di Antonina Ferruzza Marchetta
Premessa
La seguente recensione intende fornire al lettore una chiave di lettura del film ‘Here’ di Zemeckis di tipo ‘critico’ – nel senso etimologico del termine, dal greco krino – ovvero una disamina delle scelte formali e contenutistiche del regista al fine di individuare i nodi centrali evocati dall’opera e discutere intorno ad essi secondo un lessico scientifico (richiamante all’antropologia dell’abitare, alla filosofia esistenzialista, alla fenomenologia, alla pedagogia e alla cultura visuale). Le valutazioni tecniche, attinte dal lessico cinematografico, fungeranno quindi da stimolo per riflessioni di carattere teorico ed epistemologico più ampio.
Si partirà, dunque, da una indagine di carattere sinottico e narrativo sulla trama del film, per approdare in seguito a degli approfondimenti culturali circa i nuclei tematici dell’ultima opera del regista americano, attorno a: l’antropologia della ‘casa’, come e perché l’uomo crei uno spazio abitativo personale; il valore delle immagini e della fotografia – nella loro portata universale – rispetto al discorso della memoria e in termini di reazioni estetiche – dal punto di vista neurobiologico.
Sinossi: la poetica del “familiare”
Robert Zemeckis torna in campo con la sua ventiduesima opera, portando con sé un pezzo del suo cuore: il cast del celebratissimo ‘Forrest Gump’ – del 1994 – in cui troneggiano la coppia Tom Hanks e Robin Wright, ma anche il medesimo sceneggiatore e direttore della fotografia (e persino la stessa troupe). Nonostante le diverse assonanze tecniche, ci troviamo dal punto di vista contenutistico di fronte ad una radicalizzazione della precedente vicenda, imperniata intorno alla emblematica storia di un ‘americano medio’. Stavolta, però, è il tema della famiglia – nel suo senso più ampio – e del luogo ad essa correlato (la casa), ad esigere il monopolio dello sguardo – sia in senso metaforico che letterale – della macchina da presa.
La trama si dirama – in modo piuttosto ellittico – attraverso cinque storie – quella di due cavernicoli, di coloni americani, di un aviatore e la sua consorte, di un inventore con la sua donna-pin up, di afroamericani – tra le quali fa da capostipite quella della famiglia Young – di cui fanno parte Robert (Hanks) in qualità di figlio e Margareth (Wright) sua compagna. Nell’arco di un’ora e quaranta assistiamo ad una gloriosa epopea del concetto di nucleo famigliare – declinato diacronicamente dalle origini di sapiens sino ai tempi del Covid-19 – grazie all’inframmezzarsi di fotogrammi che fanno da vettori – sulla scia dei reels di Instagram – di scene della quotidianità dei protagonisti, sviluppantesi nello stesso ambiente secondo angolature temporali via via differenti.
Questo espediente dei fotogrammi in motion – richiamanti alla dimensione dinamica del trascorrere del Tempo – che fanno da contraltare all’inquadratura fissa, permanente e immutabile, sul salotto della casa – potenzialmente logorante per lo spettatore – è stata mutuata dalla graphic novel omonima di Richard McGuire. Ma l’idea di rendere il visivo del fumetto in movimento, utilizzando l’arte del cinema – definita da W. Benjamin non a caso ‘dinamite dei decimi di secondo’ [1] – è stata una soluzione che è costata al regista grande riprovazione da parte della critica locale. Eppure di diverso avviso sembrano le recensioni del continente europeo, le quali hanno accolto entusiasticamente la ventata di novità esibite nel corso del film – tra le quali il ricorso all’AI per ringiovanire i volti, i salti temporali bruschi, lo sviluppo alquanto abbozzato delle singole storie.
La sopracitata fissità conturbante della videocamera, piazzata in un angolo del living room per tutta la durata del film, sembra volere mettere l’accento sul dinamismo vitale e la ricchezza emotiva intrinseca alle storie di famiglia, con tutti i valori a queste connesse, di contro alla apparente rigidità spaziale del punto di vista. In realtà, a parere di Uexkull, considerare l’ambiente come ‘monade limitata al soggetto percipiente’ invece di costituire un impoverimento della percezione può essere colta come l’occasione per sperimentare oggetti e relazioni nuove. I mondi percettivi che costituiamo attorno agli scenari creerebbero una sorta di ‘bolla di sapone’ all’interno della quale si formerebbero ‘mondi nuovi’. Idee profondamente in contrapposizione, tuttavia, con il punto di vista sul cinema di Benjamin, il quale esalta il valore trasformativo – legato all’ampliamento dello spazio di gioco e all’abbattimento del mondo-prigione del quotidiano – che contraddistingue tale mezzo [2].
