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I rinnegati italiani e la loro integrazione nella società nordafricana in età moderna

Tunisi nel 1573, trovata nella Storia dei corsari barbareschi di Stanley Lane-Poole, pubblicata nel 1890 da G.P. Putnam's Sons

Tunisi nel 1573, da La Storia dei corsari barbareschi di Stanley Lane-Poole, 1890, G. P. Putnam’s Sons

di Kais Ben Salah

Il rapporto con l’Islam è un problema cruciale nella storia della tolleranza. Questa religione ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale per la definizione dell’identità occidentale e per l’elaborazione di un’idea moderna dell’Altro e dei rapporti con esso. Gli effetti del conflitto tra Oriente ed Occidente in età moderna diedero luogo a questioni e dibattiti intorno alla recente storia intellettuale, culturale e religiosa.

La storia politica si è interessata soprattutto dello sviluppo delle relazioni diplomatiche, economiche e militari che legavano – e legano tuttora – le due parti e ha tralasciato i rapporti informali e i legami di sangue che sono nati da secoli tra i popoli del Mediterraneo. Uno strano silenzio – forse di disprezzo, d’indifferenza oppure semplicemente d’ignoranza – riguarda, per esempio, un fenomeno di quelli straordinari: la notevole avventura europea di quelli che venivano chiamati, secondo l’uso europeo dell’epoca, “rinnegati”, quei cristiani che si sono convertiti in terra musulmana. Il termine “rinnegato” è utilizzato quasi in tutte le fonti occidentali che prendono in esame il problema della conversione religiosa ed è caratterizzato da una forte riprovazione morale, in quanto queste persone tradirono il loro passato e vengono chiamati anche: apostati o traditori.

L’Italia si trovò, infatti, in prima linea in questo confronto tra musulmani e cristiani, essendo la maggior parte dei rinnegati europei, italiani. Quindi lo scenario mediterraneo a cui rivolgiamo l’attenzione in questo lavoro è quello del rapporto tra l’Italia e il Nord Africa e più precisamente con le tre reggenze maghrebine: Tunisi, Algeri e Tripoli. Va ricordato che l’uomo occidentale che si trasferisce in terra d’Islam porta con sé le sue conoscenze e la sua cultura, lasciando il suo mondo e alleandosi al nemico, abbracciando le sue leggi e la sua religione. Così, il fenomeno dell’apostasia coinvolse un notevole numero di italiani, che tra il XVI e il XVIII secolo raggiunse qualche migliaia di persone.

I padri redentori, immagine tratta da, The Story of the Barbary Corsairs by Stanley Lane-Poole, pubblicata nel 1890 da G.P. Putnam's Sons.1637

I padri redentori, da The Story of the Barbary Corsairs by Stanley Lane-Poole, 1890 , G. P. Putnam’s Sons

La conversione

La conversione all’Islam non è solo un atto di cambiamento religioso ma più in generale è un processo di trasformazione del convertito da straniero a soggetto musulmano ottomano. «This involved a change of juridical subjecthood as well as legal status» [1].

Prima di divenire musulmano, il neofita doveva passare prima attraverso il rito della conversione. Si tratta, infatti, di un rituale che può avere diverse forme e ha un significato analogo a quello del battesimo nel Cristianesimo. Questo rito viene celebrato per lo più nella moschea. Il giorno della conversione, si raccomanda di fare il bagno e di indossare nuovi abiti puliti e di preferenza profumati. La celebrazione assume i caratteri di una vittoria e impegna quasi l’intera città: «principe per un giorno, il neofita è applaudito accolto, osannato dagli abitanti delle strade attraversate come un eroe» [2]. Nei casi in cui il candidato all’apostasia [3] sia una persona di rango elevato, la cerimonia della conversione si svolgeva in forma solenne: la sera innanzi, l’apostata veniva scortato in giro per la città e l’indomani egli si recava alla moschea a cavallo vestito secondo l’usanza musulmana, per pronunciare la formula tradizionale (la sciahada): «non vi è altro Dio che Dio e Maometto è il profeta di Dio» [4].

