Un microcosmo e le sue storie
L’acquisizione della Sony Pictures dei diritti della graphic novel “Here” – di Richard McGuire, che collabora con riviste di prestigio, tra cui il «New Yorker», «New York Times», «McSweeney’s», «Le Monde», «Libération» – per farne un adattamento cinematografico, ha consentito di riunire il team di Forrest Gump, intensa e potente opera che, nel 1994, vinse sei Oscar tra cui quello come miglior film. Il gruppo portante di Here, che non ha ricevuto critiche entusiastiche, rivelato a febbraio del 2022, prima che Robin Wright entrasse nel cast (dopo aver diretto e interpretato Land, e aver recitato in House of Cards e Wonder Woman), costituito dal regista Robert Zemeckis, da Eric Roth (sceneggiatore di numerosi lavori, tra cui, The Horse Whisperer, di R. Redford, del 1998; Extremely Loud & Incredibly Close, di S. Daldry, del 2011; Dune, di D. Villeneuve, del 2021; Killers of the Flower Moon, di M. Scorsese, del 2023) e dai due protagonisti principali, oltre a Robin Wright, Tom Hanks, ha dato vita a un racconto epico iper-visivo che attraversa il tempo, puntando lo sguardo, a camera fissa, su un contesto e su un’abitazione dove si sviluppano alcune relazioni e dove si susseguono diverse vicende umane, familiari e non. L’unico topos inquadrato, dopo l’edificazione della casa, è il salotto, coprotagonista e soggetto della storia: in relazione con kairos, esso si trasforma mantenendo il proprio ruolo di spazio comune, capace di catalizzare e influenzare gli scambi e le vicende umane.
La graphic novel di Richard McGuire, che ha ispirato Zemeckis, inizialmente di sole sei pagine, editata alla fine degli anni ‘80 sulla Rivista «Raw» vol. 2 #1, nella sua forma estesa, circa trecento pagine, rievoca, come in seguitò farà il film, la trasformazione di una foresta originaria, la quotidianità di una tribù di Nativi, la costruzione di una casa, l’estetica mutevole e il comporsi di una stanza, ombelico relazionale di diversi gruppi familiari, il susseguirsi di circostanze storiche di portata sovrastrutturale e di alcuni momenti particolari accaduti in quell’unico ambiente, tenendo fisso lo sguardo sul luogo e rendendo chiaro come il tempo nel medesimo luogo abbia una funzione trasformativa. Rendendo il ciclo pressoché eterno ma attribuendo al “qui e ora” un valore cruciale.
Il fumetto Here e il film di Zemeckis – entrambi contraltare dell’Ulysses di J. Joyce che dilata il luogo (la città, Dublino) e contrae il tempo in un sol giorno –ambiscono quindi a raccontare non solo le vicende della casa e dei suoi abitanti, ma la storia dell’intera umanità, da uno specifico angolo di mondo. Il fumetto, la cui versione definitiva presenta forti rimandi all’estetica raffinata di Edward Hopper, è stato pubblicato nel 2014 da Pantheon Books negli Stati Uniti e in Italia, nel 2015 da Rizzoli Lizard. Richard McGuire (noto per essere anche uno sceneggiatore) come il grande artista statunitense, privilegia tinte e campiture vibranti ma continue, immagini nitide e materiche, predominanti rispetto al testo, e pone al centro due oggetti principali e costanti, il caminetto, simbolo del focolare domestico e la finestra, l’occhio che consente di vedere e di aprirsi al mondo esterno.
La graphic novel, non solo suggestione ma vera matrice del film, promuove, inoltre, una tecnica di rappresentazione grafica innovativa, ripresa dallo stesso Zemeckis che mutua da McGuire la scelta di raffigurare in numerose pagine, il tempo, la sua corsa e la sua paradossale simultaneità, attraverso il sovrapporsi di alcune vignette che, come finestre temporali, si aprono alla stregua di un ipertesto visivo, giungendo, nella graphic novel, sino al XXIV secolo. Per mantenere il rapporto con questa, da cui il film è tratto, il regista, lo Studio di produzione statunitense VFX, ha messo a punto alcuni strumenti come il de-aging digitale (già utilizzato in altre opere, tra cui The Irishman di Martin Scorsese) per ringiovanire sia Tom Hanks che Robin Wright, protagonisti della famiglia Young, Richard e Margaret, tra i fulcri principali di Here.
