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I monumenti: tra interpretazione e difesa dei valori

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Restauro chiesa di Corbera D’Ebre (Spagna) (ph. O. Niglio)

di Olimpia Niglio

La cultura moderna ha recuperato la consapevolezza che il fine principale della conservazione dei monumenti è quella di tutelare non solo la materia del bene ma anche i suoi valori intrinsechi. Attraverso un giudizio soggettivo l’uomo, osservando un oggetto, riconosce specifici valori che lo rendono diverso da altri; ecco che esso entra a far parte di un mondo proprio dell’individuo che ne ha riconosciuto un determinato significato. I metodi che criticamente stabiliscono come riconoscere un valore dipendono dal contesto sociale, economico e politico in cui l’uomo si è formato. La necessità di ricercare questi valori nasce dall’opportunità di avere riferimenti reali e culturali che consentono all’uomo di orientare le proprie scelte morali e quindi dare un senso alla propria vita presente e futura.

Nasce quindi un rapporto tra valori e bisogni. A tutto ciò si collega un altro tema molto importante ovvero il mutamento delle condizioni di vita nella società attuale che determina sempre più una modificazione del rapporto tra conservazione e fruizione dei singoli monumenti e della città storica nel suo complesso, quindi il rapporto tra preesistenza e contemporaneità. Non si può poi sottovalutare il condizionamento che la comunicazione multimediale oggi dedica alla conoscenza del patrimonio culturale. Parlare quindi di tutela e conservazione dei beni culturali significa confrontarsi con le suddette tematiche e cercare di fornire contributi operativi specifici che rispecchiano le realtà culturali e geografiche di riferimento. Il contributo intende illustrare contesti urbani specifici messi a confronto tra differenti realtà culturali, con particolare riferimento al continente europeo.

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La scuola di Mucia a Louviers, Normandia (Francia) (ph. O. Niglio)

Il valore culturale nel progetto di restauro

In tutte le fasi della storia, con specifico riferimento al patrimonio culturale, esistono valori (definiti come rapporto tra individuo ed oggetto) che non cambiano e nei quali l’uomo si riconosce. Su questo specifico tema il progetto di conservazione ha il compito di tutelare i valori che non sono universali ma mutano con le epoche e in relazione alle condizioni geografiche, economiche e socio-culturali. Va osservato che quanto più una nazione è progredita culturalmente tanto maggiore ed articolata è la scala dei valori a cui ci si riferisce. Questo implica che non è possibile applicare i medesimi principi di conservazione del patrimonio senza tener conto delle differenze sociali, economiche e del grado di progresso culturale di un Paese. È infatti erroneo pensare ad un “colonialismo intellettuale” (De Stefano, 1996) in cui far confluire principi validi universalmente. Si tratta invece di valutare la ricchezza e la complessità della realtà di riferimento e trovare risposta in questa stessa al fine di individuare il tragitto più corretto da intraprendere ai fini del restauro (La Regina, 2004).

Nell’analizzare la storia degli interventi e l’azione dell’uomo quanto del tempo sui prodotti della natura (il paesaggio naturale) e dell’attività antropica (architettura, pittura, scultura, etc..), da un lato hanno contribuito ad arricchire i valori propri delle singole opere, dall’altro sono stati anche causa di disgregazione, di menomazione, di perdita di significati estetici e culturali.

Ma esiste un legame che potremmo definire inscindibile tra l’opera dell’uomo e gli interventi operati su questo nel corso della sua vita, un legame segnato principalmente dall’utilitas, dunque dalla sua fruizione in relazione alle esigenze della comunità. Ma queste ultime sono determinate dal tempo e dal luogo, pertanto soggette a continue variazioni e trasformazioni.

La storia del restauro ci fornisce occasione di analizzare una vasta casistica di interventi che per comodità vengono poi classificate all’interno di precise categorie: così da un lato ritroviamo l’atteggiamento cosiddetto “scientifico” per il quale il fattore estetico stratificatosi nel tempo viene annullato tentando di far riemergere le parti più antiche; dall’altro si assiste anche ad una cultura del ripristino, oggi molto attiva e che, a differenza del restauro scientifico che assimila l’opera ad una pura scheda storica, punta invece verso una vera e propria ricostruzione materico-formale, incidendo l’opera nella sua piena autenticità e nell’aura conferitale dal «tempo grande scultore» (Yourcenar, 1994). Tale operazione punta ad attribuire all’opera un’immagine originale, ma spesso presunta e derivata da interpretazioni non corrette e di carattere strettamente filologico.

Ma l’intervento di restauro architettonico non deve scadere in un’operazione di ripristino né tanto meno in quello di mummificazione delle antiche testimonianze. Il maggior dilemma che oggi caratterizza un intervento di restauro è anche quello dettato dalla scelta della più idonea funzione da attribuire al monumento, alle sue origini edificato per fini ben differenti da quelli richiesti dalla comunità contemporanea.

Ma un’opera di architettura nasce, si consolida e si trasforma in relazione alla fruizione e dunque all’uso di questa e un restauro sarà tanto più conservativo quanto più le nuove funzioni saranno in grado di tutelare e valorizzare, senza rinunciare all’identità del monumento e senza che questo diventi “altro da se stesso”, il valore intrinseco dell’opera. Più in particolare, afferma Rosario Assunto, le necessarie trasformazioni dovranno essere capaci di realizzare per l’opera «un‘alterità in se stessa» o «di se stessa». L’intervento di restauro diventa così diretta conseguenza del legame che esiste tra storia, arte, forma e materia dell’opera e si definisce quale atto culturale che discende principalmente da considerazioni critiche ed estetiche. Un progetto di restauro dovrà essere guidato dal riconoscimento della qualità dell’opera sia sotto il profilo storico che artistico nonché condizionato da un’analisi e da un atteggiamento critico che faccia sempre prevalere la “reversibilità” e la chiara “distinguibilità” dell’intervento.