Dal momento in cui si recitava la professione di fede, la persona diventava musulmana con completa parità con i suoi nuovi correligionari; dopo di che esso doveva scegliere un nuovo nome musulmano che spesso assomigliava a quello italiano che aveva prima. Dopo la sua abiura, l’apostata subiva anche delle trasformazioni esteriori, come la rasatura del corpo, l’assunzione del turbante… e infine la temuta circoncisione [5]. Le donne invece dovevano accontentarsi di un rituale privato e domestico e per le altre pratiche subivano gli stessi trattamenti già citati per gli uomini.

Per quanto riguarda il problema della loro integrazione nella società, il mezzo più affidabile fu il matrimonio. Infatti, tramite questo mezzo i rinnegati potevano inserirsi facilmente tra la popolazione musulmana e occupare persino posti importanti nella gerarchia sociale [6].

L’astenersi dai tabù musulmani poteva costituire anche una prova di sincerità dei rinnegati. La passione del vino [7], ad esempio, era forte soprattutto negli ex cristiani ed era difficile per loro rinunciare a quest’abitudine, ma il privarsi di questa bevanda permise loro di essere stimati dagli altri musulmani, come nel caso del genovese Osta Morato che, diventando Bey, s’impegnò seriamente alla proibizione del vino in tutto il territorio di Tunisi.  

L’appartenenza all’Islam prevedeva, accanto ai tabù alimentari, anche delle regole precise: l’abluzione quotidiana prima della preghiera ad esempio fu un’abitudine sconosciuta in Europa perché c’era la credenza che l’acqua facesse male al corpo [8].

«Non ci sarebbe niente di meglio al mondo se ci andassero tutti al più una volta al mese, ma dal momento che i turchi si lavano quasi tutti i giorni, questo inumidisce così tanto il loro cervello, che la maggior parte sono afflitti da una oftalmia continua, che li affligge molto» [9].

Il rinnegato doveva mostrare poi, che la sua è una convinzione del cuore e doveva accompagnare la dichiarazione di fede con obblighi religiosi: eseguendo le cinque preghiere, osservando il digiuno nel Ramadan, etc …

Ricordiamo, infine, che l’apostata era una figura utile ma perturbante, in quanto veniva da una cultura nemica e nello stesso tempo una cultura ancora più sviluppata, quindi l’aiuto dei convertiti fu di una importanza fondamentale nei vari campi e soprattutto in quello militare, come vedremo.

L'illustrazione di  un ottomano che porta il turbante di Jean-Baptiste Vanmour, 1707

L’illustrazione di un ottomano che porta il turbante di Jean-Baptiste Vanmour, 1707

La vita tra i musulmani

I convertiti di provenienza straniera non rimanevano stranieri e marginali in mezzo alla popolazione d’origine, anche se alcuni di loro vissero in zone periferiche. Essi, infatti, costituirono agenti sociali allogenici e conferivano alle reggenze maghrebine un aspetto di città cosmopolite ed eterogenee. Infatti, il cambiamento di statuto poteva cancellare del tutto il loro passato, e la loro acculturazione si realizzava a poco a poco, col tempo e col contatto giornaliero con i musulmani e con gli insegnamenti arabi che gli furono imposti dalla nuova cultura.

L’aspetto particolare della presenza dei rinnegati italiani nelle tre reggenze fu il loro facile inserimento nel tessuto lavorativo urbano, dove figurano come marinai e capitani di mare, carpentieri all’arsenale, gondolieri, barbieri, facchini, calzolai, artigiani, medici. Furono specialisti di cui il mondo turco aveva bisogno; non si tratta però, di individui ai margini del sistema in una condizione di estraneità, ma di soggetti pienamente integrati nel contesto sociale e produttivo.

Dopo la sua abiura della fede cristiana, Giovanni Battista Guarnieri fece il marinaio; invece il veneziano Andrea de Rossi si guadagnava da vivere come facchino [10]. Tra gli italiani islamizzati, troviamo anche individui di estrazione sociale più elevata, ricordiamo qua un certo Mustafa di origine siciliana, con la carica d’ingegnere; tra i suoi più importanti lavori si segnala la fortificazione della Goletta a Tunisi, entrò poi al servizio di Mohammed Pascià di Algeri, dove disegnò il progetto e diresse la fondazione di borj (fortino) Mohammed Pascià [11]. Ci furono anche dei medici, come il chirurgo Francesco Magnacavalli [12] oppure come Soliman tebib (cioè medico), di origine siciliana che fu chirurgo del bey di Tunisi agli inizi del Settecento [13].

