Introduzione
In uno dei romanzi più famosi della scrittrice Ursula Kroeber Le Guin, La mano sinistra del buio, si racconta la storia di un esploratore chiamato Genly Ai sul pianeta Gethen. In questo mondo tutti gli abitanti sono ambisessuali: vivono la maggior parte della loro esistenza in uno stato di ermafroditismo neutro per poi diventare maschi o femmine nei giorni di kemmer, quelli in cui si manifesta il desiderio sessuale e si può eventualmente concepire. Su Gethen, chiamato anche Inverno dai visitatori stranieri a causa delle sue rigide temperature, non ci sono ruoli sessuali fissi: un individuo che in una relazione aveva magari assunto momentaneamente un ruolo maschile può in modo del tutto normale assumere un ruolo femminile e dare alla luce un figlio, divenendo, per assurdo, padre e madre della propria prole.
Inserito nella società getheniana in qualità di ambasciatore e antropologo dilettante, l’inviato dell’Ecumene [1] Genly Ai, biologicamente maschile, viene considerato dalla gente del posto un pervertito, un essere perennemente eccitato da cui tenersi a debita distanza. Ai loro occhi, infatti, questa scandalosa figura vive in uno stato di kemmer costante e appare sempre desideroso di accoppiarsi, esattamente come i malati che sul pianeta soffrono di questo disturbo.
L’amicizia con il getheniano Estraven, che nel corso del racconto diventa suo/sua compagno/a di viaggio, genera uno shock culturale nel lettore [2], ma allo stesso tempo diventa uno spunto per riflettere su concezioni non binarie della sessualità, sganciate cioè da una dicotomia normativa tra maschile e femminile. La narrativa fantascientifica di qualità, prospettando possibilità nuove e inaudite, d’altra parte spinge sempre ad analizzare in profondità le categorie che danno forma al nostro modo di interpretare e classificare l’esistente. Questo genere letterario, insomma, permette di fare speculazioni e immaginare nuovi territori, metaforici oltre che fisici.
Ursula Le Guin, figlia del celebre antropologo relativista Alfred Kroeber, è una delle prime scrittrici che, durante la seconda ondata femminista, ha colto il potenziale rivoluzionario della scrittura legata al genere fantasy/fantascientifico. Come rilevato da Pamela J. Annas nel suo saggio New Worlds, New Words: Androgyny in Feminist Science Fiction, un numero crescente di donne ha iniziato tra gli anni Sessanta e Settanta a scrivere storie di fantascienza, consapevoli del valore politico di tale scelta: «È importante capire che la fantascienza femminista è il risultato tanto della recente letteratura femminista quanto della fantascienza; la fantascienza stessa è stata un genere prevalentemente dominato dagli uomini»[3] (traduzione mia). Nel suo saggio Is gender necessary? la stessa Ursula Le Guin ha ammesso che ha trovato più congeniale, per parlare di genere, scrivere una novella di fantascienza piuttosto che ricorrere alla non-fiction:
«They are questions, not answers, process, not stasis. One of the essential functions of science fiction, I think, is precisely this kind of question-asking: reversals of a habitual way of thinking, metaphors for what our language has no words for as yet, experiments in imagination» [4].
Per la scrittrice americana, la science fiction può aiutare a vedere le cose da altre angolazioni. Per scoprire se esistono veramente le differenze che diamo spesso per scontate, ad esempio, Le Guin ha immaginato di spedire un essere umano molto simile a noi
«into an imaginary culture which is totally free of sex roles because there is not, absolutely not, physiological sex distinction. I eliminated gender, to lend out what was left. Whatever was left would be, presumably, simply human. lt would decline the area that is shared by men and women alike» [5].
Attraverso un lavoro di sottrazione, ella immagina non solo come potrebbero essere, e come potrebbero comportarsi, esseri umani privi di sesso biologico binario, ma ragiona sulle conseguenze sociali di una tale disposizione fisica. Il risultato è un mondo perturbante: uno spazio insieme familiare e sconosciuto, accogliente e disturbante, in cui i ruoli di genere sono laschi e cangianti, in cui non esistono guerre (è attestata l’aggressività fisica e verbale tra individui, ma non la violenza di massa, né il conflitto organizzato tra gruppi e comunità) e non esistono schiavitù e servitù. Nessuno su Gethen/Inverno possiede veramente nessuno (anche se certe zone del pianeta sono rette da monarchie) e non esiste un concetto definito di proprietà. Almeno fino al momento dell’arrivo di Genly Ai e la ratifica dell’ingresso di questo mondo nel sistema dell’Ecumene [6].