Infatti, al riguardo, Roberto Pane affermava che «noi viviamo tra una realtà che si presume essere arte ed un’arte che si presume essere realtà, da correre spesso il rischio di confondere l’una con l’altra e, per conseguenza, di diffidare di entrambe» (Pane, 1967). Ci troviamo di fronte a veri surrogati della verità che trovano il loro oggettivo fondamento soltanto nel monumento stesso; il resto sono solo “variazioni sul tema”.

Così per usare le parole di Cesare Brandi, se il restauro «costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera (…) in vista della sua trasmissione al futuro» (Brandi, 1950; Brandi 1977), allora la solidarietà verso il prossimo sta nel sapere distinguere tra realtà, verità e falso e non far credere che quest’ultimo sia la condizione stessa del vivere dell’opera d’arte. Infatti John Ruskin scriveva che il restauro spesso si manifesta come «vera distruzione perché accompagnato dalla falsa descrizione della cosa distrutta».

Diversamente un intervento di restauro non può estraniarsi dalla realtà, essere asettico, rinnegare la consolidata memoria della collettività, i valori culturali che lo caratterizzano; al contrario dovrà beneficiare di questi e tutelarli prestando particolare attenzione anche all’ambiente che li circonda.

Riconosciuto così il valore conservativo del restauro, bisogna poi saper coniugare insieme i valori propri dell’opera, quale la storia, l’artisticità e i fattori socio-culturali con valori non meno importanti ma sicuramente più pragmatici quali la fruizione e la cultura socio-economica del contesto di riferimento.

Ma la salvaguardia di valori tradizionali ed estetico-contemplativi spesso sono soppiantati da interessi più pratici e proprî di una ristretta cerchia di persone e non indirizzate alla collettività il che induce in operazioni poco costruttive.

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Stazione Centrale di Milano (1912-1931), dopo i recenti lavori di ristrutturazione funzionale (2012). Sono leggibili i nuovi inserimenti delle rampe mobili per collegare l’accesso ai binari con la metropolitana e le uscite principali verso la città (ph. O. Niglio)

È fondamentale comprendere che bisogna tutelare i nostri valori storici, spirituali e tradizionali in quanto sono in gioco i fondamenti stessi del nostro futuro sia individuale che collettivo. Infatti, afferma Giovanni Carbonara che «un mondo senza memoria è un mondo cieco ed ottuso» Ma conservare non significa imbalsamare il patrimonio ma saperne controllare ed orientare in termini di qualità la produzione, i progetti, l’operato, le trasformazioni (Carbonara, 1988).

La continuità della memoria, in architettura implica continuità di significati, di utilizzazione, di perpetuazione della materia tramandata e da tramandare al futuro. È necessario per questo assumere la storia, letta sul monumento stesso, come un insieme di dati, di parametri valutativi capaci di certificare le trasformazioni che sono proprie di ogni realtà.

Un’architettura in quanto tale nasce per essere abitata e il concetto stesso dell’abitare è legato allo svolgersi di attività e dunque alla presenza di specifiche funzioni che si relazionano con le esigenze del tempo, del luogo e della collettività e pertanto soggette a trasformazioni. Si tratta di una stratificazione spesso non materiale che si sovrappone all’uso originario dell’opera. Ma le modifiche sono state sempre operate nel corso dei secoli e l’atteggiamento dovrebbe essere quello di intervenire perpetuando l’immagine quale manifestazione di una materia risanata. L’atteggiamento è quello di una “conservazione dinamica” e propositiva e non statica e vincolistica, offrendo una nuova vita ed una idonea funzione al monumento in relazione alla sua vocazione naturale, dettata solo da una sua approfondita conoscenza. Così conoscenza delle testimonianze del passato, conoscenza delle condizioni presenti e conoscenza degli aspetti socio-culturali non devono contrapporsi ma anzi arricchirsi, integrarsi all’interno di quella complessità che è propria del progetto di restauro. La conoscenza, infatti, costituisce la base degli scopi che determinano l’intervento di conservazione.

Da ciò deduciamo l’importanza della interdisciplinarietà nel campo del restauro e di come l’architetto criticamente deve saper valutare e utilizzare tutti i dati forniti dalla scienza ai fini della conservazione dell’opera. Ma, molto spesso, proprio questa complessità di dati forniti dalla scienza e non opportunamente coordinati con le conoscenze storico-artistiche rende rischioso e dannoso l’intervento conservativo. Da tutto ciò deduciamo ancora una volta l’importanza della interdisciplinarietà e la necessità di un’attenta lettura critica condotta dallo specialista restauratore circa i dati forniti dalle più avanzate acquisizioni tecnologiche e la scelta di queste, in quanto il panorama della ricerca industriale impegnato nel settore dei beni culturali (dalle indagini conoscitive più sofisticate, all’impiego di nuovi materiali ad aggiornate tecniche consolidanti) è molto ampio ma non sempre soddisfacente.

La complessità dell’intervento di restauro richiede sempre più sicurezza metodologica, il che comporta la necessità di apporti scientifici precisi e corretti, valutati caso per caso, la cui opera non si fermi alla realizzazione del progetto di restauro ma punti, invece, ad evitarlo attraverso la prevenzione e la manutenzione supportata proprio da indagini conoscitive quali il rilievo, valutato non solo in termini geometrici (Curuni, 2009) e la diagnosi non distruttiva (Niglio, 2004, Fiorani, 2009).

