’aldilà e dell’aldiquà”.
Dopo la chiusura degli ipogei da parte della Chiesa, da sempre ostile a queste forme di “superstizione”, essi sono stati riaperti al pubblico a seguito di un lungo restauro, per restituire al pubblico la conoscenza storica di questa dimensione ultraterrena della città. Da luoghi di culto a beni culturali, dalla devozione popolare alla valorizzazione e promozione turistica. Per ricordare a tutti che a Napoli il dialogo con i morti non si è mai interrotto.
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Le vite del sottosuolo di Napoli
di Orietta Sorgi
La discesa nell’Ade è un tema caro all’antichità: da Ulisse a Enea, molti sono gli eroi della mitologia classica che oltrepassano il limite, spingendosi nell’aldilà per incontrare i propri defunti e chiedere loro appoggio e protezione in cambio di benevolenza. Un contatto fra i vivi e i morti che diviene necessario agli uomini per orientare favorevolmente il corso degli eventi e compensare la perdita irreversibile di un caro congiunto.
I cimiteri, luoghi deputati al culto dei morti, costituiscono pertanto un universale culturale, presente in ogni società: rappresentano il tessuto connettivo della civiltà stessa, il modo in cui gli esseri umani fondano la propria esistenza sulla memoria e sulla pìetas verso i Lari.
In questo senso Giovambattista Vico faceva derivare l’umanità stessa dal termine humare, seppellire, restituire i propri cari alla terra. A nessuno può negarsi il diritto di sepoltura, neanche ai nemici (Tacito). Coloro che ne sono privi, restano pertanto in una condizione di liminarietà: sono anime vaganti, sospese fra il cielo e la terra e trovano dimora nel Purgatorio, luogo di transito per eccellenza. Spiriti irrequieti, non più vivi ma non del tutto morti perché ancora non purificati: proprio come i revenants, minacciosi se non confortati dalla presenza degli uomini.
E al Purgatorio è dedicato l’ultimo libro di Marino Niola, edito da Meltemi (2022), dal titolo Anime. Il Purgatorio a Napoli, con lo scopo di esplorare la vita sotterranea del sottosuolo partenopeo. In particolare l’autore si rivolge al culto delle pezzentelle, anime pezzenti, o più semplicemente capuzzelle, testoline: teschi di cadaveri gettati alla rinfusa dopo le pestilenze del Seicento e dell’Ottocento, che affollano gli ossari ai margini dei cimiteri della città antica, quello delle Fontanelle, sotto la collina di Capodimonte, nel quartiere storico della Sanità, il santuario di Santa Maria ad Arco e la Basilica di San Pietro ad Aram. Gli ipogei costituiscono un richiamo evidente degli usi funebri del mondo antico, sia per la collocazione topografica, nel sottosuolo urbano, che rievoca la configurazione labirintica del regno dei morti, sia per la presenza di sorgive, come nel cimitero delle Fontanelle, che evidenziano il legame fra l’acqua e la purificazione dei cadaveri.
Quello delle pezzentelle – afferma Marino Niola – è l’espressione di una pietà popolare ancora viva nella città, un culto che nasce dal basso che recupera pratiche precristiane. Si tratta di una forma di pietà popolare verso questi teschi privi di identità, che ben risponde a quella concezione indulgenziale della vita, del do ut des, tipica del Meridione d’Italia.
Come gli antichi greci scendevano nell’oltretomba a visitare i morti, così i il popolo napoletano penetra nel sottosuolo attraverso le grotte per interrogare queste anime purganti, in attesa di redenzione, del tutto simili a quelle dei corpi decollati, caduti sotto la ghigliottina dell’Inquisizione. Si tratta genericamente – come ricorda Giuseppe Pitrè negli Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano – di morti per cause violente, banditi e malfattori che nel trapasso si pentono e aspirano alla salvezza eterna. Per questa loro natura ambivalente diventano gli interlocutori privilegiati della povera gente e, nell’immaginario popolare, sono rappresentati fra le fiamme o sulle nuvole accanto ai santi e alla Madonna, nel ruolo di benefattori. Con la differenza che, mentre i primi sono riconosciuti dalla religione ufficiale, queste anime in pena, senza identità e senza sepoltura, hanno bisogno dello stretto contatto dei vivi, affinché possa attuarsi la loro beatificazione.
Gli spiriti dell’oltretomba chiedono di uscire dall’anonimato degli ossari, implorando ai credenti la loro adozione, appaiono in sogno durante la notte, rivelando la propria identità e narrando la storia vissuta in terra. Garantiscono l’accoglimento delle grazie richieste e ogni sorta di protezione in cambio di cure e conforto. Uno scambio di beni e servizi – chiarisce Marino Niola – che si adopera attraverso il refrisco, letteralmente refrigerio, sollievo dall’arsura che affligge i condannati. Il refrisco prevede una serie di attenzioni nei confronti del teschio, una volta avvenuta la conferma delle proprie qualità miracolanti, che prevedono la cura e la pulizia del cranio e della teca dove viene riposto, confortato da luci e fiori e da ogni altro tipo di ornamenti e suppellettili donati a testimonianza della devozione.
