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Gli italiani in Etiopia tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento

Arada nei primi anni trenta del 900 (@Mauro Ghermandi)

Arada nei primi anni trenta del 900 (@Mauro Ghermandi)

di Nabil Zaher

Il presente saggio intende mettere a fuoco vari aspetti dell’invasione italiana nell’Etiopia nel 1935, il peso che tale vicenda ebbe nel vissuto di italiani ed etiopici, mirando soprattutto a ricostruire ampiamente e solidamente sul piano storiografico le vicissitudini della guerra tra l’Italia e l’Etiopia attraverso un inquadramento generale della colonia italiana nell’Africa orientale, e ponendo in rilievo non soltanto le orme negative lasciate dagli italiani nelle terre etiopiche prima e dopo il crollo del fascismo ma anche quelle positive e relative al periodo che va dal 1936 al 17 maggio del 1941.

Le prime campagne di conquista in Africa vennero intraprese dalle principali potenze europee verso la fine dell’Ottocento. Con il Congresso svoltosi a Berlino nel 1884-85, iniziò il fenomeno conosciuto come «lo Scramble for Africa» [1], cioè la corsa delle potenze del vecchio continente alla scoperta di territori e alla creazione di colonie nel continente africano.

Lo Stato italiano visse una serie di pesanti sconfitte: Amba Alagi, Macalle e Adua [2]. La schiacciante sconfitta inflitta all’Italia nella battaglia campale di Abba Karima (I marzo 1896), nei pressi della cittadina di Adua [3], i cui protagonisti furono un esercito italiano di quindicimila soldati italiani e reclutati localmente circa centomila etiopici, chiuse l’avventura imperialistica dell’Italia crispina [4].

Le forze italiane furono dunque spazzate via nella battaglia svoltasi ad Adua nel 1896 e combattuta contro l’esercito del negus. La sconfitta ricevuta per mano dell’esercito etiopico fu talmente cocente da avere effetti sull’immagine dell’Italia a livello militare e segnò un’iniziale resa sulle mire colonialistiche nel Corno d’Africa. Si tratta della più strepitosa débâcle subita da un esercito coloniale europeo contro truppe locali nel continente africano. Leggendo le pagine di Del Boca, non si riesce quasi a pensare che un esercito possa compiere contemporaneamente parecchi errori grossolani. Migliaia di soldati italiani e migliaia di ascari eritrei che facevano parte dell’esercito italiano furono coinvolti in quella catastrofe: «Con la guerra d’Etiopia, […] la battaglia di Adua del 1° marzo 1896 [fu] una cocente sconfitta che costò la perdita di 300 ufficiali, 4.600 nazionali, 1.000 ascari» [5]. Nello stesso contesto, parlando di questa vittoria etiopica, Falasca Zamponi scrive: «L’imperatore Menelik aveva reagito alla minaccia militare organizzando un forte esercito e nel 1896 aveva inflitto una pesante sconfitta agli italiani ad Adowa, dove l’Italia perse seimila soldati. La sconfitta rimase viva nella memoria popolare e diventò un momento simbolico della lotta coloniale italiana, un’umiliazione da vendicare» [6].

La partenza per l'Etiopia (@Alessio Zanon)

La partenza per l’Etiopia (@Alessio Zanon)

Circa una ventina di anni dopo la sconfitta di Adua e con l’avvento al potere del fascismo, l’Italia continuò a guardare con cupidigia all’Etiopia al fine di «completare il suo impero in Africa orientale» [7]. Tuttavia, «negli anni Venti le condizioni non erano mature per una mossa contro il Negus e, anzi, l’Italia nel 1923 fu costretta ad appoggiare l’ingresso dell’Etiopia nella Lega delle Nazioni e a firmare, nel 1928, un trattato di amicizia con la monarchia africana solo per farla rimanere nella propria sfera di influenza» [8].