La domanda sempre crescente di approfondite conoscenze del costruito da parte di studiosi quali storici, architetti, archeologi contribuisce sempre più ad avvicinare il mondo scientifico e quello più propriamente teorico-umanistico. Ma, come più volte ribadito da Guido Biscontin,

«l’incontro di discipline diverse, che sembrerebbero la risultante logica del problema, non sempre è di facile avvio, soprattutto per difficoltà di carattere culturale. Spesso il confronto tra le discipline, invece di sollecitare la discussione, rimane a livello superficiale, sia per il tipo di rapporto iniziale, sia per la scarsa conoscenza, da ambo le parti, delle possibilità e potenzialità di un dialogo. Lo scarso scambio di idee e di informazioni abbassa il livello della ricerca, e può far si che ognuno praticamente continui a portare avanti il proprio discorso disciplinare. D’altra parte, la interdisciplinarietà è una pratica molto difficile da mettere seriamente in atto, ci vuole un minimo di umiltà da ambo le parti, per cercare di usare linguaggi comprensibili, e una continua verifica del lavoro di ricerca comune».
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Kolumba Museum, Colonia (Germania) (ph. O. Niglio)

A questa mancanza di dialogo si aggiungono la scarsa fiducia e l’insufficiente coraggio per l’innovazione per cui non c’è sperimentazione che di per sé implica apertura verso orizzonti che non garantiscono certezze. A tutto ciò si somma il pregiudizio, spesso molto restrittivo, verso l’efficacia culturale del supporto tecnologico. Così mentre in altri ambiti si fa ricerca, si sperimenta, si investe e quindi si ampliano gli orizzonti e le applicazioni di tecniche in campi spesso poco accessibili, lo stesso non avviene nel settore del restauro che finisce con il diventare non campo produttivo ma solo applicativo di materiali “innovativi” ma non certo conservativi.A tal proposito è necessario sottolineare che il ruolo della ricerca scientifica nel campo della progettazione della conservazione del costruito deve consistere anche nello studio di prodotti, materiali, tecniche e metodologie pensate esplicitamente per l’architettura e per gli obiettivi della tutela.

Intanto la mancanza di sperimentazione, di apertura investigativa il più delle volte è stata governata da un consolidato atteggiamento semplicistico dell’architetto che opera nel campo del restauro:

«primo, scarta le tecniche che non conosce, o le riduce a semplici formalità e, secondo, riconduce a livelli di prassi artigianale quelle discipline che non è in grado di praticare con rigore ma che gli sembrano indispensabili. Una terza via, quella di delegare ad altre competenze il compito di svolgere speciali indagini di settore, presenta, in questi casi, alcuni rischi per la diversità di linguaggi con cui gli operatori colloquiano e per la conseguente schematicità delle comunicazioni» (Torsello, 1992).

Il tutto lo si può in parte superare nel momento in cui ci si rende conto che le diverse discipline che intervengono nel campo del restauro non sono solo di semplice supporto ma, al contrario, sono strumenti facenti parte integrante del restauro stesso. Potrebbe essere questo l’inizio verso l’abbattimento delle “perimetrazioni” disciplinari in funzione di un serio dialogo interdisciplinare a vantaggio della conservazione del patrimonio dell’umanità.

È importante, su tale linea di principio, far seguire anche un’intensa attività di sensibilizzazione all’azione educativa verso il nostro patrimonio, attività che comincia dall’età scolare e che poi trova la sua canalizzazione all’interno di corsi specifici e specialistici che gli interessati del settore possono seguire. Difatti sempre più, l’intervento di restauro predilige figure professionali autonome o società altamente specializzate e qualificate nello svolgere determinate lavorazioni. Non si tratta di relazionarsi con il mercato standardizzato dell’architettura contemporanea, ma di rivalutare forme artigianali e metodologie operative che sono proprie di ogni singola realtà monumentale e che non si presta a nessuna forma di omologazione. Pertanto educazione culturale, alta formazione professionale e lavoratori specializzati sono solo alcuni dei fattori principali per contribuire alla realizzazione di progetti il cui scopo è la “vita” e la conservazione del patrimonio trasmesso.

Ma tale attività di coinvolgimento e di educazione alla rivalutazione del valore culturale del bene va rivolta non solo agli operatori ma anche ai proprietari, molto spesso disinteressati, in quanto i costi di realizzazione e di successiva gestione e manutenzione sono elevatissimi. Infatti questi stessi sono coinvolti in scelte spesso deleterie per l’opera architettonica, scelte che riguardano principalmente il tema del riuso dell’immobile che non avviene «più sulla base di valutazioni storiche ma sulla effettiva possibilità di reinserire il costruito nei processi economici del presente, questi non sempre però vagliati con il parametro dell’utilità sociale» (Bellini, 1990).

Tutto ciò potrà essere in parte evitato, con una forte sensibilizzazione alla cultura della conservazione (sottolineandone il pubblico interesse) associata ad opportuni aiuti finanziari: sovvenzioni a particolari interventi di restauro, destinazioni di fondi, prestiti a basso interesse, sussidi, alleggerimenti fiscali, voci di bilancio specifiche per il settore.

Purtroppo è finita l’epoca del “mecenatismo del singolo” e dobbiamo affidarci al “mecenatismo finanziario” che incoraggi i proprietari, sia pubblici che privati, in quanto sempre più la mano pubblica non potrà occuparsi di tutto se non di orientare, sorvegliare e promuovere azioni migliorative per la società. Ciò comporterà grandi implicazioni di sviluppo sociale, produttivo ed economico e ciò perché la conservazione del patrimonio deve essere considerata sia sotto il profilo teorico sia sotto quello pratico-gestionale del patrimonio esistente.

Infatti utilizzazioni ingegnose dei monumenti potranno portare lustro e benefici sotto molti aspetti: occupazionali, economico-finanziari, sociali, turistici, etc…, contribuendo alla riqualificazione del tessuto urbano esistente attraverso i grandi piani di sviluppo urbano che negli ultimi decenni hanno interessato molte delle nostre città, mettendo in un chiaro ed efficace dialogo l“antico e il nuovo”. È convinzione ormai comune che i validi progetti urbani devono garantire la conservazione dell’esistente e una meditata e parsimoniosa realizzazione del nuovo. In tal senso, restauro architettonico significa anche capacità di adattare nella città moderna i segni di una forte identità storica, da cui la possibilità di dialogare con i mutamenti e il divenire del tessuto urbano nel suo insieme.