L’autore fa notare, a questo proposito, come le anime purganti dei cimiteri partenopei, mantengano la stessa identità della vita precedente, che rimanda, con ogni probabilità, più che a esperienze reali, a credenze e racconti popolari trasmessi oralmente nell’orizzonte folklorico dei napoletani. Si apre così uno scenario piuttosto variegato di tipi umani e personaggi fissi, riconoscibili dal loro abbigliamento: gli sposi, il carabiniere, il monaco, il marinaio.
Va ancora considerato che, fra le capuzzelle, vi è una precisa gerarchia da cui emergono quelle maggiormente venerate: Lucia, ad esempio, la sposa dalle nobili origini col velo nuziale sul cranio, richiama i visitatori per la sontuosità della cappelletta, la cui disposizione delle luci rivela il suo nome. Oppure la capa rossa, per via del colore dei suoi capelli in vita, vestito da postino e dunque portatore di buone notizie. Una delle più note è la capa che suda, sempre linda e lucidata malgrado la polvere dei sotterranei. La sua potenza salvifica è dimostrata dal fatto che, al contatto, la mano del richiedente si bagna: segno dell’avvenuto miracolo.
Fra tutti i personaggi dell’oltretomba, quello che riveste una maggiore efficacia simbolica è il Capitano, retaggio di una favolistica largamente diffusa in Europa, ma che nel Seicento ha trovato a Napoli il suo terreno più fertile. I contenuti di questo racconto richiamano il tabù dell’oltraggio ai morti. Il Capitano è un teschio che diviene oggetto di scherno e violenza da parte di un miscredente, prossimo alle nozze. Arriva il giorno del matrimonio e il Capitano irrompe durante i festeggiamenti, in alta uniforme, come ospite sconosciuto. Rivela la sua identità e uccide gli sposi per vendicarsi dell’offesa subita.
Da questo motivo narrativo si svilupperà, come è noto, il mito del Don Giovanni di Mozart e, in precedenza, del Burlador de Siviglia di Tirso De Molina, che non a caso vide la sua prima rappresentazione teatrale a Napoli. Don Giovanni, seduttore e libertino impenitente, aveva osato sfidare una statua di pietra. La sera successiva, il Convitato si presenta a cena e invita il miscredente al pentimento, ricordandogli l’offesa subita. Al ripetuto diniego del Don Giovanni, il malgradito ospite lo uccide, condannandolo a bruciare fra le fiamme.
È un racconto intriso di metafore e allegorie, spiega l’autore, che evidenzia il rapporto fra memoria e oblio. All’amnesia del miscredente che dimentica l’azione compiuta contro il morto, si contrappone la figura del Capitano come incarnazione della memoria, ricordando ai vivi le offese operate e presto dimenticate. In questo senso le figure del Capitano e del Convitato di pietra sembrano assolvere il ruolo di messaggeri dell’aldilà, chiamati a ricucire i fili della memoria, a rinsaldare i legami fra passato e presente, attraverso il ricordo dei morti. In questo senso appaiono come superstiti, custodi degli inferi la cui presenza scongiura il pericolo dell’oblio, di chi considera il passato un eterno presente.
A Napoli, a differenza degli altri luoghi dell’Occidente, vi è ancora una rete di solidarietà, un’etica collettiva verso le anime dolenti del Purgatorio e verso tutti i diseredati della terra. Espressioni di carità che si manifestano non soltanto nei luoghi di culto, ma anche in tutti gli spazi domestici e liminari. Le case del popolo napoletano sono pervase da spiriti funebri in qualità di numi tutelari che appaiono e scompaiono come larvae, fantasmi, idola, proprio come i Greci che li consideravano una categoria particolare di defunti. Sono le “voci di dentro” di Edoardo De Filippo, i monacelli, i trapassati di Totò.
Questo, tra i tanti, uno dei grandi meriti del libro: un invito a ripensare, attraverso il caso napoletano, al nostro rapporto con l’aldilà. Soprattutto in un momento come questo in cui si tende a rimuovere la morte da ogni orizzonte esistenziale. Oggi la fine del ciclo vitale è ridotta ad un mero evento fisiologico, un fastidio da allontanare, quasi un incidente di percorso che turba il mito di una longevità assoluta e dell’eterna giovinezza.
Eppure, da qualche tempo, la devastante pandemia che sta minacciando il nostro pianeta ha posto l’uomo di fronte al dramma di una morte angosciosa, in solitudine, privata dell’affetto dei propri cari. Questo libro è dedicato alle vittime del Covid: “a coloro che se ne sono andati soli e senza conforto. Al dolore dei parenti che non hanno potuto neanche vederli e salutarli. Alle anime in pena dell’aldilà e dell’aldiquà.”.
Dopo la chiusura degli ipogei da parte della Chiesa, da sempre ostile a queste forme di “superstizione”, essi sono stati riaperti al pubblico a seguito di un lungo restauro, per restituire al pubblico la conoscenza storica di questa dimensione ultraterrena della città. Da luoghi di culto a beni culturali, dalla devozione popolare alla valorizzazione e promozione turistica. Per ricordare a tutti che a Napoli il dialogo con i morti non si è mai interrotto.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Riferimenti bibliografici
Niola, Marino
2019 Diventare Don Giovanni. Un viaggio attraverso l’Europa sulle tracce del grande seduttore, Milano, Bompiani
Pitrè, Giuseppe
1889 Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. IV, Libreria L. Pedone Lauriel di C. Clausen, ristampa anagrafica del 1978, Palermo
Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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