A mio avviso, la scelta del regista è stata frutto di una ponderazione ben precisa: un azzardo volto a fare sperimentare un ritorno a una ‘coscienza’ pre-cinematografica, attraverso un parossismo costitutivo (servendosi al contempo di questo come medium di riproduzione). Del resto controbilanciano gli inserti selvaggi dei frame in movimento, per garantire un’accelerazione tecnologica tipica del genere audiovisivo: gli universi percettivi (Merkwelten) «si decompongono più rapidamente, il mitico in essi contenuto viene alla luce con maggiore rapidità ed evidenza. […] Così si presenta dal punto di vista della preistoria attuale, il ritmo accelerato della tecnica» [3].
Nonostante l’inedito mix di elementi più tradizionali e innovazioni dal sapore futuristico, il film rappresenta – ed è questo il punto cruciale – per qualunque spettatore avido di conoscenza, uno stimolo interessante per meditare su diverse tematiche esistenziali e intellettuali, di cui discorreremo nelle prossime pagine.
Prima di concludere è opportuno però tornare sul contenuto di questa Storia immersa tra altre storie che ha come teatro non uno spazio qualsiasi, bensì un luogo ben determinato: una casa, vissuta da diverse generazioni, a partire dagli albori dell’umanità. Non è nelle finalità di questo testo scendere nel dettaglio delle vicende – le quali vengono oltretutto solo alluse – ma occorre spiegare il significato di questa scelta narrativa. Esso si annida intorno alla costruzione e alle sorti riservate a questa dimora, che viene rappresentata sin dalla suo gesto fondativo – un ‘non-luogo’ abitato da una coppia di indigeni – alla sua costruzione – fatta risalire addirittura alla figura emblematica di Benjamin Franklin – per passare poi in rassegna il succedersi dei diversi proprietari che la abitano. Ognuno di questi viene ‘colto’ in delle situazioni paradigmatiche, analizzate con estrema meticolosità: l’atto di compravendita, l’arredamento del salotto – unica scena cui siamo autorizzati ad osservare – ed il trascorrere della vita coniugale e familiare, con tutta la gamma di emozioni caleidoscopiche e argomenti connessi: l’euforia per un nuova nascita, il dolore per la perdita di un membro del gruppo, la routinarietà dell’ordinario, il conflitto intergenerazionale, l’espansione del clan familiare, l’emergere commosso di memorie condivise.
È così che veniamo trasportati in modo caotico – tra un frame in dissolvenza e un altro – attraverso appassionanti situazioni quali: l’ingenuo amore tra due indigeni americani, la gioia per la scoperta di una poltrona reclinabile nell’America della belle epoque – inframmezzata da balletti scanzonati – gli ammonimenti sulle multe alla guida, rivolti ad un adolescente da parte di un premuroso padre, foto di famiglia durante le festività natalizie, sessioni creative di pittura, parti improvvisi operati con il soccorso dei pompieri. Ciò a cui il regista ambisce, non è tanto una collezione sconclusionata di questi topos dell’esistenza umana, quanto l’esaltazione del loro valore rituale, nonostante la totale ordinarietà – suggerita dall’inquadratura fissa – attraverso la quale vengono ritratti. Il messaggio tra le righe consiste dunque nella celebrazione della ‘particolarità’ del quotidiano e delle emozioni che lo popolano: elementi in grado di trasfigurare la vita – e gli spazi – in miracoli in continuo movimento.
Per un’antropologia dell’abitare: la casa e i suoi dintorni
Il tema dell’abitare, nucleo attorno al quale si addensa ‘Here’, è stato oggetto di numerose e disparate discipline – dal design, all’architettura, alla sociologia, alla filosofia – tra cui non può essere estromessa l’antropologia. Come dice Remotti infatti questa «occupandosi della maniera con cui gli uomini danno forma alla loro umanità, in fondo si è sempre occupata dei modi in cui essi abitano il mondo» [4]. Tuttavia non si è mai delineato come campo epistemologico a sé stante, figurando piuttosto come complemento di specificazione di diversi settori. Alla luce della natura del termine stesso così «generico, ambiguo, scivoloso, abusato, multidimensionale» [5] come è possibile costruire un’analisi culturale intorno ad esso?