Ciò è quanto si comincia a leggere soprattutto nei grandi progetti delle città europee dove i principi emessi dalla Dichiarazione di Amsterdam del 1975 trovano le prime valide approvazioni. Difatti sia la su citata Dichiarazione quanto la successiva Carta di Granada del 1985 e la più recente Carta di Cracovia (2000) pongono particolare attenzione su princìpi secondo i quali la conservazione deve rispondere a finalità essenzialmente culturali e come tale deve condurre ad un miglioramento della vita e ad uno sviluppo socio-economico. Per tal motivo viene definita “conservazione integrata” «il risultato dell’uso congiunto della tecnica del restauro e della ricerca di funzioni appropriate» (Esposito, 1996, Cristinelli, 2000).

Inoltre va sottolineato il ruolo educativo, culturale e sociale del patrimonio architettonico la cui tutela non è una “spesa” ma un vero “investimento”, capace di apportare un reddito considerevole e mettere in moto ampi flussi economici, grazie all’impiego di risorse umane e di beni. L’attenzione in ogni caso è rivolta non al singolo bene architettonico ma anche e soprattutto al suo contesto, all’ambiente, alle tradizioni culturali, al paesaggio.

Infine gli interventi di conservazione, in relazione a tutte le ragioni su esposte, devono essere effettuati non a spese del passato ma in continuità con esso, prediligendo anche un’architettura moderna di qualità, patrimonio del nostro futuro. Il tutto sarà possibile se in particolare i poteri centrali quanto quelli locali, che intervengono a tutela del patrimonio, fondano quest’azione di salvaguardia su un’attenta analisi della realtà dei fatti, attribuendo funzioni idonee agli edifici antichi, incentivando la divulgazione e l’educazione alla cultura, instaurando organi di utilità e collaborazione a diretto contatto con l’utenza interessata e stanziando fondi specifici all’interno del proprio bilancio annuale.

Tutto ciò in quanto, come ribadito ai punti 2 e 3 della Carta Europea del Patrimonio Architettonico (1975), «la testimonianza del passato (…) costituisce un ambiente essenziale per l’equilibrio e lo sviluppo culturale dell’uomo», ovvero rappresenta «un capitale spirituale, culturale, economico e sociale di valore insostituibile». Così il passato potrà vivere nel futuro ed il futuro potrà vivere del passato e ciò vale anche per la conservazione dell’architettura contemporanea.

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Abbazia di St. Maurice nel Cantone vallese (Svizzera) (ph. O. Niglio)

Architettura Contemporanea e Preesistenza

La rivoluzione industriale prima e l’età dell’industrializzazione dopo hanno notevolmente mutato le regole che hanno guidato, fino alla metà del XVIII secolo, la cultura architettonica e l’arte del costruire in Occidente. Se da un lato si è assistito ad un nuovo modo di concepire la città, in cui alle regole di Anfione si sono contrapposte quelle di Prometeo (Assunto, 1984), dall’altro è radicalmente mutata la logica dell’architettura, della costruzione, dell’uso dei materiali, del rapporto forma-materia, tutti aspetti che hanno rivalutato la tesi della conciliabilità tra le due città, tra edilizia nuova ed edilizia antica (Di Stefano, 1996).

Ma è soprattutto a partire dal XX secolo ed in particolare con i Congressi Internazionali di Architettura Moderna, che si sono cominciati a delineare importanti dibattiti, nazionali e internazionali sul tema dell’innovazione, sui veri compiti dell’architettura e di come questa doveva porsi rispetto al passato.

Ma se da un lato si è assistito alla volontà di stabilire un “incontro-confronto” tra le diverse tendenze culturali in materia architettonica sul tema di un possibile dialogo tra “antico e nuovo”, dall’altro sembra aver prevalso una dirompente volontà di riconquistare libertà espressive e che hanno visto nella storia nient’altro che un repertorio di forme, quali strumenti di comunicazione per qualsiasi tipo di messaggio.

«La storia – scrive Paolo Portoghesi (1980) – diventa materia di operazioni logiche e costruttive (….), per coniugare reale ed immaginario attraverso meccanismi di comunicazione (….) in quanto presenta sistemi di alto valore convenzionale attraverso cui è possibile pensare e far pensare per mezzo dell’architettura». In realtà viene riconosciuta la pienezza dei valori della storia, la sua ricchezza, l’importanza del recupero di una memoria utilizzata sotto forma di citazionismo ma non viene praticata alcuna reinvenzione delle forme storiche; dunque il rapporto con il passato fallisce. Così l’architettura del XX secolo ha manifestato sempre più una scarsa attenzione per la ricerca dell’aletheia che presuppone un mondo riproducibile, privilegiando, invece, un nuovo sentimento e cioè quello che rifiuta l’essere come dato e determinato e dunque che non accoglie l’idea platonica di un’archè da trovare e da imitare. Contrariamente a quest’ultima posizione, gli architetti dell’ultimo ventennio sembrano aver abbracciato la tesi nietzschiana per cui non esiste un mondo al di fuori di quello che noi stessi produciamo.

L’architettura così si caratterizza in opposizione al vecchio regime di mimesi-ricerca come creazione-formazione continua, alla cui base sta il monitoraggio delle sintesi ereditate (Bezrucka, 1995). Ma questa continua rimessa in discussione, “verifica” o ancor meglio “controllo” nel tempo del rapporto tra architettura nuova e quella preesistente, mette in evidenza come tale incontro è mutato e continua a mutare in funzione dei differenti valori culturali attribuiti sia all’architettura storica quanto alle nuove intenzioni progettuali. È ingannevole ritenere che sia possibile stabilire una dottrina permanente circa il rapporto antico e moderno. Al contrario è possibile individuare le diverse concezioni teoriche ed operative che in differenti epoche hanno guidato l’intervento sulla preesistenza in modo tale da discernere le diverse caratteristiche che ha assunto tale rapporto.

