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Il “banchiere” italiano tra gli emigrati nel Nord America
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2015 @ 00:46 In Migrazioni,Società | 1 Comment
di Salvatore Costanza
Dimensioni e caratteristiche quantitative dell’emigrazione italiana, cosí come è stata rilevata dagli Annuari statistici, specie dal 1876 in poi, non hanno potuto segnalare all’opinione pubblica il disagio, spesso il dramma, di quanti affrontavano le vie dell’espatrio. Prima il viaggio, con le stive sovraffollate, e le aleatorie condizioni di igiene e alimentazione. L’emigrante era merce povera, e gl’interessi armatoriali, nonché i compiacenti silenzi delle autorità marittime, si sommavano, fra l’altro, ai lucrosi contratti per l’introduzione d’immigrazione sovvenzionata, come strumenti di finanziamento privatistici dell’espatrio specie verso gli Stati Uniti [1]. Il resoconto deamicisiano – Sull’Oceano (1889) – di un’esperienza vissuta a bordo di una nave che portava gli emigranti italiani, ne segnalava già il “cumulo di pena”.
Poi il collocamento di mano d’opera, in un mercato lasciato alla piú sfrenata libertà, dove l’arbitrio e l’intermediazione mafiosa erano prassi costante. Del resto, l’assenza nel settore dei flussi migratori, nonchè di quello del lavoro, di ogni legge e regolamentazione non era tanto inerzia, o scarsa intelligenza, del fenomeno da parte delle amministrazioni governative degli Stati Uniti quanto, invece, interesse e obiettivo funzionale del capitalismo americano per favorire la massima disponibilità di offerte lavorative in un periodo di crescita della industrializzazione.
È in tale contesto che prosperano nel Nord America, nella seconda metà dell’Ottocento, e nei primi anni del nuovo secolo, i “padroni”, i “boss” e i “banchieri”, figure ambigue, tra finta solidarietà e assistenza, e sfruttamento organizzato degli emigrati per il loro impiego nel mercato del lavoro [2]. Inchieste e dibattiti di quegli anni, specie attraverso alcuni organi di stampa italiani, come l’Avanti! e la Battaglia di Palermo, e americani di New York e Philadelphia, denunciano il fenomeno del “padrone system” o boss, la cui origine si fa risalire alla pratica del contract labor, che favorisce l’importazione diretta di forza lavoro.
Si tratta di un prodotto degenerato di integrazione della massa di immigrati italiani, per lo piú analfabeti, – e tramite degli stessi meccanismi delle machines elettorali municipali e nazionali, – che s’identifica con gli atteggiamenti e i rapporti sociali propri della società contadina tradizionale, come ebbero già a rilevare nel secolo scorso i meridionalisti, da Nitti a Villari. Tra le figure di intermediari, quella finanziaria del “banchiere”, aveva poco a che fare con le strutture bancarie regolate da norme e modalità di credito. Egli svolgeva spesso la sua attività in collegamento con il boss. L’emigrante, appena sbarcato, s’indirizzava al “banchiere”, che magari gli aveva anticipato il prezzo del biglietto, e che avrebbe poi assunto la lucrosa gestione dei suoi risparmi, e delle sue rimesse, nonché una complessità di funzioni sussidiarie esercitate nelle little Italies. Del resto, la posizione acquisita dal boss e dal banchiere, per i legami che riusciva a stringere con l’agente consolare, con le autorità e con gli stessi giornalisti, gli assicurava impunità e prestigio. La sua ascesa nella scala sociale era assicurata dalla sua capacità di saldare il suo intreccio affaristico al potere pubblico delle amministrazioni municipali e nazionali.
Pasquale Villari sostenne in quegli anni che quello dell’emigrazione era in primo luogo “problema morale”, perché il fatto materiale poteva essere risolto mediante le leggi e la sindacalizzazione; mentre era piú difficile sbarazzarsi dei pregiudizi, delle sudditanze culturali, e della carenza di “spirito civico” [3]. Era questa pure la convinzione di quanti cercarono di stringere in sodalizio politico gli emigrati italiani, per una progressiva, e piú o meno fortunata, integrazione nel tessuto economico e sociale americano.
Furono, infatti, i sodalizi di lavoratori organizzati entro gruppi politici, in genere di orientamento sindacalista rivoluzionario [4], che denunciarono fattori e caratteri dello sfruttamento degli emigrati, e affrontarono la mano nera della mafia siculo/americana; mentre l’attività del Labor Information office for Italian, costituito, nel 1906, a New York dal “Commissariato italiano per l’emigrazione”, con una funzione di “agenzia gratuita di collocamento”, era resa inefficace dalla rete di “interessi e camerille che un disonesto mezzo di sfruttamento aveva eretto a sistema” [5].