A rispondere a questa domanda ci pensa M. Pesare [6] proponendo un’interpretazione che dalla filosofia esistenzialista e l’antropologia, approda ad una sintesi pedagogica del concetto di abitare: inteso come un prendersi cura del proprio sé e del mondo, mediante il dispositivo dello spazio. «una paideia dello spazio antropologico è espressione del sentirsi partecipe, del rendere ‘luoghi’ i semplici ‘spazi’, del trasformare il proprio spazio vissuto e renderlo ‘emotivamente’ ‘intonato’ alla vicinanza tra sé ed il mondo» [7]. Il significato recondito dell’abitare è legato ad una conoscenza pre-cognitiva e sensibile dell’esistenza, ed è indistricabilmente connesso all’esperienza della vita: infatti per essere – sia psicologicamente che praticamente – sapiens necessita di avere un posto da ‘metaforizzare, quale sua proiezione esistenziale’.
A parere dell’autore questa speculazione simbolica e archetipica, nasce a partire da una crisi interiore che nel corso dell’ultimo secolo ha afflitto l’uomo: «Il racconto latente dell’abitare, che l’uomo contemporaneo tesse e disfa a partire dal Novecento, denuncia il suo ‘negativo’, cioè la sensazione di sradicatezza che il secolo breve e i suoi eventi traumatici hanno trasformato nel sentimento più avvertito dall’inconscio collettivo. Tutto sembra parlare della sradicatezza umana, della sua crisi dell’abitare, del suo lutto nei confronti di una sicurezza ancestrale e di rifugio costitutivo» [8].
Da questa considerazione si avvia una meditazione sui simboli di cui l’abitare si fa vessillo ed i meccanismi psicodinamici attraverso cui questa esperienza si struttura: esso viene concepito quale ‘metafora attiva’ ovvero simbolo cardine – in grado di ricucire l’originaria scissione aporetica che distanzia il microcosmo umano dal macrocosmo divino – impostante ed orientante le strategie cognitive umane. Tra il corollario di immagini legate a questo termine risalta quello di ‘casa’ – a mio parere, titolo che si sarebbe dovuto usare senza remore per il film in luogo di ‘Here’ – collegato da Durand [9] ai cosiddetti ‘simboli dell’intimità’ ovvero ad un rimando criptato al ritorno verso la madre ed il suo grembo, la cavità intra-uterina, fonte di protezione, cura ed affetto. Le analisi antropologiche ed etnografiche dall’antropologo compiute allargano la rete di nessi collegati a questo topos includendo anche il concetto di cavità, in generale, la culla, la dimora nascosta e addirittura la tomba: illustrando la prolificità di un tema che si serve di interfacce culturali per esibire un senso atavico di sradicatezza.
In linea con questo isomorfismo casa-pancia si esprime anche Bachelard [10], descrivendo l’immagine dell’abitazione come ‘topografia del nostro essere intimo’, dunque proiezione del nostro inconscio. La pratica dell’antropologia dell’abitare – a parere dell’autore – si sostanzia nell’abitare onirico o nella reverie della propria casa natale: questo fare predispone un ‘abitare ideale’ il quale di conseguenza ne produce uno concreto, di tutti i giorni.
Infine approdando al pensiero di Winnicott, egli concepisce in modo più ottimistico il passaggio dal ventre materno alla vita adulta, tuttavia conferisce anche lui risalto alla figura della madre, con il suo comportamento di holding – letteralmente abbraccio – ovvero ‘contenimento’ delle angosce infantili, tramite una presenza fisica ed emotiva supportiva. Questa aiuta il bambino a trasformare e alleviare le tensioni e pressioni dell’ambiente esterno su di esso, permettendogli di sperimentare il senso di onnipotenza soggettiva: la sensazione di essere lui, con i propri desideri a creare ogni cosa. Tale sentimento è indispensabile alla strutturazione di un Io maturo e coeso, solo grazie alla presenza di uno spazio che dia adito all’espressione libera del bambino. E a proposito del rapporto spazio-bambino, sempre lo psicologo inglese si esprime così: «All’ inizio il bambino è l’ambiente e l’ambiente è il bambino. Attraverso un processo complesso [...] il bambino separa gli oggetti e quindi l’ambiente dal Sé. […] In seguito il bambino diventa un‘unità, prima saltuariamente, quindi quasi di continuo, una delle molteplici conseguenze di questo sviluppo è che il bambino acquisisce una interiorità. Inizia ora una complessa interazione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori che continuerà per tutta a vita dell’individuo, costituendo la principale relazione del soggetto con il mondo» [11].