L’ossessione di Mussolini divenne quella di conquistare questo Stato africano che faceva parte della SDN: «L’Etiopia divenne, non senza discussioni, membro della Società delle Nazioni il 28 settembre 1923 a condizione che abolisse la schiavitù e il commercio di schiavi e di armi» [9]. Assieme alla Liberia, l’Etiopia era l’unica porzione del territorio africano non assoggettata alla dominazione europea, visto che aveva resistito senza troppo patire alle incursioni italiane alla fine dell’Ottocento battendo l’esercito tricolore in molte battaglie, compresa la disastrosa disfatta di Adua del 1º marzo 1896 come abbiamo già accennato. Quella sconfitta fu usata dalla propaganda fascista per persuadere gli italiani del bisogno di riscattare l’onta ricevuta contro l’esercito del Negus: «La guerra d’Etiopia rispose a un duplice scopo: sul piano nazionale si voleva con essa vendicare la sconfitta di Adua, mentre su quello economico e politico si mirava alla conquista di un più esteso e ricco impero coloniale, fatto che avrebbe annoverato l’Italia tra le grandi potenze» [10].

Arrivò pertanto il fascismo con la sua prosopopea gaglioffa la quale prevedeva di vendicare l’umiliazione subita ad Adua e di edificare un impero partendo dall’occupazione dell’Etiopia. Iniziò pertanto un’altra campagna imperialista italiana in Africa, molto tremenda. I fascisti riuscirono ad occupare l’Abissinia ed ad annetterla all’Impero coloniale italiano per cinque anni: «Nessun Impero della storia è durato così poco quanto quello d’Etiopia […] dal 1936 al 17 maggio del 1941» [11].

Due Fiat 3000 a Addis Abeba (@Roberto Malspina)

Due Fiat 3000 a Addis Abeba (@Roberto Malspina)

Fu un’impresa grandiosa in chiave logistica e la vittoria militare mussoliniana fu incontrastabile agli occhi dell’opinione pubblica nonostante gli ostacoli incontrati: «La campagna militare risultò trionfale. C’erano state senza dubbio delle difficoltà ma erano state superate proprio grazie all’uso di armamenti proibiti e l’Italia aveva conquistato l’impero etiope. Mussolini era riuscito in un’impresa che aveva del fenomenale» [12].

Questa esaltazione imperiale fu per lungo tempo svanita «nelle nebbie dell’oblio storico»[13] Poi, certi lavori di ricerca storici segnarono la caduta di «un velo di imbarazzato e sfuggente silenzio»[14] che provocò una vera e propria rimozione storiografica di un passato coloniale ignoto a molti. Motivo d’orgoglio di tutta la guerra fu l’aspetto logistico il quale espresse al meglio un senso di efficienza e di organizzazione: «l’aspetto più importante riguardò la logistica. Fu messa in piedi una grandiosa organizzazione nella quale niente fu affidato al caso» [15].

L’invasione italiana dell’Etiopia fu una guerra altamente ideologica del fascismo. Il Partito nazionale fascista e tutta la gerarchia, in un modo o nell’altro, si ritrovarono impegnati nella guerra italo-etiopica: dagli intellettuali come Filippo Tommaso Marinetti ai figli di Mussolini, dai militari come Rodolfo Graziani ai semplici legionari della milizia. «La guerra d’Etiopia fu […] una guerra fascista, anzi fu la guerra fascista per eccellenza, la guerra organica al regime, decisa, impostata e condotta secondo esigenze proprie, essenzialmente di prestigio, con un rapporto di forze grandemente favorevole» [16]. Fu pure una guerra per il fascismo cioè fu utile per celebrare la maturità del regime.

Un altro aspetto che etichetta come fascista la guerra italo-etiopica fu l’elevata presenza di uomini, pressoché 50 mila, ripartiti fra sei divisioni («23 marzo», «28 ottobre», «21 aprile», «3 gennaio», «1° febbraio» e «Tevere») e inquadrati nella milizia volontaria per la sicurezza nazionale [17].