Le Guin ci dice che la sua non è un’utopia nel vero senso del termine: non c’è nulla, infatti, di praticabile nell’immediato futuro per la società contemporanea. Ciononostante, pur proponendo un’alternativa impossibile, questo romanzo ci costringe a lavorare sul nostro immaginario aprendoci almeno teoricamente a possibilità alternative e, soprattutto, alla possibilità di fare scelte differenti [7]. E se la nostra idea normativa di sessualità binaria non fosse così inscritta nella natura come noi tendiamo a pensare? Che cosa cambierebbe nel nostro modo di essere umani? Quali echi avrebbe questa nuova consapevolezza sulla nostra socialità?
Qualche risposta si può trovare anche nel mondo reale, guardando alla molteplicità del tessuto umano e alle sue mille sfaccettature. L’antropologa Mila Busoni, ad esempio, ci racconta che presso gli Inuit dell’Artico, il genere è sganciato dal sesso biologico perché nascere, per queste popolazioni, significa essenzialmente ritornare:
«Nascere per gli Inuit significa tornare: ogni essere umano è la reincarnazione di un individuo vissuto in precedenza. Alla nascita, viene determinata (…) quale sia precisamente la persona che il nuovo nato viene a rimpiazzare e di cui assumerà il nome, la personalità sociale e le precedenti relazioni parentali. Sono le anime nome che prendono l’iniziativa di tornare in vita, quale sia la forma fisica in cui rivivono. È in base all’anima nome e all’identità che questa aveva avuto in vita che la persona appena nata verrà educata: l’essere umano chiamato Iqallijup viene allevato come maschio e ogni sua attività sarà maschile» [8].
Gli esseri umani, dunque, crescono in un contesto ben preciso e vengono educati sulla base di categorie socioculturali che danno forma al modo di stare al mondo e di pensare. Nelle società euroamericane, ad esempio, quando si parla di identità sessuale o di genere, ciò che un individuo mostra, o ciò che di lui/lei viene notato fisicamente alla nascita, è considerato un tratto prioritario per l’assegnazione di una determinata identità. Se è vero che viviamo in un contesto sociale che oggi permette una certa libertà e la diffusione di modi di sentire diversi, non si può ignorare come per il senso comune sia ancora difficile abbandonare l’idea che il sesso biologico sia qualcosa di naturale che impatta sul genere: maschi e femmine sono educati diversamente perché hanno caratteristiche fisiche differenti alla nascita.
Gi studi etnografici e antropologici ci aiutano a vedere che le categorie in cui vengono raggruppate le identità femminili e maschili non dispongono in realtà di caratteristiche definite universalmente poiché tali categorie variano da società in società. Anche le concezioni di “natura” sono costruzioni culturali:
«Mentre per noi occidentali e per molti altri esseri umani c’è una stretta correlazione tra la morfologia del sesso biologico e il proprio senso di esistenza definita, per gli inuit ed altre società le due cose hanno tra loro un rapporto non necessitante – è possibile ricoprire ruoli maschili avendo un sesso femminile e sentirsi del tutto uomo, come anche mutare identità di genere durante la propria vita» [9].
Il sesso biologico, dunque, non determina naturalmente il genere. Ciascuna società crea modelli femminili e maschili le cui caratteristiche sono il risultato di costruzioni storicamente determinate cui concorrono aspetti simbolico-culturali, politici, biologici che si traducono in definizioni dei sé individuali e collettivi. In tutte le società umane, allora, il genere non fotografa realtà date a priori: esso sta ad indicare non solo «le relazioni specifiche, di potere e di subordinazione, tra uomini e donne, ma anche i modi in cui quei rapporti sono costituiti, impregnando strutture, istituzioni, pratiche di vita, rituali, e ogni altro aspetto del vivere sociale» [10]. L’esistenza umana, insomma, è sempre una questione di scelte: anche quelle società che credono di aderire alle regole naturali guardano sé stesse e la natura attraverso il filtro della propria cultura.