Di esempi come questi ce ne furono tanti, ma il ruolo più importante che i convertiti italiani ebbero nella vita locale fu la loro influenza nell’attività economica. Essi, infatti, costituirono una nuova risorsa nello sviluppo dell’economia degli Stati maghrebini, con la loro funzione di mercanti acquisirono una posizione chiave nelle attività produttive ed erano abili esponenti della vita commerciale, perché grazie ai rapporti di varia natura ch’essi mantennero colla patria, soprattutto colla famiglia e la città natale, molti ebbero la possibilità di estendere il loro commercio ai mercati europei, che era una cosa difficile per gli altri musulmani.

Cercando di ricostruire un’idea sul modo con cui i rinnegati si comportarono in quest’ottica, citiamo l’esempio di Haggi Murad che fu di origine genovese: egli stabilì il suo commercio tra Tunisi e Livorno, e coll’aiuto del fratello riuscì a vendere in Italia i suoi prodotti (pelle di bovini, lana…) e poteva così usufruire di un mercato supplementare e nello stesso tempo comprare merci dall’Italia per venderle nel Nord Africa [14]. Un altro esempio significativo riguarda un ligure, Murad rais, che affidò ad un suo compatriota il compito di effettuare acquisti di vari merci da portare al Nord Africa e di recuperare alcuni crediti da Livorno. Molti dei traffici di questo tipo si sono svolti senza lasciare nessuna traccia. Queste operazioni mettono in rilievo le dinamiche di svolgimento dei rapporti fra l’Italia e il Maghreb o per dire meglio fra Cristianità ed Islam e quindi è legittimo affermare che l’estensione del mercato nord-africano fu in gran parte opera dei rinnegati.

Altri sono andati al di là delle attività commerciali per assumere anche una certa importanza nella vita cittadina; prendiamo l’esempio del messinese Regeb che ebbe il titolo d’ingegnere maggiore, a partire dagli anni trenta del Seicento. Regeb appare come una persona ricca ed autorevole e risulta, in vari atti, come padrone di legni corsari e responsabile della cattura di molte imbarcazioni europee, in maggioranza francesi ed italiane; trattò anche affari per il riscatto di merci e di persone da lui predate, e dal prezzo del riscatto risultano vari personaggi europei di rango elevato. Inoltre, il messinese trattò affari quasi in tutti i campi e appare persino come venditore di tappeti e di barili d’olio, concedendo pure prestiti per il compimento di riscatti o per risolvere altri bisogni [15].

Combattimento navale con i corsari barbareschi, di Lorenzo A. Castro, 1681

Combattimento navale con i corsari barbareschi, di Lorenzo A. Castro, 1681

La guerra corsara

Per tutta la durata dell’età moderna vi è stata una grande varietà nel sistema economico del Maghreb. In generale, si può dire che tutto ruotava intorno all’agricoltura, finalizzata prevalentemente all’autoconsumo, ed al commercio come abbiamo detto, ma la fonte di reddito più importante, fu senza dubbio l’attività corsara ed il riscatto degli schiavi che ne derivava, «Renegades were known to engage in the ransom of prisoners» [16]. Questo fenomeno fu di maggior rilievo e ad un certo punto divenne alla base dell’economia delle tre reggenze maghrebine.

La vita dei rinnegati in generale fu molto legata alla guerra corsara. Essi provenivano da tutte le parti dell’Europa, ma osservando bene si può constatare una larga prevalenza italiana sulle altre nazioni: su 22 rais rinnegati ad Algeri, 6 furono Genovesi, 1 Calabrese, 1 Siciliano, 1 Napolitano, 2 Veneziani e gli altri furono di nazionalità diverse (2 Albanesi, 1 Corso, 3 Greci, 1 Ungherese, 2 Spagnoli, 1 Francese e 1 Ebreo algerino) [17].  Vista la superiorità del loro numero possiamo chiederci se gli islamizzati italiani abbiano contribuito più degli altri allo sviluppo tecnico della guerra corsara e in quale misura essi migliorarono il suo rendimento.