Artiglieri ascari e ufficiali italiani a Edaga Hamus  in Etiopia il 21 novembre 1935 (@Pietro Migliaccio)

Artiglieri ascari e ufficiali italiani a Edaga Hamus in Etiopia il 21 novembre 1935 (@Pietro Migliaccio)

Fu nei primi mesi dell’anno 1935 che il duce progettò la campagna di attacco contro l’Etiopia. Sul versante mediatico, il governo operava per rendere entusiasta la partecipazione della popolazione alla guerra. Tanta gente comune in Italia non sarebbe rimasta per niente convinta dell’idea di un imperialismo assolutamente in grado di mantenere le sue enormi promesse. Così, il tanto vantato “entusiasmo spontaneo” per la guerra sarebbe stato in gran parte fabbricato per mano dello stesso regime [18]. Ulteriormente, si parlerà dell’opinione popolare e non di quella pubblica riguardo alla guerra etiopica. L’opinione popolare è inerente ai sentimenti provati dalla gente “comune”. Non ci si soffermerà dunque sui pareri di quanti nel seno del regime fascista erano incontestabilmente soggetti di grande influenza come gli industriali, gli agrari, i banchieri e l’alta finanza, ma piuttosto su quelle dei ceti medio-bassi e sul loro modo di agire dinanzi agli eventi. Basta dare un’occhiata ai giornali di quel periodo per capire che per il duce, nella sua politica espansionistica, era basilare dare l’impressione di parlare in nome di tutto il popolo agli osservatori stranieri. Ne derivava non solo l’esigenza di persuadere gli italiani della bontà della causa bellica ma anche di mobilitare la popolazione in maniera che tale convinzione fosse ovvia a tutto il mondo [19].

Nel 1935, una campagna propagandistica coloniale senza precedenti fu orchestrata dal regime mussoliniano grazie al controllo di mezzi di comunicazione di massa: «Durante la guerra l’Ufficio Stampa e Propaganda, che era un semplice dipartimento alle dipendenze del capo del governo, fu innalzato al grado di ministero e affidato al genero di Mussolini, Galeazzo Ciano. La radio, il cinema, i giornali e le scuole vennero strumentalizzati per conquistare i cuori e le menti degli italiani» [20]. Per merito dell’ accentramento della politica culturale consentita dalla creazione del Ministero per la Stampa e la Propaganda nel 1935, «migliaia di messaggi, alcuni confezionati con sottile malizia altri con efficace rozzezza, raggiungono gli italiani attraverso le 530 mila radio private, gli 11 mila apparecchi posti nelle scuole e nelle sedi di organizzazione del regime, gli 81 quotidiani e i 32 periodi politici, i cinegiornali e i documentari dell’Istituto Luce» [21].

La prospettiva di una guerra, in verità, non fu sempre accolta bene. Alla gente, le giustificazioni governative riguardante l’atteggiamento bellicoso assunto parevano deboli e artificiose. La missione civilizzatrice, tanto posta in risalto nella stampa, con fotografie e articoli volti a mostrare l’arretratezza dello Stato schiavista, non interessava parecchio e non era d’altronde tanto persuasiva [22]. Inoltre, tra la popolazione esistevano notevoli dubbi circa la vera ricchezza che l’invasione dell’Etiopia avrebbe procurato all’Italia. Un arrestato diceva acutamente: «Credi proprio che se ci fossero [in Abissinia] tante buone cose, a quest’ora non se le sarebbero prese la S.D.N. e, specialmente, l’Inghilterra?» [23].

Due soldati italiani insieme ad un ragazzo davanti ad una Autocarretta OM 32 in Etiopia (@Giacomo Iorio)

Due soldati italiani insieme ad un ragazzo davanti ad una Autocarretta OM 32 in Etiopia (@Giacomo Iorio)

La gente si rese conto che la guerra era una guerra violenta, mirante all’invasione di un Paese africano, che le dette provocazioni etiopiche erano unicamente pretesti per dare avvio ad una guerra contro gli abissini, e che la politica seguita dai fascisti rischiava di fomentare una crisi europea di ampie dimensioni [24]. Nelle relazioni dei fiduciari, si parla di “una guerra non sentita” dalla popolazione e particolarmente di una guerra che non risponde in nessuna maniera ai problemi legati all’esistenza quotidiana [25]. Tanti italiani sarebbero rimasti poco persuasi della politica espansionistica fascista, trovando difficile pensare che l’impero fosse in grado di risolvere i dilemmi di un popolo angustiato soprattutto per le difficoltà incontrate nella vita quotidiana [26].