Da questo punto di vista, il film “Vergine Giurata” (2015) di Laura Bispuri, tratto dall’omonimo romanzo di Elvira Dones (2007), è un’opera di finzione che prende spunto da un fenomeno reale e che sviluppa una riflessione sulla natura performativa dell’identità di genere in una società, quella albanese rurale, caratterizzata da una forte impronta patriarcale. La protagonista, Hana, ragazza rimasta orfana all’età di tredici anni, si trasferisce dagli zii sulle montagne dell’Albania settentrionale e qui entra in contatto con un mondo tradizionalista basato sul tacito rispetto del codice consuetudinario del Kanun. In un ambiente ostile per una ragazza sola, Hana dà segni d’insofferenza e trova nella pratica del burrnesh una via per uscire dalla sua condizione.
Identità e genere: Il fenomeno del Burrnesh nell’Albania rurale del nord
Le popolazioni residenti nella parte settentrionale dell’Albania hanno vissuto per secoli sotto la legge del Kanun (o Legge di Lekё Dukagjini, epico condottiero albanese vissuto nel XV secolo durante il dominio ottomano sulla regione). Questo codice consuetudinario, in origine tramandato oralmente, ha regolato a lungo (e in certe zone regola ancora), la vita delle comunità locali. Le norme che lo compongono sono state trascritte da Shtjefёn Kostantin Gjeçovi, un frate francescano originario del Kosovo che ha redatto la prima raccolta sul gazzettino Hylli i Dritës tra il 1913 e il 1924. Alla sua morte, avvenuta nel 1929, il lavoro di sistematizzazione è stato continuato dai padri francescani della città di Scutari, i quali nel 1933 hanno pubblicato il codice nella forma giunta a noi.
Il Kanun ha regolato per secoli l’esistenza delle comunità montane del nord del Paese: dalle questioni familiari al lavoro, dall’ospitalità al risarcimento dei danni, dal perdono alla vendetta di sangue. La raccolta, suddivisa in 1263 articoli, include la trascrizione di proverbi, storie, testimonianze tramandate dagli anziani contadini albanesi vissuti secondo i precetti di Lekё Dukagjini. Il codice, tra le altre cose, espone accuratamente caratteristiche e doveri cui uomini e donne hanno l’obbligo di attenersi per essere definiti tali:
«Traditionally men’s work includes: all heavy manual work (chopping wood, sything, mowing, harvesting, protecting animals and property); talking to visitors, drinking and smoking with visitors, avenging family honor. Women’s tasks include bearing and rearing children; cooking and cleaning house; serving men and guests (including washing their feet); carrying water and firewood; seeing to dairy production and taking it to market; storing and processing food; processing and weaving wool; washing and mending clothes; manufacturing garments for the family, for trousseaux and for sale; embroidering garments and linen. Additionally, they must do men’s work at times of feuds or particular harvests, and they may also be seen spinning or knitting at the same time as performing several of the above tasks» [11].
Secondo il codice, le donne possono svolgere diverse attività, a patto che ciò abbia come unica finalità il bene del proprio nucleo famigliare e dei relativi capifamiglia: il padre e il marito. Questi precetti, pur cambiando da regione a regione, sono costruiti intorno a valori fondamentali indiscutibili nel mondo tradizionale: l’onore individuale (besa) e familiare (nder), il dovere dell’ospitalità (mikpritja) e la vendetta di sangue (gjakmarrja).