Le Galere [18] furono per molto tempo le principali imbarcazioni per corseggiare, grazie alla loro velocità e alla loro efficacia. Il ruolo dei rinnegati italiani nel miglioramento della tecnica navale era quasi inesistente, perché gli Stati maghrebini erano già dotati di questo tipo d’imbarcazioni equipaggiate di cannoni. La grande e sola innovazione che forse può essere attribuita ai rinnegati di origine italiana, riguarda il sistema di navigazione. Dal XIV secolo, i rematori di una stessa banca remavano ognuno con un remo indipendente, ma a partire dagli anni Trenta del Cinquecento, i Veneziani cambiarono questo metodo e i rematori di una stessa barca remavano con un unico remo. Questo metodo fu molto presto adottato da tutte le marinerie mediterranee e forse la penetrazione di questa nuova tecnica di navigazione nel Nord Africa fu opera dei rinnegati italiani [19].

L’uso di questo tipo d’imbarcazione, associato alla nuova tecnica dei Veneziani, diventò molto presto obsoleto, quando verso la metà del XVI secolo apparirono altre imbarcazioni con delle vele come il Galeone, altre dotate di una combinazione tra veli e remi che furono ancora più veloci come la Rowberge degli inglesi: corredata di tre alberi con un Topsail, questa nave fu equipaggiata da un’artiglieria mai vista prima e superiore a tutte le altre imbarcazioni.

All’inizio del XVII secolo le imbarcazioni con le vele sconvolsero profondamente la guerra corsara e così l’uso delle galere diventò sorpassato e pericoloso. A portare la tecnica delle vele a Tunisi fu un certo Ward di origine inglese, lo stesso fece un certo Simone Dansa di provenienza fiamminga ad Algeri fra il 1606 e il 1609. Ciò mostra che la contribuzione dei rinnegati italiani allo sviluppo della tecnica navale fu molto limitata, in confronto ai rinnegati di origine nord-europea, i cosiddetti ponentini come i Fiamminghi e gli Inglesi. Grazie al loro apporto, l’attività corsara si estese fino all’Atlantico che costituì una zona ricca e un circuito commerciale molto seducente per i pirati.

Il contributo italiano fu invece molto importante nel campo tattico. Alla corsa parteciparono i rinnegati più ambiziosi, che furono generalmente quelli più furbi e più coraggiosi; essi potevano superare facilmente i loro compagni di fede per i loro piani d’azione e per la conoscenza dei luoghi colpiti. Moltissimi s’imbarcavano sulla flotta corsara e molti di loro passavano in breve tempo dal remo al grado di Rais.  È stato calcolato, infatti, che a metà del ‘600, il 70% dei battelli magrebini erano comandati da rinnegati. Quest’attività garantiva a chi la praticava un mezzo d’azione, di controllo, di dominazione e di prestigio e gli consentiva d’acquisire un’immensa popolarità tra una popolazione profondamente religiosa e convinta di certe virtù come il “Jihad” (guerra santa contro gli infedeli).

«Il successo delle razzie si spiega, infatti, proprio con la perfetta conoscenza dei luoghi colpiti. I rinnegati segnalavano gli approdi sicuri, i sentieri deserti, i passi sguarniti, le fonti e i corsi d’acqua, ma soprattutto, indicavano i momenti in cui i villaggi apparivano più indifesi» [20].