Ambientato nel New England durante una lunga fase, dal Triassico superiore (circa 230 mln di anni fa), il film di Zemeckis porta all’estreme conseguenze l’intuizione di McGuire, traducendola in un discontinuo e nervoso flusso visivo, focalizzando l’attenzione su una piccola porzione di quella che fu la Pangea (supercontinente che durante il Giurassico iniziò a smembrarsi per la comparsa dell’Oceano Atlantico) al tempo dei Dinosauri, mostrando la loro estinzione, probabilmente a causa della caduta di un meteorite, durante il Cretaceo (circa 65 mln di anni fa), alla conclusione dell’Era Mesozoica. In questo mondo pre-umano il clima si va assestando, la natura si trasforma, compaiono vari organismi viventi come le angiosperme (alla fine del Giurassico), mentre i boschi sono ricchi di felci arboree, le radure di felci e muschi, in luoghi dove poi inizieranno ad affermarsi i mammiferi e i primati (circa 55 mln di anni fa).
Zemeckis, quindi, sceglie di presentarci una casa, ridotto frammento di un unico vasto luogo (l’ampia regione localizzata nella costa atlantica, attualmente composta da sei Stati, Connecticut, Maine, Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island, Vermont, il cui nome, New England, coniato dal soldato e colonizzatore J. Smith nel 1616, divenne ufficiale nel 1620), che agisce retoricamente come un’insolita sineddoche, a partire da una rapidissima contrazione della timeline temporale, per mostrarci l’affermarsi della specie umana, dilatando invece gli ultimi cento anni circa, con alcuni “spot” temporali fino alla fase della pandemia di Covid-19 e poi sino al 2024.
La narrazione, come già accennato, parte dal Cretaceo, esplorando la Preistoria e l’Era glaciale, proseguendo con alcune sequenze che raccontano brani di vita dei Nativi americani, rivelando poi la forte trasformazione dell’ambito, l’abbattimento degli alberi che costituivano la foresta primordiale e, in seguito, la stagione cruciale, per gli Stati Uniti, coincidente con la Guerra di Indipendenza. Al centro di tale iniziale contesto Zemeckis pone una ricca casa coloniale, costruita intorno al XVII secolo, abitata da William Franklin, convinto lealista, figlio illegittimo di Benjamin Franklin con cui giunse a una completa rottura.
Di fronte a tale abitazione ne viene costruita un’altra, poi abbandonata e demolita per far posto alla casa protagonista del racconto, a una strada e a un gruppo di abitazioni unifamiliari, con un iter che rende chiaro il fenomeno relativo all’edificazione della rete federale delle highway nordamericane, tra gli anni ‘30 e ‘50, che promosse la diffusione delle automobili (favorendo la Ford), l’urban sprawl e l’abitare suburbano del XX secolo, tipico di ampie fasce territoriali dell’America del Nord (in particolare della vastissima area delle Megalopoli, codificate dal geografo Jean Gottmann nel 1961).
La casa, in senso generale, è il ventre del racconto, centro dell’azione e centro delle “paralisi” emotive. Vi compaiono e vi agiscono gli abitanti, autori e vittime delle circostanze: in quella coloniale il giovane William Franklin che dialoga con la moglie (Deborah Read) del padre, da lui considerato un bizzarro, svitato, sedizioso, anziano idealista, che, secondo William, sarebbe dovuto restare fedele alla Corona d’Inghilterra, evitando, tra gli altri, gli esperimenti con l’aquilone (nel 1752) che portarono all’invenzione del parafulmine, reputato da William un oggetto pressoché inutile.