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Museo dell’Ara Pacis (XI secolo a.C.) in Roma su progetto di Richard Meier (2015) (ph. O. Niglio)

In realtà l’incontro tra preesistenza e il nuovo costituisce un atto puramente progettuale, condizionato da differenti modi di intendere la contestualità, quale fattore armonico che tende a relazionare le parti con il tutto senza mai giungere all’universalità del dialogo, dal momento che ogni traccia di universalità – come afferma Jacques Lucan – si inserisce nella condizione di un “mondo transitorio” (Lucan, 1992). Il tutto sta ad affermare l’impossibilità a giungere ad una legge universale, ma che il rapporto tra nuovo ed antico, che sempre più va caratterizzando i nostri principali centri storici, va analizzato e commentato criticamente caso per caso, epoca per epoca.

Attualmente si assiste ad una rilettura più critica e costruttiva dell’architettura sia moderna che contemporanea, di riconosciuto valore culturale, che caratterizza i nostri centri storici e non. Sembra manifestarsi sempre più la volontà di rileggere i progetti del movimento moderno e quelli a noi più contemporanei come architettura capace di accostarsi non solo fisicamente a quella preesistente, stabilendo con essa un rapporto visivo e spaziale insieme, ma che allo stesso tempo tende a formulare un tentativo di interpretazione della materia in quanto materiale costruttivo. Si assiste così al predominio della “categoria del contrasto” in quanto fondamento dell’effetto estetico nei problemi di intervento sulla città (De Solá Morales, 1985).

In tal modo il rapporto antico-moderno viene a ribaltarsi su di un piano diverso: non più un dialogo puramente formale e pertanto esteriore, ma un dialogo che tende ad andare ben oltre l’accessibilità tattile e visiva della superficie che nasconde la vera realtà dell’architettura, inserendosi così nella sua struttura, nei suoi materiali. Il rapporto che viene a definirsi non vede più solo quali principali protagoniste le forme e gli spazi, ma accanto a queste la materia e i mezzi atte a realizzarle (Niglio, 2006).

Tutto ciò significa che l’inserimento, all’interno di un centro storico, di un’opera di architettura contemporanea non deve essere espressione di un atteggiamento filologico o analogico, bensì essere immagine della cultura del proprio tempo, in cui la creatività dell’architetto si manifesti nel rispetto delle indicazioni che la preesistenza suggerisce. Al riguardo il vero rischio, sostiene Benedetto Gravagnuolo, è che

«l’eccesso di passatismo professato dai nuovi profeti dell’anti-modernismo possa far scadere la questione del ripensamento del passato sul piano patetico di una sua involontaria parodia (…) Si tratta infatti di manifestazioni che emanano un loro fascino per l’estremismo della restaurazione culturale ma che non fa altro che regredire il dibattito sulla dialettica tra conservazione ed innovazione».

Se da un lato dobbiamo valutare criticamente l’atteggiamento filologico, dall’altro è necessario che ogni modificazione innovativa che viene eseguita su di un edificio o su larga scala su di un centro storico sia ben motivata da un’approfondita conoscenza dell’oggetto, nonché dalle chiare ragioni culturali e sociali che la determinano e non sia, invece, realizzata dalla smania di esibire narcisisticamente il “nuovo”, alterando gratuitamente l’equilibrio storicizzato del manufatto. In realtà un qualsiasi intervento sulla preesistenza comporta inevitabilmente una mutazione dello status quo ante e come tale va culturalmente motivato. Infatti la disciplina del restauro è inserita all’interno di un campo disciplinare complesso e che non può essere ridotta nelle strettoie di una precettistica astratta e fondata da regole presunte obiettive (Carbonara e Salvo, 2009)

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Palazzo Steri Chiaromonte, Palermo, 2015 (restauri a cura di Carlo Scarpa, anni ’50 del XX secolo) (ph. O. Niglio)

Testimonianza di ciò è l’opera di Carlo Scarpa in Palazzo Abatellis e Palazzo Steri a Palermo. L’opera del maestro veneziano, nel capoluogo siciliano, ci insegna che un intervento di conservazione deve necessariamente valutare molteplici aspetti e tra questi quello socio-culturale dove il restauro stesso diviene motore di processi produttivi, poiché può permettere l’attualizzazione della funzione originaria del patrimonio architettonico; l’utilitas originaria diviene nuova utilità che tende alla fruibilità della collettività e dunque assume un ruolo sociale e allo stesso tempo culturale. Il restauro, in tal senso afferma Roberto Di Stefano, non è più solo un’azione di mantenimento ma allo stesso tempo un’azione di trasformazione e dunque conservazione e trasformazione insieme possono conciliare nuovo ed antico (Di Stefano, 1996).

L’opera di Scarpa sottolinea, in tal senso, il ruolo del soddisfacimento dei bisogni umani e non solo di quelli materiali.  Oggi più che mai il restauro deve tendere ai valori culturali ed «essere indirizzato verso finalità pubbliche al miglioramento della qualità della vita di tutti i cittadini» (Boscarino, 1987).

Il rapporto tra antico e nuovo nell’opera di Scarpa è l’esito di un atto creativo strettamente legato all’ambiente culturale che l’architetto trasforma. La sua concezione teorica della costruzione, che poi va a realizzarsi ed intersecarsi con la preesistenza, appartiene al luogo, al suo tempo e all’uomo, quello stesso che ha generato un’altra storia che si aggancia alla continuità del passato, senza subirla passivamente, anzi apprendendone la lezione e aprendo un nuovo futuro al passato. Il messaggio che trapela nell’opera di Scarpa è che l’architettura moderna, insieme alla preesistenza, una volta realizzata non deve entrare nel ciclo di quella cultura e di quella natura per cui questa assume caratteri di intoccabilità, e per la quale essa cessa di appartenere a qualunque tempo e luogo ma, diversamente, deve essere vissuta e riaffermare sempre anche il suo diritto naturale di morire. Così l’opera di Scarpa tende a stabilire un rapporto con il passato prediligendo valori legati al luogo e al tempo, dunque non solo d’immagine e visivi, d’esemplarità, di totalità storico-documentaria e ideologici, questi ultimi non tutti sempre concordi nel redigere un atto conservativo, ma spesso tra loro in contrasto.