Quest’attività fu una fonte di enormi profitti, che ordinò la vita in città, animò i porti, i suoi mercati ed affollò i bagni di schiavi. Il ritorno dei corsari portava abbondanza e stimolava gli affari, riversando nei porti notevoli ricchezze: armi, metalli preziosi, materie prime… Le catture di mare si vendevano all’asta. Di queste ricchezze godettero in primo luogo gli uomini di Stato, vale a dire, il sultano e i membri del Divano, i Raïs e, in misura minore, gli armatori e i membri delle milizie. Possiamo citare ad esempio alcuni nomi famosi come: il siciliano Scipione Cicala, il turco genovese Osta Morato, Mami Ferrarese, Mustafà Rais, Hassan Rais da Trapani, Regelo da Messina capo ciurma e giannizzero …    

Il commercio dei prigionieri, di Wolfgang Kaiser

Il commercio dei prigionieri, Anonimo, da Wolfgang Kaiser

Il riscatto degli schiavi

Il riscatto degli schiavi fu, infatti, per molto tempo un pilastro fondamentale nell’economia delle tre reggenze tramite il quale i rinnegati svolgevano il redditizio ruolo di mediatori. Infatti, per la padronanza della lingua italiana, essi ebbero il ruolo di traduttori [21] e di intermediari tra i proprietari degli schiavi (che spesso erano loro stessi) e gli ordini dei missionari redentori. Le somme del riscatto potevano a volte essere molto elevate [22].

I missionari erano nella maggior parte dei casi di fronte a persone della loro stessa origine, ma il loro unico interesse era il profitto e quindi non gli furono di nessun aiuto.

«Tripoli, Tunisi, Orano, ma soprattutto Algeri, avevano tratto enormi vantaggi da questo inesauribile flusso di ricchezza rappresentato della vendita delle prede umane, dai riscatti pagati in contanti e da beni rubati rivenduti all’incanto; in meno di cinquant’anni, per esempio, Algeri si era trasformata da un misero agglomerato di baracche in una ricca e graziosa città portuale disseminata di ville lussuose circondate da immensi giardini, un miracolo economico favorito dal lavoro, forzato e ovviamente non pagato, degli schiavi, nonché dal fiume di denaro proveniente dai riscatti e dalla vendita delle refurtive» [23].

Ai rinnegati si indirizzavano spesso i loro parenti per interessarli al riscatto di qualche schiavo, come accadde nel 1610 quando la sorella di Murad Bey, rinnegato di Bastia (Corsica) chiese al fratello di riscattare Louiso Giordano, schiavo a Tunisi di Ramadan Bey. Nel maggio 1621 il rinnegato Murad Rais, per interessamento di una sua conoscenza in cristianità che gli scrisse da Palermo, riscattò la vedova Caterina Campagna di Maiorca, schiava di Haggi Abraccho “capitano dei cavalieri” di Tunisi [24]. Il riscatto degli schiavi fu anche una comoda via tramite cui i rinnegati poterono far pervenire alcune somme di denaro alle loro famiglie in Italia, come nel caso dei due corsi Murad e Regeb, che riscattarono Domenico de Pedro con l’accordo che la somma ad essi dovuta sarebbe stata versata rispettivamente alla madre e alla sorella dei due rinnegati [25].

Le attività degli islamizzati italiani costituirono varie volte delle vere e proprie imprese famigliari italo-maghrebine che vedevano ingaggiati nello stesso affare elementi di una stessa famiglia, in parte musulmana e in parte cristiana, in due continenti diversi, così come il caso del rinnegato Giaffer Genovese Caïd della dogana che, coll’aiuto del cugino che abitava a Marsiglia e del fratello Luca rimasto in Liguria, trattò vari affari per il riscatto degli schiavi e degli scambi commerciali. Sono faccende rilevanti come queste che ci permettono di ricostruire un’immagine più o meno chiara sullo svolgimento di una gran parte dei rapporti informali tra il Nord Africa e l’Italia.

Uluç Alì Pascià, rinnegato di origine calabrese, di Giuseppe Guzzi, 1837

Uluç Alì Pascià, rinnegato di origine calabrese, di Giuseppe Guzzi, 1837

Conclusione

Gli islamizzati italiani ebbero per tutta la durata dell’età moderna il ruolo di mediatori tra due culture diverse, tuttavia la loro sottomissione ai comandamenti dell’Islam e di conseguenza la loro incapacità di contestarli, ha impedito loro di diffondere princìpi cristiani nel campo arabo-musulmano, ma ebbero comunque una grande influenza nella vita locale. Evidentemente, non tutti gli Italiani presenti nel Maghreb hanno fatto carriera, la maggior parte di loro vissero normalmente e del tutto anonimi in mezzo alla popolazione maghrebina, ma bisogna ricordare comunque che la ricchezza permise loro di procurarsi prestigio e di ottenere una possibilità ottimale d’appartenenza e d’integrazione.