Nell’altra casa, reale focus del film, vi abiteranno: la prima famiglia, quella dell’aviatore John, ucciso dall’epidemia di Spagnola del 1918, della Suffragetta Pauline con la loro giovane figlioletta, promettente violinista; essi acquisteranno la casa perché vicina all’aerodromo; la coppia costituita da Lee Beeckman e Stella, un inventore e una danzatrice stretti da un legame passionale e arricchiti grazie a una poltrona, la “Relax Boy”, poi “Lazy Boy”, progettata da Lee e pubblicizzata alla Radio; gli Young e infine la famiglia Harris, neri benestanti molto devoti. Un luogo solo, un luminoso salotto, e un intreccio di storie, apparentemente sconnesse, ma strettamente congiunte.
Quando, durante la II Guerra Mondiale Lee e Stella, ormai benestanti, si trasferiranno in California, la casa sarà acquistata da Al e Rose Young, un veterano di guerra sordo da un orecchio e una casalinga abnegata, anche se non troppo remissiva, con il rimpianto di non essere diventata un esperto contabile. Centosessantasette metri quadri con una graziosa veranda e quattro camere da letto, con elettrodomestici inclusi, costruita nel 1900 in legno e muratura, solida come un vecchio albero, viene così occupata negli anni ’50, da una tipica famiglia americana middle class che alimenta un’interna insoddisfazione per la rinuncia ai propri sogni personali. Rose resta precocemente incinta, si occupa della casa e dei figli, mentre Al, venditore fallito di aspirapolveri, si rifugia nel bere, investito dalle proprie disillusioni. Solo inizialmente sono felici, hanno dei figli, il primo Richard manifesta talenti artistici, disegna, desidera studiare grafica… Egli, insieme a Margaret, che conoscerà a soli diciotto anni, animerà la storia familiare portante del film.
La casa sin dall’insediamento degli Young diviene teatro della tormentosa scena americana del Novecento, piena di rabbia inespressa, di emozioni trattenute, di rimorsi, nostalgie e liti esplosive, un mood che ha esplicitato senza sconti l’american dream e il suo fallimento. Forti i rimandi a una tragicità senza soluzione che in Here è smorzata ma viva, presente in pièce come Long Day’s Journey into Night di Eugene O’Neill, composta tra il 1941 e il ’42, dove i personaggi durante una lunghissima giornata, si urlano in faccia il proprio senso di solitudine, insoddisfazione e disperazione e dove il padre, James, un ex-attore, si rifugia nell’alcool. O in opere come Our Town di Thornton Wilder del 1938, in tre atti ambientati in una piccola cittadina del New Hampshire, che descrive anche attraverso flashback, le relazioni, le singole identità, le storie di vita, “disegnando” una profonda riflessione sulla mortalità e sul quotidiano, con le ritualità domestiche e la semplicità dei piccoli gesti.
Plot che riflettono lo scenario sociale, dove si assiste a un transito, dove i valori artificiali hanno sostituito quelli reali, dove, infine, s’insegue la celebrazione del vuoto e dell’inautenticità che vede i protagonisti reclusi nello spazio domestico e nella propria esistenza diversa da quella inizialmente bramata.
Al, tra le figure cardine, ha un comportamento evitante e una contraddittoria autostima, è un conservatore abbastanza represso, che spesso si chiede “come sarebbe stata se…”. Vive di rimpianti e confessa a Richard, il figlio appena adolescente, di aver tradito, seppur solo una volta, la moglie Rose… il giovane si schermisce domandandogli il perché di quella confessione e chiedendogli, invece, se avesse ucciso qualcuno durante la II Guerra Mondiale di cui Al è veterano. Questi, con la sua risposta evasiva. “chi può dirlo, accade tutto così velocemente…” esprime implicitamente uno tra i significati del film, la caducità dell’esistere, nel tempo che s’impasta; un tempo simultaneo, un tempo che stratifica e cancella, dove alcuni ricordi, come lame acuminate, tagliano ancora.