L’opera di Carlo Scarpa ci mostra come l’architettura moderna non deve tendere a sostituire quei valori plastici e storici del contesto in cui si inserisce, ostentando strutture spesso più finte che vere ma deve invece, attraverso un processo critico, stabilire un dialogo che si rinnovi continuamente. Tale atteggiamento critico, accompagnato dalla rottura delle perimetrazioni disciplinari, tale da rendere possibile un dialogo sempre più vivo tra le materie progettuali e quelle proprie della storia e del restauro, potrebbe essere considerato un buon punto di partenza al fine di garantire un futuro al nostro passato. Tanto più che all’interno di una realtà complessa e mutevole l’operazione di delimitazione del perimetro, di chiusura del proprio “hortus conclusus”, sta andando in crisi, mostrando la propria inoperatività. La perimetrazione non costituisce certezza. Per tal motivo ogni opera di pianificazione e di intervento sulla città deve essere preceduto da un lavoro di interdisciplinarietà tra l’architetto urbanista, il progettista, il restauratore, lo storico, l’economista, il geologo e l’antropologo al fine di recuperare il territorio culturale e proporne una saggia tutela e manutenzione in vista delle moderne necessità umane.

Ciò è quanto ribadito anche nella Carta di Washington per la Salvaguardia delle città storiche (1987), il cui contenuto deve aiutarci a riflettere circa la validità delle proposte che ogni giorno vanno attuandosi sulle nostre città e sui singoli monumenti. Spesso la politica utilitaristica e consumistica non rispettosa dei valori socio-culturali dei contesti in cui si è insediata, dunque nel del rapporto tra città storica e città contemporanea, ha prodotto solo un’architettura che, non essendo arte, si è posta in antitesi con la preesistenza, con il paesaggio e con l’uomo. In effetti «non e’ esteticamente pensabile – scrive Rosario Assunto – la città senza paesaggio, così come il paesaggio non è esteticamente pensabile senza riferimento alla città nel paesaggio» e se tal rapporto non si realizza allora non è possibile la tutela della città antica, nè un dialogo tra questa e la contemporanea.

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Venezia, Ponte della Costituzione progettato da Santiago Calatrava (2008). Rapporto tra città storica ed architettura contemporanea (ph. O. Niglio)

La conservazione del patrimonio e la “contemporaneità”

Sulla base di quando fin qui affermato risulta ora importante soffermare la nostra attenzione sul ruolo che le esigenze contemporanee, in particolare quelle connesse alla funzione e alla fruizione, impongono nel processo di conservazione di un bene culturale. Per riflettere su questo tema analizziamo un passo tratto dal dialogo di Paul Valery, Eupalinos e l’Architetto:

SOCRATE: È dunque ragionevole pensare che le creazioni dell’uomo sono fatte o in vista del proprio corpo – e tal principio egli chiama “utilità” – o in vista della propria anima – e questo egli ricerca sotto il nome di “bellezza”. Ma, d’altra parte, colui che costruisce o che crea, impegnato com’è col resto del mondo e col movimento della natura, che tendono perpetuamente a dissolvere, a corrompere o a rovesciare quel ch’egli fa, deve ravvisare un terzo principio, che egli tenta di comunicare alle proprie opere e che esprime la “resistenza” che egli vuole sia da queste opposta al proprio destino di periture. Crea la solidità e la durata.
FEDRO: Ecco le grandi caratteristiche di un’opera completa.
SOCRATE: L’architettura soltanto le esige e le porta al punto più alto (Valery, 1990)

Così il rimando ai temi vitruviani della utilitas, firmitas e venustas è ben evidente se leggiamo attentamente la complessità in cui si sviluppa il “fare” architettonico a cui sono strettamente legate le problematiche relative alla sua conservazione nel tempo.

Infatti il progetto di restauro di un manufatto architettonico oltre alla forma esteriore e alla sua forma interiore (struttura materiale), in più deve preoccuparsi della sua funzione non assolutamente estranea ai fini della conservazione. Ma non il tema razionalista in cui è la forma che segue la funzione, bensì è la funzione che segue la forma per consentire la conservazione e la fruizione di uno spazio architettonico concepito e realizzato in un certo tempo e che ogni epoca “ritrascrive” secondo i canoni della propria “contemporaneità”. Nasce così un «funzionalismo che non nega il bello, ma lo fa conseguire dalla struttura nella sua necessità storica» (Nicco Fasola, 1949).Ciò sta a testimoniare che «il piano funzionale ed esistenziale ed il momento di fruizione materiale ed ideale non sono separabili, perché in definitiva il primo assorbe il secondo» (Bellini, 1990).

Dunque il restauro architettonico di un manufatto, a qualunque epoca esso appartenga necessita di un momento teorico-meditativo e di un momento strettamente conoscitivo di tipo formale e materiale in vista delle necessità contemporanee di uso e fruizione. Conservare non significa, infatti, garantire che qualcosa rimanga com’è ma, attraverso una sua approfondita conoscenza, valutare e soprattutto gestire l’evoluzione e le trasformazioni del manufatto oggetto dell’intervento.