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Note
[1] Tobias P. Graf, The Sultan’s Renegades: Christian-European Converts to Islam and the Making of the Ottoman Elite, 1575-1610, Oxford University Press, New York, 2017: 27.
Trad: «Ciò comporta un cambiamento di soggettività giuridica, nonché di status giuridico».
[2] Giovanna Fiume, Schiavitù mediterranee, corsari, rinnegati, e santi di età moderna, Bruno Mondadori, Milano, 2009.
[3] Le parole quali “apostasia”, “abiura” sono, ovviamente in un’ottica cristiana.
[4] Salvatore Bono, I Corsari Barbareschi, ERI Edizioni Rai, Roma, 1964.: 258.
[5] Arrigo Petacco, La croce e la mezzaluna. Lepanto 7 ottobre 1571: Quando la cristianità respinse l’Islam, Milano, Mondadori, 2005: 45.
[6] Citiamo il caso dello schiavo Giovanni Battista, che dopo il suo matrimonio con una donna musulmana da cui ebbe due figli, vide che la la fiducia del suo padrone aumentò nei suoi riguardi e gli consentì persino la libertà di dormire fuori casa. Citiamo anche il caso del siciliano Nardo Galassi che, catturato all’età di 13 anni, si fece musulmano, ma rimase schiavo fino al 1620 quando ottenne la libertà sposando la moglie del defunto padrone dalla quale ebbe un figlio. Cfr. B. Bennassar, L. Bennassar, Les chrétiens d’Allah: l’histoire extraordinaire des renégats, XVIe et XVIIe siècles, Perrin, Paris, 1989: 415 – 416.
[7] Nella cultura cristiana il vino è sostantivo di sangue, quindi acquisisce un aspetto vitale e supera molto di più il valore di una bevanda inebriante. Oltre alle energie vitale, il vino ha anche un aspetto sacro, «il sangue versato da Cristo, infatti, cancella i peccati degli uomini al posto di una lavanda lustrale nell’acqua e Cristo stesso, nell’Ultima Cena, istituisce il rituale che legherà il suo sangue miracoloso e il vino». Bevendo il vino, il rinnegato contravviene a due proibizioni islamiche, non solo beve una bevanda proibita ma anche considerata sangue di Dio, invece per i cristiani il vino è una bevanda spiritualizzata che li porta oltre agli effetti materiali in una dimensione divina. Cfr. Oscar Marchisio, Religione come cibo e cibo come religione, Franco Angeli, Milano, 2004.
[8] La frequenza del bagno implicava secondo la tradizione cristiana uno specifico rapporto con il corpo e più precisamente con la nudità. «Per i cristiani, il bagno costituì una pericolosa occasione di pensieri impuri, stimolati della vista del corpo e dei possibili palpamenti delle parti che si lavavano».  Sin dalla fine del ‘400 la Chiesa si è concentrata sull’opera di disciplinamento morale, in primo luogo sulla sessualità e sui pensieri impuri e andò fino a considerare un peccato il toccare i propri genitali senza motivo o il guardarli a lungo senza giusta ragione. Quindi, per evitare queste “pericolose” situazioni, la Chiesa impose alla gente di astenersi da qualsiasi pratica di pulizia corporale che metteva la persona in contatto diretto con il proprio corpo, per questo i bagni turchi furono considerati dai cristiani come luoghi di lussuria e di corruzione. Anche se questi ultimi avevano le proprie regole che dovrebbero garantire il pudore dei bagnanti, si credeva, infatti, che dietro alle conversioni dei rinnegati all’Islam ci stesse proprio l’esistenza dei bagni e le abitudini alle abluzioni e quindi «la voglia di lasciare una morale rigida e severa per una religione molto più tollerante nei confronti dell’Eros, come provava dell’altro la pratica della poligamia».
[9] Lucia Scaraffia, Rinnegati Per una storia dell’identità occidentale, Editore Laterza, Roma-Bari, 1993: 88.