La società albanese tradizionale era una società rigidamente patriarcale basata sulla residenza patrilocale – dopo il matrimonio la donna si trasferiva nella casa della famiglia del marito – e sulla discendenza patrilineare – la ricchezza veniva ereditata dagli uomini della famiglia. Il rispetto di queste norme sottoponeva (e in certi casi sottopone ancora) il singolo a una forte pressione sociale: la difesa dell’onore individuale e familiare era un tratto fondamentale cui destinare tempo ed energie. Le faide erano frequenti e altamente ritualizzate, così come lo erano gli omicidi, spesso tesi a ripristinare l’onore perso o messo in discussione. Gli uomini erano il fulcro del Kanun: detenevano il potere politico-economico e soprattutto erano i garanti della rispettabilità familiare. Non sorprende, allora, che la nascita di una figlia fosse fonte di ansia: in una società patriarcale a discendenza patrilineare e residenza patrilocale, infatti, le donne venivano allevate nella famiglia del padre solo per poi essere cedute a quella del marito. Esse erano figure scisse tra appartenenze contrastanti: nate dal sangue paterno, perpetravano quello della casa maritale.
È questo il contesto in cui si inserisce la figura del burrnesh, termine che deriva da burr, “uomo” e nesh, un suffisso femminile. La parola burrnesh, dunque, indica un soggetto fluido, un’identità a cavallo tra due generi. Per almeno cinquecento anni, le burrneshe sono state chiamate le figlie del Kanun: questi soggetti, nati biologicamente donne, venivano chiamate anche “vergini giurate” perché facevano voto di castità a vita.
I motivi che potevano portare alla scelta di diventare burrnesh erano molteplici: rifiuto di un matrimonio combinato; necessità di gestire il patrimonio familiare, tanto a causa della morte prematura dei genitori, quanto in assenza di figli maschi adulti all’interno del nucleo familiare; l’amore filiale, nel caso in cui i genitori non fossero stati autosufficienti. È essenziale comprendere come essere “vergini giurate” fosse una finzione giuridica ritenuta reale: esse perdevano del tutto l’identità femminile e come uomini venivano trattate.
Il fatto che le burrneshe avessero l’obbligo di castità è significativo. Nelle società a forte impronta patriarcale solitamente si cerca di limitare l’unico vero potere riservato alle donne, quello riproduttivo, attraverso la pratica del matrimonio e il rigido controllo della procreazione [12]. Nello spazio albanese tradizionale questa azione veniva messa in pratica già nelle prime fasi della vita di un nascituro. Non è infatti inusuale che gli accordi matrimoniali tra tribù venissero stipulati ancor prima della nascita di una figlia femmina, la quale, di fatto, veniva messa in “vendita” prima del concepimento. In un contesto di questo tipo, il fenomeno del burrneshe consentiva alle donne albanesi di mantenere una propria autonomia e acquisire potere sociale sfruttando i piccoli spazi di libertà che si aprivano tra le maglie di un controllo patriarcale pressoché totale.
A questo proposito, l’istituzione delle “vergini giurate” rappresenta un tratto molto interessante della società albanese tradizionale e mostra come anche all’interno di collettività chiuse ed isolate ci sia comunque spazio per letture non deterministiche dell’identità sessuale e di genere. La studiosa René Gremaux ha coniato per queste donne la definizione di “uomini sociali”: individui che decidono di, o vengono obbligati a, lasciare gli abiti femminili (in senso letterale e metaforico) per assumerne di nuovi al fine di far parte della società in una nuova posizione. Ovviamente, lo si vedrà a breve, lo spazio di libertà conquistato dalle “vergine giurate” / “uomini sociali” avveniva a patto di terribili rinunce e in un quadro indiscusso di subordinazione femminile.
Il Burrnesh nei media: il caso Vergine Giurata nel romanzo di Elvira Dones e nel film di Laura Bispuri
«Pur partendo da un tema arcaico come quello delle vergini giurate, volevo che la storia entrasse nel mondo contemporaneo per parlare delle creature di oggi, che ancora non capiscono se sono uomini o donne. C’è una riflessione nel sottotesto del film che si interroga sul grado di libertà della donna, non solo in Albania ma anche in Italia. In questo senso, Mark e la figlia italiana di sua sorella Lila, si aiutano una con l’altra nel tentativo di uscire fuori dalle proprie gabbie. La storia risente di alcune problematiche che ancora ci appartengono e che riguardano principalmente il grado di libertà che abbiamo oggi come esseri umani e come donne. Nella scena finale riassumo questa ricerca di libertà nella felicità di Hana e Lila, contente di essere finalmente se stesse» [13].