La propaganda espansionistica venne intensificata nel giorno della dichiarazione di guerra, il 2 ottobre 1935. In occasione della grande adunata nazionale tenutasi in quella data e a cui partecipò molta gente convocata per sentire tramite i microfoni accesi dell’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche [27]) » il discorso del duce, l’intenzione principale del regime era quella di mostrare a stranieri che una probabile guerra sarebbe stata una guerra voluta e intensamente sostenuta da tutto il popolo italiano.

È evidente che, il 2 ottobre, nei giornali si parlava di oltre venti milioni di partecipanti alla manifestazione “tutti stretti intorno al Duce” e, anche prendendo in considerazione le esagerazioni della stampa fautrice del regime, è certo che le piazze italiane furono davvero colme di gente. Il medesimo tono trionfale adoperato dai giornali veniva adottato da tante relazioni dei fiduciari. Complessivamente, il regime metteva in rilievo il numeroso pubblico radunato in piazze italiane, la piena partecipazione di tutti gli italiani al raduno organizzato e il loro entusiasmo spontaneo. Una diligente lettura di certe fonti riferite al grande raduno dovrebbe consigliare una certa precauzione [28]. È vero che molta gente scese in piazza, ma non sempre, pare, per istintiva devozione al regime fascista. I capi dei gruppi rio­nali distribuirono in tutte le città quella che in quel momento era chiamata la “cartolina precetto” ossia la cartolina di convocazione all’insieme dei tesserati in cui era sottolineata la partecipazione obbligatoria all’adunata e le ripercussioni per il tesserato di una presumibile assenza: si distribuì «quella che allora veniva chiamata la « cartolina precetto » (la cartolina di convocazione ) a tutti i tesserati, nella quale veniva sottolineato l’obbligo di partecipazione per il tesserato di un’eventuale assenza (multe, [ …] procedimento disciplinare […] gravi sanzioni […]; e altrettante pressioni vennero esercitate all’interno dei sindacati fascisti)» [29]. La cartolina portava, evidentemente, il nome dell’individuo “precettato”, insieme al numero di tessera.

L’obbligatorietà dell’adunanza non sfuggiva ai giornalisti forestieri. Quando venne interrogato sulle sue impressioni riguardo all’adunata, un giornalista che scrive per il “NewYork Sun” rispose: «Certamente è stata un’adunata molto ben preparata e con carattere obbligatorio, ma sarà un’adunata sincera? In un regime totalitario, dove non sono ammessi pareri discordi, dove non ci sono che giornali fascisti, dove non è possibile manifestare pubblicamente i pareri, la storica adunata del popolo italiano deve lasciare ad un osservatore neutro un dubbio tormentoso» [30]. Parlando dell’adunata, un altro giornalista inglese definiva gli italiani “un popolo di reclusi, condannato all’entusiasmo” [31].

Il quotidiano coloniale etiope Corriere Sudetiopico a Harar nel 1936 (@ Pietro Migliaccio)

Il quotidiano coloniale etiope Corriere Sudetiopico a Harar nel 1936 (@ Pietro Migliaccio)

Un fiduciario constatava che la folla la quale si trovava ai margini di Piazza Venezia, e più oltre, nel corso del discorso altisonante del duce, non si è espressa in segni di approvazione e di entusiasmo, ma ha sentito il discorso stesso compostamente e silenziosamente, quasi raffigurasse più un incubo che un’esortazione [32]. Secondo l’impressione di molti, la manifestazione e l’animazione inconsueta che è seguita, non furono frutto di esaltazione, quanto invece di uno stato di preoccupazione e di agitazione [33]. Un po’ di freddezza in piazza era stata notata da un fiduciario a Milano; un altro annotava la calma estrema regnata nel corso della stessa adunanza, anche le manifestazioni di giubilo e di osanna sono state tanto parche. Un terzo affermava che «la maggioranza si è recata [in piazza] temendo rappresaglie»[34]. A Brescia era notata «alquanta freddezza fra quei cittadini radunati nella piazza principale per ascoltare il discorso del Duce» [35]; a Cremona si scriveva in modo diretto a Mussolini: «all’adunata sono venuti perché avevano paura di bastonate o di rappresaglie; gridavano, non per entusiasmo, ma perché erano stanchi di aspettare» [36]. Un altro fiduciario riferiva che « negli ambienti cattolici si è commentata l’adunata di mercoledì sera, dicendo che difettava l’organizzazione, e che fu una cosa forzata per tutti, inquantoché il popolo ed i singoli cittadini vi parteciparono perché obbligati giacché altrimenti non vi sarebbero andati affatto» [37]. Dalla testimonianza di tanti documenti si ebbe l’impressione di un popolo – o almeno di una parte di esso – che si muove per obbligo, in maniera quasi passiva e rassegnata, senza entusiasmi, più preoccupato che patriottico. I mugugni sono molti. Ma ciò che è ovvio è che la macchina di mobilitazione di massa è capace comunque di andare avanti; la dittatura ha gli strumenti per «irreggimentare la gente e portare le masse in piazza qualunque sia il loro sentimento verso la guerra» [38].