Richard e Margaret, Tom Hanks e Robin Wright, di nuovo insieme dopo trent’anni, raccontano in Here la generazione dei “boomer”. Si scelgono e si amano, rinunciano ai propri obiettivi e alle proprie passioni, vivono la precoce genitorialità (hanno solo diciotto anni quando Margaret resta incinta di Vanessa) in modo responsabile e castrante: Richard rinuncia alla sua vocazione di artista, Margaret al suo desiderio di diventare avvocato. Avanzano nella vita con traiettorie divergenti. Il primo, pur essendo insoddisfatto, prosegue placido e in fondo solidamente ancorato alla famiglia. La seconda, di contro, più inquieta, come Pauline la moglie dell’aviatore, ha con la casa, entro cui si vivono piccole contese familiari, un rapporto di amore-odio. La dimora, infatti, simbolicamente rappresenta il suo abdicare a un ruolo che non la appaga del tutto, e materialmente configura una sorta di carcere sociale dove è costretta a vivere con la famiglia del marito. La giovane coppia non ha un reddito sufficiente per acquistare una residenza che, come dice Margaret, sia “tutta nostra”. Obiettivo mai compiuto, anche per il passivo atteggiamento di Richard che, tra problemi sul lavoro e una certa inerzia, non realizza il sogno di una nuova abitazione, peraltro da lui disegnata su bellissime tavole acquerellate.
Il tempo passa, la figlioletta Vanessa cresce e va al college per diventare un brillante avvocato, Rose si ammala e per un infarto resta invalida, si trasferisce con John in Florida, dove muore. John rientra a casa quando oramai Richard è rimasto solo, lasciato da Margaret che non crede più nel matrimonio, divenuto inautentico, mentre la sua memoria viene meno e i sintomi della demenza stanno pian piano comparendo. Come se lei desiderasse rimuovere le tracce di una vita manchevole. La casa è oramai abitata solo da Richard e dal vecchio padre che presto morirà. In quella stanza oramai deserta Richard troverà se stesso, riprendendo a dipingere con colori luminosi e chiari.
Il ruolo catartico della casa è concluso: tutti, adulti, anziani, ormai risolti, possono lasciare la placenta. Richard, dopo aver trascorso un tenero Giorno del Ringraziamento con Margaret, da separati, decide di vendere la casa. Prima di consegnare le chiavi egli vi riporta la moglie, anziana e vittima dell’Alzheimer. Nel salotto luminoso e vuoto dove ci sono solo due sedie, come nella prima scena del film, la coppia si ritrova e, mentre Margaret non ricorda nulla, Richard le racconta quanto la casa sia densa di ricordi felici. Rievoca i piccoli momenti della loro vita, quando fecero l’amore per la prima volta sul divano, il Natale, la nascita della figlia avvenuta proprio in quella stanza, le loro nozze. Nella narrazione tutto è perfetto. Non ci sono crucci, né odio, né recriminazioni. Sono pacificati. La stessa Margaret finalmente ricorda, oramai riconciliata, la bella avventura vissuta, ripensa a un nastro blu perso e ritrovato da Vanessa, un piccolo evento apparentemente insignificante, indelebile perché in quell’istante tutti erano perfettamente felici, rivive i momenti del quotidiano, dimenticando l’inquietudine e risentendo la gioia dei primi tempi. La stessa casa, da lei tanto odiata, allora, si trasforma in un luogo idilliaco, una Arcadia magica che coincide con una giovinezza piena di sogni che sembrano interamente realizzati. Solo allora, alla fine, cambia il punto di vista della camera che, uscendo dal salotto, mostra il quartiere pieno di case tutte uguali, di strade vicinali, di aceri rossi, mentre il volo leggero del piccolo colibrì ci ricorda quanto la natura, con o senza la specie umana, sia il cardine e l’abitante del pianeta, fin dall’epoca preistorica.
I luoghi, la casa, la vita, la morte. Qui e ora
Il film di Zemeckis rimanda, anche se solo in parte, a 2001: A Space Odyssey di S. Kubrick, mutuando, da quel capolavoro del 1968, l’intenzione di far vedere come il tempo, l’identità, la memoria o la rinuncia a essa, siano un flusso generativo e un’occasione per interrogarsi sia sul senso dell’esistere in rapporto all’Altro da sé, sia sulla stessa azione umana sulla Terra, secondo una prospettiva dichiaratamente umana. In tal senso il film ambisce a definire uno sguardo eterodiretto, ma tendenzialmente critico, sul “paesaggio del mondo”, e a superare la dimensione narrativa, pur determinante rispetto alle “storie di vita” raccontate, ponendo al centro il ruolo umano nel tempo in rapporto al luogo, alle comunità insediate, alle risorse naturali. Narra quanto una casa (nucleo basico che rappresenta il modello rassicurante della famiglia, la città, l’insieme di tutte le case e degli insediamenti sui differenti territori) possa configurarsi come segno trasformativo e violento della specie sul pianeta e, insieme, come placenta, luogo sicuro e anelato, riflettendo, nello stesso tempo, le dinamiche esistenziali, divenendo oggetto di desiderio o recinto costrittivo, come una detestabile prigione.