[10] Giuseppina Minchella, Alterità e vicinanza: cristiani, turchi, rinnegati, ebrei a Venezia e nella frontiera orientale, www.giornaledistoria.net: 6.
[11] Il Borj è situato sulle colline retrostanti la città, a 500-600 passi a sud-ovest presso la kasba.
[12] Giuseppina Minchella, cit.:7
[13] Salvatore Bono, Siciliani nel Maghreb, Arti Grafiche Corrao, Trapani, 1992: 53-54.
[14] Salvatore Bono, I Corsari Barbareschi… cit.: 258-259.
 [15] Salvatore Bono, Siciliani nel Maghreb… cit: 48-51.
 [16] John Watkins, Kathryn L Reyerson, Mediterranean Identities in the Premodern Era: Entrepôts, Islands, Empires, Ashgate Publishing, Ltd. farnham, 2014: 60.
Trad: «I rinnegati erano noti per il loro impegno nel riscatto dei prigionieri».
[17] Lucia Scaraffia, Rinnegati per una storia dell’identità occidentale… op. cit.:8.
[18] La Galera detta anche Galea è un tipo di imbarcazione usata nel mar Mediterraneo per oltre tremila anni, spinta completamente dalla forza dei remi.
[19] Pierre Boyer, Revue de l’Occident musulman et de la Méditerrané: Les renégats et la marine de la Régence d’Alger, 1985: 93-106. www.persée.fr.
[20] Massimo Guidetti, Storia dei Sardi e della Sardegna: L’età moderna, dagli Aragonesi alla fine del dominio spagnolo, Editoriale Jaca Book, Milano, 1988: 46.
[21] Altri rinnegati, invece rifiutavano di parlare la lingua italiana «Nessuno di loro avrebbe avuto grosse difficoltà a capire (e anche a parlare) l’italiano, che in fondo era la principale lingua di scambio, ma si rifiutavano di parlare l’italiano per problemi d’identità: volevano essere turchi, quindi si rifiutarono di parlare la stessa lingua dei loro nemici».  Citato in: Guido Cifoletti, Lingua Franca and migrations, in: “Migrating Words, Migrating Merchants, Migrating Law: Trading Routes and the Development of Commercial Law”, BRILL, Leyde, 2019: 89.
[22] Il prezzo di riscatto di uno schiavo dipendeva da: le sue qualità fisiche (l’età, condizione di salute), le condizioni sociali (nobile, ricco … nel senso che poteva pagare un prezzo elevato) valevano anche le loro abilità se erano medici, ingegneri… Il prezzo medio per il riscatto di una persona normale fu tra settanta e cento scudi d’oro. Le somme pagate furono spesso molto elevate e furono uno strumento comodo per far fortuna. Citiamo: il riscattato del frate Benedetto di Randazzo nel 1621 contro la somma di 373 scudi (moneta d’oro o d’argento), nel 1603 i frati Hieremia e Illuminato da Palermo contro la somma di 600 scudi. Anche il prezzo delle donne era relativamente elevato: la palermitana Laura Giordana, nel 1622 fu riscattata contro 173 scudi, Saterina Diona di Trapani e la nobildonna Mercuria di Messina furono riscattate contro 380 scudi. Le somme pagate andarono aumentando nel corso del tempo, così nel 1660 il prezzo del palermitano Giuseppe Colona di trentatré anni raggiunse una somma molto elevata di 600 pezzi (forse perché era dotato di una specializzazione). All’inizio del ‘700 ci risulta il pagamento di somme ancora molto elevate come quella che fu pagata per il riscatto del Barone siciliano Ottavio Specchi che raggiunse 860 scudi…  L’immensità di queste somme potrebbe spiegare facilmente la veloce ricchezza dei rinnegati. Citato in S. Bono, Siciliani Nel Maghreb… op. cit: 16-46.
[23] Arrigo Petacco, La croce e la mezzaluna… op. cit: 41.
[24] Salvatore. Bono, I Corsari Barbareschi… op. cit: 259.
[25] Ivi: 260.

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Kais Ben Salah, ricercatore presso l’Università della Manouba, in Tunisia. Da anni si dedica a lavori sui legami culturali tra l’Italia e il Nord-Africa in età moderna.

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