Il 3 ottobre 1935 ci si scagliò contro l’impero d’Etiopia. L’attacco che aveva rovesciato un’onda immensa di orrore sulla popolazione di quello Stato non fu preceduto da nessuna dichiarazione ufficiale di guerra e al principio delle ostilità, le truppe abissine non erano ancora completamente in linea e nemmeno addestrate o inquadrate [39]. L’esercito italiano fu nettamente più forte di quello etiopico. Quello non era efficace: gli alti comandanti in differenti casi avevano una conoscenza bellica tradizionale; la maggioranza degli uomini era stata mobilitata in fretta; tante delle armi facevano parte dei residui di Adua; i pezzi d’artiglieria erano pochi e pure gli autocarri efficienti si contavano sulla punta delle dita; l’arma contraerea e quella aeronautica erano inesistenti [40]. Gli uomini che erano chiamati alle armi erano strappati alla vita campestre, non venivano addestrati e non avevano la minima idea di che cosa fosse un ordine o la disciplina militare. La massa non era predisposta a questa guerra moderna, e neanche i capi erano valenti condottieri, più assuefatti a fare gli amministratori e non i guerrieri malgrado che non difettassero i conflitti interni [41]. Il negus tentò di radunare un corpo composto da ufficiali professionisti, ammaestrati da parte di istruttori forestieri, da inserire all’interno della guardia imperiale, ma la decisione venne presa molto tardivamente. La scuola militare di Olettà ubicata a trenta chilometri da Addis Abeba, venne inaugurata soltanto nell’aprile del 1935 e vi ebbero accesso circa centoquaranta giovani che tuttavia non terminarono neanche il primo corso di sei mesi [42].

il ras Guksa davanti al castello di Macallè il 25 novembre 1935 (@Pietro Migliaccio)

il ras Guksa davanti al castello di Macallè il 25 novembre 1935 (@Pietro Migliaccio)

Si diede avvio alla guerra fra l’Italia e l’Etiopia sotto il comando del generale Emilio De Bono all’alba del 3 ottobre 1935: «Il 3 ottobre 1935 Mussolini aveva dato ordine al generale De Bono di varcare il confine e marciare su Adua e Adigrat» [43]. Quasi centodieci mila uomini appartenenti alle truppe italiane e dislocati in Eritrea valicarono un fiume dell’Africa orientale: il 3 ottobre il Reale Esercito, alla guida del Generale Emilio De Bono, Quadrumviro della Marcia sulla capitale italiana, dall’Eritrea varcava il fiume Mareb ed entrava in territorio etiopico. Cominciava così la guerra la quale sarebbe finita rapidamente dopo sette mesi il 5 maggio del 1936 con l’entrata in Addis Abeba delle truppe italiane comandate dal Generale Pietro Badoglio. Fu spesso denominata «guerra dei sette mesi»:

«Il 5 maggio 1936- XV, dopo circa sette mesi di guerra sull’Altopiano e sul Bassopiano, l’impresa africana affrontata, condotta e vinta dal Popolo italiano agli ordini del Duce, contro un nemico numerosissimo e ottimamente armato e malgrado l’inaudito assedio economico di cinquantadue nazioni, si concludeva con il trionfo di Roma. L’esercito e i Legionari dell’Italia fascista, dopo una rapida marcia, da Dessiè entravano ad Addis Abeba abbandonata dal Negus disertore ed in preda al saccheggio dei banditi abissini. Nello stesso giorno il Duce dal balcone di Palazzo Venezia, annunciava all’Italia e al mondo, che l’impresa da lui ideata e diretta, era compiuta» [44].