La casa in Here è un archetipo: rimanda, infatti, alle matrici del costruire, all’immagine dell’abitazione originaria che, da un remoto “anno zero”, prima dell’azione umana, mostra il pianeta privo di persone e manufatti, così come concepiti dalla nostra specie.
La casa in Here, come l’astronave Discovery del film di Kubrick, è un microcosmo eterocentrico: protegge, isola, circoscrive, consente il viaggio nel tempo di alcuni soggetti che rappresentano un’unica specie con le sue conflittualità endogene e con le interne alleanze che contraddistinguono l’Antropocene. Il Capitalismo e il suo esplodere, infatti, è il sottotesto che innerva l’intero film di Robert Zemeckis, in relazione alla trasformazione e all’appropriazione delle risorse, al consumismo, alla pubblicità, all’accentrarsi della ricchezza, ai conflitti etnici, al colonialismo, ai genocidi, alle guerre, alle scelte e all’organizzazione del lavoro, alla possibilità di gestire il proprio tempo o all’esserne asserviti.
La casa in Here è il luogo della memoria e il luogo della sovrapposizione, dove alcuni ricordi si perdono, lasciando tracce infinitesimali che a volte ricompaiono, illuminando frammenti remoti di vite trascorse, mentre gli oggetti, i colori, le persone, cambiano.
Tra i numerosi rimandi cinematografici uno, forse, attribuisce a una singola abitazione lo stesso valore di grembo materno che accoglie drammi e gioie vitali: la Famiglia di E. Scola, che, nel 1987, ambienta una lunga saga familiare entro un’unica casa, nel quartiere Prati a Roma, che regge, limita, alimenta le contraddizioni, vede le ambiguità e le evoluzioni di ciascuno, contiene le tragedie, le delusioni, i tradimenti, gli umori.
Non unicamente riguardo all’essere la stanza centrale della casa, il soggiorno – spazio comune dove differenti segreti si celano o si mischiano, tra guerra e pace, dove accadono eventi topici (nascite, morti, successi, rinunce, ribellioni, crash emozionali, feste, cene, matrimoni) – riveste aspetti concreti e simbolici, attraverso oggetti specifici-fulcri metaforici, utilizzati, a volte, per operare le transizioni temporali, alcuni interni alla stessa abitazione, altri esterni. La grande finestra (che consente di guardare fuori, di osservare il passato e il futuro, di disegnare “ciò che si vede”), il caminetto, il divano, il tavolo, la poltrona, il telefono, la radio, la televisione, le tele e il cavalletto, un lettino, la collana ritrovata, il violino, gli elettrodomestici. Anche tramite essi – finestre temporali – emergono alcuni avvenimenti decisivi (il voto alle donne; le questioni di genere; le guerre), cardini connessi, nella narrazione, alle azioni e ai desideri dei singoli e della collettività: il risiedere, il radicamento, il prendersi cura (anche rispetto al genere), l’essere ricordati o dimenticati, le aspirazioni conseguite o frustrate… il desiderio di proteggersi o di fuggire.
La casa in Here è un soggetto, un personaggio identificato, ma nel contempo è un oggetto cosmogonico, trans-temporale, è la caverna, è il rifugio, è la capanna originaria, è uno spazio sacro e insieme umano, costruito, come afferma Marc-Antoine Laugier, in Essai sur l’architecture (1755), imitando i processi della natura. Essa contiene in sé tutte le case che, prima immaginate, in seguito verranno. La casa di Here, quindi, è una capanna che, sostiene Rykwert (in La casa di Adamo in Paradiso), è concepita come se fosse abitata da un dio o da un eroe: cosmo assoluto, proiezione umana delle grotte che diviene recinto, luogo sicuro e impenetrabile.