“Vergine Giurata”, opera prima della regista Laura Bispuri, classe 1977, è un film del 2015 della durata di novanta minuti, prodotto dalla casa di produzione Vivo Film, in collaborazione con Colorado Film Production, Rai Cinema, Bord Cadre Films, Match Factory Productions, Era Film e in coproduzione con Radiotelevisione Svizzera. È stato l’unico film italiano portato al 65° festival cinematografico internazionale di Berlino del 2015 [14]. Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Elvira Dones, il quale racconta la storia di una ragazza albanese rimasta orfana che sceglie di diventare una burrnesh rinunciando alla propria femminilità.
Come indicato nel paragrafo precedente, sebbene restino in vita, soprattutto nelle aree più rurali e chiuse dell’Albania, alcune “vergini giurate”, la pratica del burrnesh è quasi completamente caduta in disuso, anche grazie all’apertura all’Occidente seguita alla fine del regime comunista. È quindi difficile fare confronti tra passato e presente. Tuttavia, l’arte può aiutare a riattivare la memoria provando a ricostruire un certo immaginario. Le opere di finzione, infatti, rompono la rigida distinzione tra «una storia ‘oggettiva’ e una storia ricostruita anche attraverso la letteratura, tra cultura alta e cultura bassa, tra storia privata e storia collettiva» [15].
La storia di Hana è inserita in uno spazio sociale regolato dal Kanun da cui la protagonista cerca di fuggire: dapprima diventando una burrneshe e trasformandosi in Mark; successivamente, a seguito di una lunga e ponderata decisione, lasciando l’Albania. Nello sguardo della scrittrice Dones e della regista Bispuri, Hana Doda diventa “vergine giurata” per amore filiale, per non lasciare soli i genitori adottivi vecchi e malati (gli zii) che l’hanno allevata come una figlia, per onorare e ringraziare la famiglia che «l’ha accolta quando era niente». Accanto alla riconoscenza, tuttavia, c’è anche il fantasma di un matrimonio combinato: la comunità in cui Hana vive con la nuova famiglia, infatti, non vede di buon occhio che una donna in età da marito resti a lungo da sola, soprattutto dopo la morte della zia e dello zio.
Il tema della fuga come unica chance di salvezza è un elemento centrale nella storia di Elvira Dones, un dato che ha anche dei risvolti autobiografici:
«Diciannove anni fa, quando lasciai la mia terra, io diedi un taglio netto. Fu un dolore atroce, ma allora non c’era altra opzione oltre la fuga… Hana Doda ha trentaquattro anni quando lascia le Montagne Maledette, e trentaquattro anni vissuti nell’Albania del nord, se non ti fanno morire anzitempo ti fanno senz’altro maturare molto. Hana soppesa parole e gesti, tratta con grande cautela aspettative e illusioni. Vuole inserire una distanza fisica tra sé stessa e i monti che ama profondamente. È la sua ribellione ponderata, con lucida e tranquilla cocciutaggine. Non aspira a grandi cose, vuole solo riappropriarsi del suo corpo, e sa che i monti – nonostante l’amore che lei prova per loro – non possono darle questa libertà tanto elementare» [16].
Facendo un confronto tra l’opera letteraria e la sua trasposizione cinematografica si possono individuare non poche differenze, tanto nello sviluppo del racconto quanto nella costruzione dei personaggi. La prima è legata ai luoghi in cui viene ambientato il racconto della fuga di Hana dall’Albania: la protagonista del libro cerca la sua libertà emotiva a Washington, in America; il personaggio interpretato da Alba Rohrwacher nella trasposizione cinematografica trova invece la sua strada a Bolzano, città italiana che diventa un ponte tra culture. Elvira Dones, inoltre, narra un preciso arco temporale, quello che va dal 1986 al 2003 (l’arrivo di Hana nella famiglia Doda dopo la morte dei genitori, la vita nell’Albania rurale, gli studi a Tirana, la decisione di diventare “vergine giurata” per amore filiale, l’esistenza in solitudine dopo la morte di entrambi i genitori adottivi, l’arrivo in Italia e la riscoperta della sessualità), scandendo ogni capitolo del romanzo attraverso precisi riferimenti cronologici; Laura Bispuri, al contrario, decide di raccontare una storia priva di puntuali agganci temporali/storici e che trova la propria ragione d’essere nello iato tra le diverse fasi dell’esistenza della protagonista: la prima, ambientata in Albania, si svolge a cavallo tra l’adolescenza e l’età adulta; la seconda, in Italia, vede un’Hana ormai matura che va a vivere dalla cugina Lila (la figlia di quegli zii presso cui era diventata “vergine giurata”).