Dal punto di vista strettamente teorico molto diversificate sono le posizioni assunte e dichiarate all’interno di testi specialistici e riviste scientifiche di settore a cui si associano i documenti, le carte del restauro, le dichiarazioni e le norme vigenti in materia. Tra queste ultime ricordiamo la Carta di Venezia del 1964 in cui all’art. 5 dichiarava che

«la conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società: una tale destinazione è augurabile, ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio e ancora all’art. 9 afferma che il restauro è un processo che deve mantenere un carattere eccezionale (…) Il restauro deve fermarsi dove ha inizio l’ipotesi: sul piano della ricostruzione congetturale qualsiasi lavoro di completamento, riconosciuto indispensabile per ragioni estetiche e tecniche, deve distinguersi dalla progettazione architettonica e dovrà recare il segno della nostra epoca (…)» (Esposito, 1996).

Dunque l’incontro tra forma ed uso, tra forma e vita costituisce un aspetto fondamentale per la tutela del patrimonio architettonico a qualsiasi periodo esso appartenga in quanto la funzione è espressione delle necessità vitali dell’uomo e quando incontra la forma nasce il progetto delle modificazioni.

A ciò si associa una visione più ampia del concetto di conservazione del manufatto non relegato al solo e singolo manufatto di una certa epoca, ma al suo contesto, all’insieme ambientale (Civita, 1987), le cui tracce sono ripercorribili già nelle descrizioni conservate nei disegni settecenteschi di Piranesi, nel Viaggio in Italia di Goethe e negli scritti di John Ruskin. Così la conservazione e la valorizzazione del singolo manufatto sono strettamente legati al rispetto e alla tutela dell’ambiente che lo circonda e dunque alle trasformazioni di questo subordinate alle funzioni destinate.

In particolare il concetto di ambiente è ribadito in molti documenti e convenzioni internazionali (Carbonara, 1996; Esposito 1996) quali la Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale (Parigi 1972), nella Carta europea del patrimonio architettonico (Amsterdam 1975), nella Convenzione per la salvaguardia del patrimonio architettonico d’Europa (Granada 1985) e infine nella Carta Internazionale per la salvaguardia delle città storiche (Washington 1987). In particolare, la Carta Europea promulgata ad Amsterdam nell’ottobre del 1975 introduce il concetto di conservazione integrata intesa come «risultato dell’uso congiunto della tecnica del restauro e della ricerca di funzioni appropriate» e ancora la Carta di Cracovia (2000) ribadisce il concetto di Paesaggio quale patrimonio culturale e testimonianza «del rapporto evolutivo della società e degli individui con il proprio ambiente». Si deduce da ciò che il raggiungimento della funzionalità compatibile con il manufatto e con l’ambiente e la sua conservazione comportano una imprescindibile fase conoscitiva sia sotto il profilo teorico che materiale, nonché socio-economico e quindi gestionale.

Infatti, la gestione del processo di trasformazione sia del singolo monumento che di un contesto urbano consiste nel valutare e controllare costantemente le dinamiche che sottendono al cambiamento stesso e che dovrebbero essere il risultato di scelte appropriate e condivise. Ancora la Carta di Cracovia all’art. 11 afferma che «la conservazione del patrimonio culturale deve essere parte integrante della pianificazione e del processo di gestione di una comunità, e deve quindi contribuire allo sviluppo sostenibile, qualitativo, economico e sociale della comunità».

Così il progetto di conservazione da un lato «si colloca dentro le teorie di restauro, alle quali certamente appartiene con una sua particolare fisionomia» (Boscarino 1987, Boscarino 1988), dall’altro deve procedere attraverso una conoscenza oggettiva e preliminare della realtà materiale, sociale ed economica, mediante il supporto di avanzate e spesso sofisticate analisi e tecniche.

Dunque è necessario promuovere un dialogo costante tra una conoscenza storica (fonti di archivio, documenti, fotografie) insieme ad una conoscenza di tipo scientifica ribadita sin dal lontano 1931 all’interno della Carta di Atene dove al punto VI si raccomandava «la collaborazione con i rappresentanti delle scienze fisiche, chimiche, naturali per raggiungere risultati sicuri di sempre maggiore applicazione», aspetto ampiamente ribadito sia nella Carta di Venezia del 1964 (Art. 10) che nella più recente Carta del 1987 (allegato B). Una conoscenza fisico-scientifica e storico-critica che insieme e contemporaneamente cercano di comprendere tutti gli aspetti: figurativi, materiali, di compatibilità, etc…. Tale conoscenza deve essere finalizzata alla tutela del “documento di pietra” e dei “segni” identificativi del suo passaggio nel tempo e quindi alle modifiche connesse soprattutto alle diversificate gestioni.

Ma ancora conoscenza storica e conoscenza scientifica finalizzate alle necessità della utilitas, valore imprescindibile nell’affrontare un intervento di restauro conservativo e non mummificante. Questo che rappresenta l’atteggiamento tipico dei singoli operatori (architetti, ingegneri, chimici, fisici, restauratori, etc…) nei confronti dell’antico, dovrebbe essere tale anche nei riguardi dell’ampia e valente produzione dell’architettura del XX secolo, patrimonio storico del domani, il cui significato e i cui valori la “contemporaneità” stenta ad ascoltare con attenzione. Il documento del DO.CO.MO.MO. presentato nel settembre del 1990 al punto 6 afferma l’importanza di «ricercare e sviluppare la conoscenza del movimento moderno», il tutto perché si avverte una scarsa sensibilità sull’argomento da parte delle autorità e degli operatori del settore.