Non è un caso, però, che il regista statunitense, al suo ventiduesimo film, abbia deciso di ambientare nel New England la vicenda. Abitata dai Penobscot, i Narragansett, i Wampanoag, i Pocumtuck, i Mohegan e i Pequot, l’area fu colonizzata dal XVII secolo circa da francesi, olandesi e inglesi che iniziarono a esplorare e a strappare la terra ai Nativi fin dall’inizio del XVII secolo. Giunti a bordo dal Mayflower, i coloni fondarono il primo centro abitato di Plymouth nel Massachusetts nel 1620, inaugurando l’assoggettamento europeo permanente nel New England e nell’America del Nord. Il Patto del Mayflower scritto e firmato dai pellegrini divenne il primo documento di governo, e la comunità iniziò a dominare l’area sia grazie a una colonizzazione diffusa di villaggi e fattorie, sia al primo baluardo urbano, Boston, fondata con il suo porto nel 1630. L’ampia regione fu teatro di una rapida crescita e colonizzazione, come di guerre, sia con i Nativi, che pressoché inermi reagivano all’espropriazione della propria terra, sia tra i differenti coloni.
Va ricordato in tal senso, e proprio per comprendere meglio la scelta di Zemeckis di includere tra i protagonisti una tribù di Nativi, il massacro di Mystic River del 1637, la Pequot War che vide le truppe coloniali avanzare verso il villaggio fortificato di Missituck (Mystic) che ospitava i Pequot e le loro famiglie. In quella strage, che profittò di alcuni conflitti interni tra differenti tribù indigene, in particolare ebbe il sostegno dalla tribù dei Narragansett alleati dei coloni e nemici dei Pequot, furono decimati circa settecento tra questi ultimi, compresi donne e bambini. Come ricordato dai capitani dei coloni, John Mason e John Underhill (nel suo Newes from America, London 1638) i Nativi in fuga vennero inseguiti e trucidati. Decidendo di bruciarli, i coloni diedero fuoco all’intero villaggio, dove molte persone arsero vive. Negli anni successivi si svolsero vari conflitti per il dominio della regione, tra la Francia e l’Inghilterra, la cui vittoria nel 1763 aprì la valle del fiume Connecticut all’insediamento britannico nel New Hampshire occidentale e nel Vermont.
Tali eventi, pur ricordati in sintesi, ebbero un ruolo cruciale nella colonizzazione dell’America del Nord e nello sviluppo del New England, che divenne in breve il fulcro della prima Rivoluzione Industriale negli Stati Uniti, la cui crescita si fondava essenzialmente sul commercio con l’Impero britannico, nazione di punta in Europa per industrializzazione. Alcuni siti, come la Blackstone Valley che attraversa il Massachusetts e Rhode Island sono, infatti, da considerare culla dello sviluppo industriale americano, a partire dal settore tessile, volano di produzioni redditizie e di movimenti migratori.
Pur non essendo al centro del racconto di Zemeckis vanno ricordate per quell’ampio contesto alcune fasi, soglie storiche che riecheggiano nel film, come la Grande Depressione e i cambiamenti complessivi, tra gli anni ’20 e i ’70 del Novecento, caratterizzati da contrazioni industriali e dalla delocalizzazione di alcune produzioni che causarono crisi profonde soprattutto per la working class e per la classe media. Dopo la II Guerra Mondiale, infatti, l’economia del New England subì una radicale trasformazione e le ricche comunità residenti patirono un declino economico: numerose fabbriche tessili e calzaturifici, una dopo l’altra, chiusero i battenti, lasciando un’enorme quantità di impiegati senza lavoro.