La seconda differenza riposa nella caratterizzazione della protagonista: la scelta di eliminare gran parte della storia di Hana come studentessa universitaria a Tirana, rende il personaggio ideato da Laura Bispuri più scarno e rude rispetto a quello di Elvira Dones (diviso tra aderenza al Kanun e desiderio di emanciparsi attraverso lo studio e la poesia). Ciò che conosciamo di lei, quello che sente e prova nell’intimo, viene principalmente comunicato attraverso il corpo, attraverso i graffi sulla schiena, dovuti alle bende che stringono il seno, attraverso i silenzi e i respiri quando pratica onanismo ed esplora per la prima volta il corpo di un uomo in Italia.
Per Laura Bispuri, d’altra parte, la caratterizzazione di Hana è una rappresentazione che passa dall’immagine che viene mostrata di lei. Il suo corpo viene svelato a poco a poco: più viene mostrata la sua liberazione, più il suo corpo femminile inizia ad avere un peso, un valore. Il corpo, infatti,
«è lo spazio non solo della differenza biologica, ma piuttosto l’incarnazione delle differenze storiche e culturali dei soggetti. Il corpo, la materialità e la sessualità intese come discorsi connessi alla costruzione del sé e della propria identità rimandano a processi di decostruzione di stereotipi e cliché della donna» [17].
Non a caso due delle scene più significative del percorso di liberazione della protagonista sono costruite sulla rappresentazione della fisicità: nella prima, girata in una piscina di Bolzano, vediamo una lunga carrellata di corpi maschili e femminili la cui efficacia ci mostra le numerose differenze in grado di arricchire di significato la nostra idea, spesso stereotipata, di genere. Nella seconda, a mio parere più potente, Hana è ripresa nella sua nuova casa intenta ad asciugarsi i capelli: qui la sua ritrovata femminilità viene annunciata e mostrata al pubblico attraverso il seno nudo. In questo caso, la lunga scena è un modo che la regista utilizza per sottolineare la capacità di Hana di essere a suo agio nel proprio corpo.
La presa di coscienza della femminilità della protagonista viene palesata a piccoli passi: l’acquisto del primo reggiseno, l’andare in giro per la prima volta con una gonna, il rimirarsi nuda allo specchio. Una presa di coscienza che passa anche attraverso lo sguardo, che nel caso nel film è quello rubato dallo spettatore mentre nel caso del romanzo è quello della protagonista che non è più avvezza a guardarsi, dato che sui monti “non si fa”.
Come racconta Laura Bispuri nella conferenza stampa di presentazione del film alla Berlinale [18], anche gli elementi naturali e gli spazi sono funzionali al racconto dei vari stati d’animo della protagonista. La neve, elemento sempre presente nelle scene che raccontano la vita di Hana tra i monti dell’Albania, è metafora del suo corpo congelato e sentimentalmente mutilato. Tale corpo torna a prendere vita lungo il racconto, esattamente come la neve in primavera si scioglie cambiando il proprio stato da solido a liquido. La piscina, invece, è il luogo in cui la ragazza esplora per la prima volta la sua femminilità, sia in rapporto a sé stessa che in relazione a un uomo. È insieme spazio in cui il contatto con i corpi di altre persone può difficilmente essere evitato e metafora di grembo materno: simbolo di rinascita di Hana a nuova vita.
Conclusioni
La ragazza non ha alcuna possibilità
di decidere per il proprio destino [19]
La storia di “Vergine Giurata”, sia nel film di Bispuri che nel romanzo di Dones, ha la capacità di far luce su diverse immagini del ruolo femminile nella società. I tre personaggi femminili che dominano queste opere – Hana, sua cugina Lila e Jonida, la figlia di quest’ultima – sono rappresentativi di tali ruoli.