La presa della capitale etiopica dalle truppe di Badoglio il 5 maggio 1936 segnò la conclusione dell’azione militare e la volontaria fuga del monarca dell’Etiopia per portare la causa dell’Abissinia all’attenzione della famosa Società delle Nazioni [45]. Le richieste del negus restarono tuttavia inascoltate. Fin dal quinto giorno guerresco, gli italiani presero possesso della linea Adua-Adigrat senza tante difficoltà penetrando in territorio etiopico per alcune decine di chilometri [46]. Nel primo giorno bellico, le artiglierie restarono inutilizzate mentre le retrovie e le masse nemiche vennero bombardate dall’aviazione. Ci furono varie battaglie di poco conto durante le quali gli italiani persero soltanto cinque nazionali; ras Sejum ubbidì all’ordine imperiale di tirarsi indietro [47].

Dopo l’inizio dell’ostilità contro il suo Paese, il negus Hailè Selassiè dinanzi alla politica italiana sempre più impetuosa reagì con fulmineo ardimento facendo appello alla Società delle nazioni che condannò l’Italia il 10 ottobre 1935, cioè dopo una settimana dall’inizio delle ostilità: «Il 7 ottobre la Società delle Nazioni dichiarò l’Italia aggressore e pochi giorni dopo votò le sanzioni» [48]. Si trattò dell’unica presa di posizione effettiva in difesa dell’Abissinia. Le sanzioni di tipo economico, entrate in vigore in data del 18 novembre e revocate il 4 luglio del 1936, colpirono solo parzialmente l’economia italiana [49].

Gli etiopi vennero affrontati in cinque grandi scontri campali in cui gli italiani ebbero sempre una ragguardevole superiorità in armamenti e uomini. Le armate dei ras vennero sconfitte una alla volta in combattimento, e vennero gravosamente colpite dal cielo dall’aeronautica e da terra dalle bande di Azebò Galla nelle ritirate [50]. Mussolini si sporse dal balcone di Palazzo Venezia dinnanzi ad una folta folla il 9 maggio 1936 per proclamare che l’Italia aveva infine il suo impero: con un trionfo propagandistico, il duce annunciava solenne alla nazione «il ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma» [51]. La campagna etiope finì con una vittoria chiara e inconfutabile dell’Italia, essendo grande la discrepanza nelle relazioni di forze tra le due parti in causa, e con la successiva proclamazione dell’impero.

L'Imperatore dell'Etiopia, Hailè Sellassié

L’Imperatore dell’Etiopia, Hailè Sellassié

Fu un’impresa gigantesca e una guerra che comportò un enorme dispendio di risorse e denaro mobilitato dal regime mussoliniano. Dato che la guerra, nelle intenzioni di Mussolini, doveva recare prestigio allo Stato italiano e lustro al regime fascista, non ci si poteva in nessuna maniera consentire che l’operazione si concludesse con uno smacco.

Con la guerra contro l’Etiopia, si contò su un afflusso di mezzi, uomini e armi mai messa in opera nei conflitti coloniali a cui l’Italia aveva preso parte precedentemente. Il 3 ottobre 1935, all’esplosione del conflitto, ci furono più di centodiecimila soldati italiani sul fronte nord e altri venticinque mila sul fronte meridionale. Fra il gennaio e il febbraio dell’anno seguente, i numeri, con l’arrivo dei complementi, crebbero ancora 55. Nel maggio del 1936, risultavano coinvolti al momento dell’ingresso in Addis Abeba «330.000 militari italiani, 87.000 ascari [e] 100.000 lavoratori italiani militarizzati»[52] .