Come 2001: A Space Odyssey anche Here è organizzato in “capitoli” strutturati in modo non lineare, né cronologico. I primi senza dialogo, mostrano, oltre all’estinzione dei Dinosauri, la presenza dei Nativi americani. Senza inquadrarne gli accampamenti, Zemeckis e McGuire esplorano, forse, la profonda alleanza di questi con la natura. Niente affatto separati da quanto li circondasse i Nativi vivevano, amavano, morivano nella e con la Terra, appartenendovi. Ogni oggetto, anche quelli decorativi come la collana data in dono per una proposta di matrimonio, rimandavano alla natura: frammenti, conchiglie raccolte sul bordo dell’acqua, evocano il luogo, il tempo sacro, quello quotidiano e quello geologico: la potenza e il permanere dello spirito, lo scoppio di un vulcano, l’erosione degli elementi, il vento, racchiudono in sé un’immane forza, fattuale e poetica. Quel gruppo umano che viveva nella foresta, parafrasando J. Milton, abitando «visibili oscurità», esprimeva ed esprime simbolicamente un patto sociale, così come il suo eccidio esprime la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dove l’umanità era alleata con la natura, prima delle origini dell’architettura e delle città.
La storia di Here inizia dalla fine e con quella stessa scena si conclude, quando quel luogo amato e odiato si è venduto. Il salotto è ormai vuoto, solo due sedie pieghevoli, accoglieranno Richard e Margaret ormai vecchi.
Il ciclo si apre: la casa si smaterializza, compaiono vulcani, dinosauri, acqua che sobbolle, roghi, meteoriti, grandi lapilli. Ghiacci infiniti, paesaggi che cambiano, foreste, fiori che sbocciano. Uccelli e mammiferi, un colibrì… Nativi e coloni. La schiavitù, poi abolita, frutto di grandi abusi e contraddizioni. Il ciclo si chiude in pace: i ricordi si ammorbidiscono, la luce li avvolge senza ombre, mentre Spazio e Tempo, spazio del permanere e tempo dell’azione come un palinsesto in perenne riscrittura, inducono a ragionare su cosa sia la memoria personale e collettiva.
Così Here trascende il mero impalcato narrativo e l’esperienza visiva proposta, lasciando a chi guardi la libertà di speculare sul significato simbolico o allegorico delle immagini e delle storie, occasione per una più profonda riflessione morale ed etica sulla presenza umana sulla Terra.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Flavia Schiavo, architetto, architetto del paesaggio e PhD in Pianificazione Territoriale. Prof.ssa Associata presso la Università degli Studi di Palermo, insegna Urbanistica (Laurea in Urban Design per la città in transizione) e Laboratorio di Progettazione urbanistica (Corso di Laurea in Architettura). È componente del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Architettura, Arti e Pianificazione. Ha al proprio attivo numerose pubblicazioni (saggi e monografie), in italiano, spagnolo e in inglese, che sviluppano articolati temi di ricerca: fonti non convenzionali (letteratura e cinema per interpretare città e territorio); linguaggio urbanistico; partecipazione, conflitti, azioni e pratiche bottom-up in ambito urbano; parchi e giardini; sviluppo e questioni sociali, economiche e antropologiche nel contesto della Rivoluzione Industriale; arte, culture urbane e contaminazioni. Tra i titoli delle monografie: Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004, Sellerio, Palermo; Tutti i Nomi di Barcellona, 2005, FrancoAngeli, Milano; Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, 2017, Castelvecchi, Roma; Lettere dall’America, 2019, Torri del Vento, Palermo; New York: entre la tierra y el cielo, Ediciones Asimétricas, Iniciativa Digital Politècnica, Barcelona, Madrid, 2021; Lo schermo trasparente. Cinema e Città, Castelvecchi, Roma, 2022; Nata per correre. New York City tra il XIX e gli inizi del XX secolo, Aracne, Roma, 2023; 8 lezioni newyorchesi. La Democrazia delle Città, la Democrazia della natura, Il Sileno edizioni, Cosenza, 2023. Fa parte di Comitati scientifici di prestigiose collane editoriali (FrancoAngeli) e di Riviste del settore. Ha organizzato seminari, simposi, meeting, convegni nazionali e internazionali e ha condotto lunghi periodi di ricerca in Italia e all’estero, in Europa (UAB, Barcellona) e recentemente negli Stati Uniti (Columbia University, New York City).
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