Jonida è apparentemente la più emancipata delle tre. Nel libro è un’adolescente americana libera ed indipendente, capace di muoversi con naturalezza tra culture diverse. È la prima persona nel racconto che pone domande sulla vera natura di Hana/Mark mettendo in dubbio il suo genere. Successivamente, dopo aver scoperto la vera identità della zia, è colei che la conduce, pungolandola, verso la propria idea di femminilità, anch’essa fortemente stereotipata. Per Jonida è più importante atteggiarsi da donna che esserlo. Nel film è una adolescente italiana che pratica nuoto sincronizzato a livello agonistico, uno sport che richiede al corpo grande disciplina e che pretende dalle atlete un atteggiamento così femminile da apparire caricaturale. Nelle riprese che la vedono protagonista, il trucco pesante e l’ostentata mimica facciale mentre danza sono sempre in primo piano.
Lila, la cugina di Hana, è un personaggio che rispecchia un ben preciso modello femminile occidentale: è madre, donna lavoratrice e moglie. Presa da mille impegni non riesce a gestire tutto e finisce con il confondere il suo costante affanno per libertà acquisita. In realtà Lila non è veramente libera di poter essere sé stessa. Delle tre figure femminili qui analizzate è quella che subisce il peso maggiore di questa libertà poiché in fin dei conti è vittima inconsapevole dello stereotipo e delle aspettative della società di accoglienza: una forma di “violenza simbolica”, ma non meno pervasiva di quella dell’Albania rurale che aveva abbandonato da adolescente:
«Lila: Andando via pensavo di diventare qualcuno…
Hana: Io sono rimasta e non è che sia diventata granché» [20].
La protagonista del racconto, Hana/Mark, prima ancora di essere donna o uomo, è un essere umano che lungo il racconto acquisisce la libertà di definirsi e determinarsi. La sua storia è una storia di dolorosa e affannata ricerca di identità:
«Hana: Una volta una persona mi ha detto che siamo libere di essere qualunque cosa.
Lila: libere di che?
Hana: Non lo so, anche libere di non essere per forza qualcosa» [21].
Per essere libera di poter essere, in potenza, qualunque cosa ella baratta la femminilità con la libertà. Questa scelta, tuttavia, la priva del corpo e la conduce lungo un percorso di autoconoscenza che le fa scoprire ben presto che la libertà, per essere vissuta pienamente, ha bisogno di essere incarnata. La sua identità burrnesh è un’identità sociale che da un lato le consente di guadagnare peso pubblico, seppur parziale, in un mondo dalla forte impronta patriarcale, ma che dall’altro la mutila costringendola a rinunciare a qualcosa e ad accettare supinamente le norme culturali e i rigidi ruoli di genere. Il burrnesh è infatti un fenomeno complesso perché dà e toglie libertà e spazio di azione.
Da questo punto di vista, il fenomeno delle “vergini giurate” raccontato dalle opere prese in esame offre l’opportunità di osservare come il genere, non importa quanto le diverse comunità ne siano consapevoli, sia sempre una performance: il frutto di un processo di costruzione sociale e culturale. Come i racconti fantastici di Ursula Le Guin e i dati raccolti dagli studiosi di genere in giro per il mondo, prodotti di finzione come quelli qui discussi possono aiutarci, partendo dalla presentazione di casi reali e strani ai nostri occhi, ad allargare le maglie del nostro modo di pensare rendendo più flessibile e aperto il nostro concetto di identità.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Nei romanzi di Le Guin, l’Ecumene è la lega intergalattica che si occupa di esplorare gli ecosistemi e di riunire in un sistema di alleanza e mutuo soccorso tutta l’umanità dispersa nell’universo.
[2] Per inciso, la novella è stata scritta in tempi in cui l’uso del neutro per indicare un’individualità fluida non era così diffuso come oggi e ha generato non poche difficoltà nella traduzione italiana.