Catturare la memoria: note sulla fotografia e le immagini
Posta l’importanza attribuita al tema della produzione fotografica all’interno del film – sia a livello tecnico che contenutistico, legato all’agire meta-fotografico dei protagonisti – occorre dedicare un piccolo spazio alla sua trattazione. La fascinazione per la macchina fotografica cui assistiamo nel corso del film è sicuramente da attribuirsi al suo sempre più frequente utilizzo nel corso del periodo intra-bellico come mezzo per occuparsi di ‘immagini’. Quest’arte, sin dai suoi albori, andò a rimpiazzare l’anelito mimetico – di pedissequa imitazione del reale – ispirazione fondamentale nello sviluppo della storia dell’arte occidentale, la quale finalmente poté iniziare a sperimentare in maniera autonoma e sovversiva nei confronti delle forme e i colori. Ma qual è e, soprattutto qual era la funzione primaria della fotografia a quel tempo? Contribuisce ad esaudire i nostri dubbi Susan Sontang, definendo le fotografie come «esperienza catturata, e la macchina fotografica l’arma ideale di una consapevolezza nel suo momento acquisitivo. […] Attraverso le fotografie, il mondo diventa una serie di particelle isolate a se stanti, e la storia, passata e presente, un assortimento di aneddoti e faits divers. La macchina fotografica rende la realtà atomica, maneggevole, opaca. È una visione del mondo che nega la connessione con la continuità, ma che conferisce a ogni momento il carattere di un mistero» [12].
Riflessione sicuramente nutriente per un’opera come quella di Zemeckis nella quale la settima arte perde il suo mordente per regredire verso la sesta arte, grazie al massiccio utilizzo di shoots che – fermando il flusso di movimento del girato – fungono da collante tra un universo temporale e un altro all’interno della vicenda. Inoltre, dal punto di vista del soggetto fotografante – dunque i protagonisti del film che si cimentano sovente in ritratti di famiglia – è opportuno precisare il valore mnestico e al contempo affettivo di tale pratica. A differenza di altri tipi di immagini la foto non costituisce una riproduzione né una interpretazione, bensì una sua traccia. Eppure, a differenza della memoria, queste non conservano il significato dell’evento, offrendo piuttosto ‘apparenze’ estrapolate da quest’ultimo. Occorre dunque che subentrino processi cognitivi ed emotivi affinché venga ri-semantizzato il soggetto della foto e questo possa tornare ad acquistare spessore, bidimensionalità.
Il paradosso attraverso il quale, per incastonare un ricordo sulla pellicola, si avalli il degradamento della memoria, è sottolineato da Berger che auspica la possibilità che esse aiutino ad arricchire il ricordo: «Le fotografie sono relitti del passato, tracce di ciò che è avvenuto. Se i viventi prendessero su di sé il passato, se il passato diventasse parte integrante del processo attraverso cui le persone fanno la propria storia, allora tutte le fotografie riacquisterebbero un contesto vivo, continuerebbero a esistere nel tempo invece di essere momenti congelati. È possibile che la fotografia rappresenti l’annuncio di una memoria umana socialmente e politicamente non ancora realizzata […]. Il compito di una pratica fotografica alternativa è di incorporare la fotografia nella memoria sociale e politica, invece di usarla come un sostituto che ne incoraggia l’atrofia» [13].