Sebastiano Bonfiglio [6] raccolse per il Congresso di Roma del 1911 degli Italiani all’estero la documentazione relativa alla “fisiologia” del “banchiere”, e al suo “ufficio” tra gli emigrati [7]. Nel suo pamphlet, pubblicato da Louis Dimola a Brooklyn nel maggio 1911, egli ricostruí la genesi del “banchiere”, elencando la molteplicità dei suoi “servizi”, anche quelli di semplice “negozio”. Oltre alle ambiguità, e alle carenze, della legislazione bancaria statunitense, ciò che favoriva l’esercizio dell’improvvisato, e spregiudicato, “banchiere” era l’iniziale estraneità dell’emigrato alla lingua e alle strutture amministrative e finanziarie del luogo:
Tra il “banchiere” e il lavoratore veniva poi stabilito un contratto per il collocamento, che doveva essere compensato da una tangente come “bossatura”, con la clausola del “bordo obbligatorio”. Quindi, non soltanto esercizio finanziario, nei modi e nei tempi denunciati da Bonfiglio, ma pure “negozio”, “ove si vende e smercia”, come in un bazar, qualsiasi tipo di “provvista” domestica mediante un particolare contratto che legava il lavoratore al “banchiere”:
I “rimedi” al “male d’oggi” di cui soffrivano i lavoratori immigrati, secondo Bonfiglio dovevano essere trovati «nell’orbita dell’azione di tutti gli uomini liberi ed onesti», piuttosto che nei “poteri legislativi”, in un paese dove «nessun peso sulla sua bilancia politica» avevano quanti vi erano ospitati. Intanto, bisognava persuadere gli immigrati, specie coloro che venivano dal Mezzogiorno d’Italia e dalla Sicilia, a inviare le loro rimesse tramite gli Istituti bancari e gli Uffici postali; e, per il lavoro, avvalersi degli uffici governativi gratuiti di collocamento.
Un “abbozzo per un piano d’innovazioni”, Bonfiglio aveva pure preparato per fare del Labor Information Office for Italian «il centro irradiatore di un’azione complessa e molteplice d’assistenza del nostro emigrato, e sotto il vigile controllo dei lavoratori medesimi». Istruire poi l’emigrante, col mezzo di una scuola che lo prepari alle professionalità tecniche e complementari del lavoro, era una proposta di Angiolo Cabrini [10], ma Bonfiglio voleva che tale scuola fosse «efficace a prevenire i mali che dall’ignoranza ritraggono la loro ragion d’essere», dando «alle generazioni presenti e future le cognizioni necessarie per la formazione della coscienza di cittadini» [11].
Spettava, del resto, ai Socialisti difendere i lavoratori che lasciavano l’Italia per trasferirsi oltre Oceano; ma nel Partito socialista il problema dell’emigrazione era rimasto ai margini del dibattito politico, se si eccettua l’azione promossa da Angiolo Cabrini, fondatore della Società Umanitaria di Milano, che, nell’assistenza agli emigranti, si contrapponeva all’Opera Bonomelli di orientamento cattolico [12]. Né poteva giudicarsi efficace la stessa attività della Federazione che, nel Nord America, operava in nome del Partito Socialista Italiano:
Per non dire che i Socialisti italiani del Nord America erano passati dall’iniziale simpatia per il Socialist Labor Party alla formazione di nuclei organizzati sotto l’influenza del sindacalismo rivoluzionario, fino alla costituzione di una Federazione Socialista ad opera di Giacinto Menotti Serrati, che era stato chiamato, nel 1903, negli Stati Uniti da Dino Rondani a dirigere il “Proletario” di Philadelphia [14].
Mancarono, dunque, i riscontri pratici, in chiave politica e sindacale, al solidarismo emigrazionista dei Socialisti italiani del Nord America, i quali si trovarono ad affrontare gli agenti dell’emigrazione, i cui diffusi, e molteplici, interessi erano veicolati dalla stampa coloniale, dove primeggiava “Il Progresso italo-americano”[15]. Esplicito era nel pamphlet di Bonfiglio il riferimento alla “stampa italiana assoldata” per la réclame alle operazioni dei “banchieri”, tra i quali un oriundo siciliano, “prominente” a New York per i suoi affari finanziari:
Con la bancarotta che ne seguí, e l’inevitabile “fuga” del “banchiere” in Canada, furono scoperti i “trucchi” e gli espedienti messi in campo per frodare centinaia di depositanti e clienti, mentre incalzava la crisi finanziaria del 1907-8, e lo sfruttamento del lavoro immigrato era lasciato all’arbitrio di un mercato senza regole certe. La vicenda “esemplare” del “banchiere” italiano, che Bonfiglio ricostruiva attraverso la sequenza di truffe, ricatti e oscure trame giudiziarie, segnava uno degli anelli della catena stretta attorno agli emigrati per la loro difficile integrazione sociale. Le leggi verranno molti anni dopo, e non potranno evitare le complesse e radicate connivenze della mafia, gl’intrecci tra bossatura e mercato del lavoro, anche se la maturazione di una coscienza operaia piú avanzata, e l’organizzazione sindacale, apriranno nuovi spazi per la tutela dei lavoratori.
Note e riferimenti bibliografici
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