[3] Continua l’autrice: «SF as a genre is more useful than ‘mainstream’ fiction for exploring possibilities for social change precisely because it allows idea to become flesh, abstraction to become concrete, imaginative extrapolation to become aesthetic reality. It allows the writer to create and the reader to experience and recreate a new or transformed world based on a set of assumptions different from those we usually accept. It allows the reader, for a while, to be reborn into a reborn world. And, through working out in concrete terms philosophical and political assumptions, it allows the reader to take back into her or his own life new possibilities. There is a dialectical relationship between the world and its imaginative and ideational reconstructions in the creations of the mind. The artist says for us what we almost knew and defamiliarizes what we thought we knew» (Annas, 1978: 145).
[4] Le Guin, 1976: 159
[5] Ivi: 160
[6] Una delle caratteristiche più interessanti del cosiddetto Ciclo dell’Ecumene è la sua sensibilità antropologica. Al centro delle sue storie, infatti, non ci sono solo mondi straordinari e popoli umani diasporici con culture e società radicalmente esotiche/altre, bensì le dinamiche trasformative tipiche di ogni contatto/relazione interculturale. Nella narrativa di Le Guin nessuno è congelato per sempre nella sua identità (individuale o collettiva), né è schiavo della tradizione. Tutti sono soggetti storici.
[7] «Finally, the question arises, is the book a utopia? It seems to me that it is quite clearly not; it poses no practicable alternative to contemporary society, since it is based on an imaginary, radical change in human anatomy. All it tries to do is open up an alternative viewpoint, to widen the imagination, without making any very definite suggestions as to what might be seen from that new viewpoint» (Ivi: 171)
[8] Busoni, 2008: 20
[9] Ivi: 23
[10] Ivi: 26
[11] Young, 1998: 60.
[12] «L’elemento centrale su cui poggia la concezione naturalistica del sesso propria della nostra o delle altre società occidentali (sia a livello di scienza che a livello di opinione comune) è la riproduzione degli esseri umani. Detto in altri termini, il radicamento della differenza tra sessi nella biologia dipende specialmente e in ultima analisi dal fatto che le donne partoriscono e gli uomini no» (Forni, Pennacini, Pussetti, 2006: 31).
[13] Cerofolini, 2015
[14] Cfr. https://www.berlinale.de/en/2015/programme/201506319.html (consultato il 23 dicembre 2023).
[15] Monticelli, 2007: 615.
[16] Lepori, 2008.
[17] Monticelli, 2009, op. cit: 612
[18] Cfr. https://www.berlinale.de/en/2015/programme/201506319.html (consultato il 23 dicembre 2023).
[19] Dukagjini – Gjeçovi, 1933, §. 31, Tagri vajzës (traduzione mia).
[20] Vergine Giurata (Sworn Virgin, Laura Bispuri, 2015)
[21] Ivi.
Riferimenti bibliografici
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Marija Brujiÿ, Vladimir Krstiÿ, Sworn Virgins of the Balkan Highlands, in “Traditiones”, vol. 50/3, 2021: 113-130.
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Carlo Cerofolini, La donna che visse due volte: intervista a Laura Bispuri, in “Ondacinema”, 19 marzo 2015 [https://www.ondacinema.it/speciali/scheda/donna_che_visse_due_volte_intervista_laura_bispuri.html]
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[https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2015-03-19/vergine-giurata-interessante-esordio-italiano-114423.shtml?uuid=ABCLdoBD&refresh_ce=1]
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[https://www.swissinfo.ch/ita/elvira-dones–un-ponte-tra-due-mondi/463394]
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DUKAGJINI – SHTJEFËN, 1933
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FILMOGRAFIA
Vergine Giurata (Sworn Virgin, Laura Bispuri, 2015).
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Stefania Donno, vive a Milano e lavora come Art Digital Director freelance e docente in Discipline Audiovisive e Multimediali presso il Liceo Artistico Statale di Brera. Si è specializzata in fotoreportage seguendo workshop formativi con Stefano De Luigi e Jodi Bieber. Dal 2007 collabora come fotografa e Art Director per numerose aziende e fondazioni non profit. Ha realizzato reportage in Italia e nel mondo e ha seguito campagne pubblicitarie di comunicazione. Dal 2014 al 2019 è stata l’assistente dell’artista contemporanea Julia Krahn per cui ha curato la comunicazione e l’editing delle opere video artistiche.
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