L’architettura moderna, di riconosciuto valore tecnico ed estetico, non meno dell’antico e vasto patrimonio pervenutoci, deve essere annoverata all’interno della categoria dei Beni Culturali da tutelare. Infatti essa ha contribuito (in bene e/o in male) a trasformare l’ambiente, il paesaggio nel quale preesisteva e tuttora vive il passato, il tutto in relazione alla fruizione contemporanea, all’uso e alle esigenze della collettività. Quindi tutelare l’ambiente, così come dichiarato sin dalla Carta di Venezia, significa tutelare anche le sue trasformazioni e l’opera dell’uomo che vive oggi. Il principio viene espressamente ribadito nella Carta Europea dei Monumenti Moderni (1991) in cui al punto 8 si afferma che «il progetto non va inteso come mera prefigurazione degli interventi materiali di manutenzione e restauro delle opere destinatarie di intervento, ma deve contestualmente  prevederne le modalità di uso e di gestione, i termini della ricontestualizzazione ambientale, culturale e sociale nel tessuto insediativo di appartenenza»

Così come per l’architettura del passato, la cui complessità di lettura e di conoscenza necessita dell’apporto di numerosi punti di riflessione e di analisi (ricerca storico-critica, rilievi, diagnostica, etc…), lo stesso deve valere per l’architettura contemporanea caratterizzata dall’uso di materiali innovativi e tecniche costruttive ardite i cui risultati di “durabilità” , “resistenza” e “compatibilità” sono ancora in fase del tutto sperimentale (Ientile, 2008; Di Biase, 2009). Non meno dell’architettura del passato, quella moderna offre oggi numerose possibilità di studio e di ricerca sotto il profilo tecnico-scientifico a cui seguono interventi sul campo che necessitano di operatori altamente specializzati. Così l’impresa che opera oggi nel settore specifico del restauro non può rimanere estranea dalla complessità che caratterizza sia l’intervento di restauro specifico (dal più piccolo al più grande) quanto le richieste del mercato del lavoro.

Pertanto, mentre sull’antico esiste un riconosciuto ed universale valore che porta ad operare con specifici modi, ormai ampiamente dichiarati sui numerosi testi specialistici, lo stesso non accade nei confronti del patrimonio contemporaneo in cui invece la vasta produzione di prodotti industriali apre oggi numerosi quesiti di metodo e di principio valoriale con cui il progettista e l’impresa devono misurarsi. Ecco che l’apporto della tecnologia e della diagnosi, come per l’antico, anche per il moderno trovano una valida applicazione al fine di definire quelle tecniche e quei metodi di conservazione più appropriati in relazione alla complessità e alla scarsa conoscenza della durabilità dei materiali moderni con cui quotidianamente operiamo.

È chiaro che una scarsa conoscenza implica un’alta percentuale di errori nell’intervento di restauro. Così l’impresa oggi più che mai deve investire in tecnologie innovative specifiche del settore, in attrezzature, software, risorse umane altamente specializzate, il tutto finalizzato a contribuire alla costituzione di un valore aggiunto interno fondamentale affinché l’intervento sul costruito, sia antico quando del moderno rispetti, a sua volta, i valori del manufatto stesso. Tutela soprattutto di valori di significato prima ancora che di valori materiali, dunque rispetto delle trasformazioni dei valori culturali, sociali ed ambientali di cui ogni opera di architettura ne è depositaria.

Oggi l’impresa che opera nel settore del restauro deve riflettere al suo interno la complessità dell’opera con cui si confronta in ambito operativo. Questo perché il progetto quanto l’intervento di restauro trovano sempre più risposte complesse a quesiti complessi, grazie alla vasta produzione che i centri di studio e ricerca del settore specifico ormai da diversi anni stanno sviluppando.

All’interno di questa vasta produzione tecnologica e materica, inoltre, va sottolineata la presenza sempre più massiccia dell’imperante cultura del “consumismo” dei materiali definiti da “restauro” e di cui oggi il mercato propone un ampio ventaglio di scelte. Ma non sempre le offerte del mercato soddisfano le esigenze della conservazione del manufatto, soprattutto là dove manca sperimentazione ed approfondita conoscenza della cause e degli effetti.

Pertanto siccome il concetto stesso di bene sta trovando sempre più ampie e articolate attribuzioni ne deriva da ciò la necessità di individuare delle tecniche e delle tecnologie di intervento corrette ma allo stesso tempo economicamente soddisfacenti e tali da consentire e motivare gli interventi stessi. In ciò una stretta collaborazione tra centri di ricerca ed impresa è fondamentale al fine di mettere a punto tecnologie e metodologie operative che se pur sofisticate tendono a realizzare uno standard di intervento qualitativamente alto ed economicamente condivisibile.

Soltanto così si può auspicare che sull’antico quanto sul moderno, sia le questioni della “qualità” rispetto alla “quantità” che quelle del “pensare” rispetto al solo “fare”, non rimangono sempre soppiantate di fronte all’urgenza di un “concreto” operare non perfettamente controllabile e verificabile.

Il problema fondamentale, sia esso rivolto all’antico quanto al moderno, è quello di essere ben consapevoli che conservare significa reinserire il costruito nei processi economici del presente, nella “contemporaneità” del vivere quotidiano, il tutto valutato con «il parametro dell’utilità sociale e non certo solo mediante considerazioni finanziarie personali» (Bellini, 1990). Così per ogni edificio si dovranno individuare quell’insieme di valori tali da non vanificare le fatiche e le cure progettate e realizzate e allo stesso tempo avere un senso rispetto alla “contemporaneità” e costituire una sfida per il futuro.

 Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Olimpia Niglio, architetto, PhD e Post PhD in Conservazione dei Beni Architettonici, è docente di Storia dell’Architettura comparata. È professore presso la Hokkaido University, Faculty of Humanities and Human Sciences e Follower researcher presso la Kyoto University, Graduate School of Human and Environmental Studies in Giappone. È stata full professor presso l’Universidad de Bogotá Jorge Tadeo Lozano (Colombia) e Visiting Professor in numerose università sia americane che asiatiche. Dal 2016 al 2019 è stata docente incaricato svolge i corsi di Architettura sacra e valorizzazione presso la Pontificia Facoltà Teologica Marianum ISSR, con sede in Vicenza, Italia. È membro ICOMOS – International Council on Monuments and Sites -  e ACLA – Asian Cultural Landscape Association.

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