Infine va accennato al problema delle immagini all’interno di ‘Here’ – siano esse fotografie o dipinti, come quelli maniacalmente realizzati da Robert (Tom Hanks) aspirante grafico – secondo la prospettiva neuroscientifica e dei visual studies. Ciò che occorre precisare è il carattere attivo e trasformativo di queste sullo spettatore: le quali assumono un ‘potere’ e un’invasività ad oggi dominante. La teoria dei neuroni specchio ci fornisce una prima spiegazione rispetto a questo condizionamento, che si esplica nella cosiddetta simulazione incarnata, ovvero nell’emulazione interna al percipiente delle stesse reti neurali attivate nell’esecutore o nell’opera raffigurata. Questo sfondo teorico andrebbe arricchito dal contributo di David Freedberg che nel Potere delle Immagini [14] sottolinea il senso di agentività esercitato da esse nel fruitore: il quale per converso tenderebbe a reprimere gli intensi sentimenti di fascinazione, stordimento, e invito all’azione che gli sarebbero suggeriti.
Conclusione
Si può leggere tra le righe di ciò che è stato esposto un invito tacito da parte di Zemeckis a lasciarsi accompagnare in questa avventura esemplare dell’essere umano, heideggerianamente immerso-nel mondo, facendosi sedurre dal potere predominante dell’immaginario – che abbiamo scoperto essere tanto legato al simbolo dell’abitare quanto a quello del in-abitare, che collega il mondo percepito a quello dell’investimento affettivo e della memoria.
Questa opera rappresenta un’occasione per meditare non solo sui simboli abitativi che intridono la nostra struttura psichica ma anche sulle modalità – le protesi – delle quali ci serviamo per dialogare con il mondo: in primis l’ineludibile del corpo. Ed è proprio attraverso questo limite-risorsa che il regista ci inchioda allo schermo in un un’unica ambientazione – un soggiorno – per farci riscoprire le potenzialità inaspettate che si annidano nella nostra struttura biologica di spettatori/ricercatori di senso. «Quando niente arresta il nostro sguardo, il nostro sguardo va molto lontano. Ma se non incontra niente, non vede niente; non vede quel che incontra: lo spazio è ciò che arresta lo sguardo, ciò su cui inciampa la vista […] Non ha nulla di ectoplasmatico lo spazio; ha dei bordi, lo spazio, non corre in tutti i sensi: fa di tutto affinché le rotaie delle ferrovie si incontrino ben prima dell’infinito» [15].
Dialoghi Mediterranei,, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2004.
[2] Cometa M., Cultura Visuale, Raffaello Cortina, Milano, 2020: 283-285.
[3] Benjamin W., I ‘passages’ di Parigi, Tr.it. In Opere complete. IX., Einaudi, Torino, 2000: 516.
[4] Remotti F., Abitare, sostare, andare: ricerche e fughe dall’intimità, In: AA.VV. Le case dell’uomo. Abitare il mondo, Utet, Novara, 2016: 102.
[5] Lazzarino E., Antropologia alla prova dell’abitare. La località come strumento di analisi culturale, Abitare/Dwelling, R.O.SA, Riviste online Sapienza, 2017: 70.
[6] In questo paragrafo verrà ripresa la tesi di Pesare M., in Abitare ed Essenza. Paideia dello spazio antropologico, Mimesis, Milano-Udine, 2009.
[7] Ibidem: 9.
[8] Ibidem: 110.
[9] Durand G., Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo Bari, 1972.
[10] Bachelard G., La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975.
[11] Winnicott D., Dal luogo delle Origini, Raffaello Cortina, Milano, 1990.
[12] Sontang S., Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino, 1978: 4-21.
[13] Berger J., Sul guardare, il Saggiatore, Milano, 2017: 85-86.
[14] Freedberg D., The power of images. Studies in the history and theory of response, The University of Chicago Press, Chicago and London, 1989.
[15] Perec G., Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino, 2013: .97.
______________________________________________________________
Antonina E. Ferruzza Marchetta, dottoressa in Lettere Moderne, presso l’Università di Bologna, laureanda alla magistrale in Psicologia Clinica dell’Infanzia e dell’Adolescenza e al Master di ArtiTerapie e Terapie Espressive – con specializzazione in danzaterapia – alla Cattolica di Milano. I suoi interessi culturali si incentrano sul rapporto tra linguaggio, psiche e corporeità, declinati attraverso diverse discipline di matrice artistica. È practitioner del Metodo Feldekrais (somatica), insegnante e danzatrice di un derivato contemporaneo della bellydance, e ha collaborato con la rivista Balarm.
______________________________________________________________