Fu la prima volta nella storia bellica coloniale che un esercito europeo intraprese una campagna di tipo militare con un massiccio numero di soldati mai impiegato da altri conquistatori europei di Paesi africani: «Nessuna invasione britannica, francese o portoghese in Africa ha mai visto mezzo milione di soldati impiegati contemporaneamente come nel caso dell’invasione dell’Etiopia, dove c’erano 500.000 italiani al fronte”, afferma Nicola Ertola» [53] Si usarono «609 cannoni, 119 mortai d’assalto, 20 bombarde, 56 carri armati leggeri, 235 autoblindo e autocarri armati» [54]. L’armamento dell’esercito italiano era dunque decisamente moderno. Il regime fascista adoperò tutta la tecnologia guerresca più avanzata dell’epoca: «l’Italia mobilitò in Etiopia quasi mezzo milione di soldati, con un impegno finanziario e logistico senza precedenti nella vicenda mondiale del colonialismo»[55].

La vera innovazione rispetto ai tempi passati, tuttavia, consisteva nell’aviazione: «a partire dal 1936 (guerra coloniale contro l’Etiopia), l’aviazione è stata presente, in quanto componente indispensabile delle guerre moderne» [56]. I costi dell’operazione completa con il massiccio impiego di strumenti meccanici e il ricorso all’aviazione furono imponenti, in quanto «materiali di ogni genere (comprese 23 000 tonnellate di legname, 30 000 tonnellate di cemento[57], 821 milioni di cartucce per fucili e mitragliatrici, 4 milioni di proiettili per artiglieria [e] centinaia di tonnellate di iprite» [58] ) dovevano essere portati direttamente dall’Italia. Fra il 1935 e il 1939, per la conquista e l’occupazione dell’Etiopia, l’Italia spese «circa 73 miliardi di lire» [59].

I crimini bellici in Etiopia furono tanti. Aksum fu posto sotto assedio dalle truppe italiane il 15 ottobre 1935 e il colossale obelisco che decorava la città venne rubato per essere mandato a Roma affinché fosse innalzato dinanzi alla sede del Ministero delle Colonie che stava per essere costruito, sede centrale in seguito della Fao (Food and Agriculture Organization) [60].

Il massacro di Addis Abeba  nel 1937 (@ANPI Grugliasco)

Il massacro di Addis Abeba nel 1937 (@ANPI Grugliasco)

Riguardo ai crimini relativi all’invasione italiana furono tre gli episodi particolarmente significativi sottolineati da Del Boca: la guerra di Abissinia fu nota per l’uso di aggressivi chimici consistenti in gas micidiali e vietati conformemente al «Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925, relativo al divieto di impiego in guerra di gas asfissianti, tossici o similari» [61]. A questo proposito, «l’Italia fascista […] nel 1935 usò l’iprite ed altre armi chimiche durante l’invasione dell’Etiopia; ignorando il Protocollo di Ginevra firmato il 17 giugno 1925 l’aviazione militare italiana, autorizzata da Mussolini, ha utilizzato ingenti quantità di iprite, fosgene, arsine» [62].

Infatti, per avere la meglio sui ribelli abissini si riversò una quantità massiccia di agenti chimici pericolosi, come le centinaia di tonnellate di gas letale e più precisamente di iprite lanciate dagli aerei italiani sulle truppe etiopiche e proibite da tutte le convenzioni internazionali: «Benché l’accusa sia stata a lungo smentita in forma ufficiale e dagli stessi combattenti, è ormai appurato che in varie occasioni gli italiani fecero uso, sia nel fronte nord che in quello sud, di gas vescicanti, in particolare dell’iprite. In Etiopia venne usata […] come carica di bombe d’aereo, con spoletta a tempo regolata per esplodere a circa 250 metri d’altezza. Furono lanciate bombe per un totale di oltre 250 tonnellate di iprite» [63].

Si sparsero ampiamente i gas tossici non soltanto sugli eserciti abissini ma specialmente sui civili, come documenta una dolorosa testimonianza dell’imperatore d’Abissinia, Hailè Selassiè che disse:

«Ogni essere vivente che veniva toccato dalla leggera pioggia caduta dagli aeroplani, che aveva bevuto l’acqua avvelenata o mangiato cibi contaminati, fuggiva urlando e andava a rifugiarsi nelle capanne o nel folto dei boschi per morirvi. C’erano cadaveri dappertutto, in ogni macchia, sotto ogni albero […]. Non si poteva pensare di seppellire i cadaveri, perché erano più numerosi dei vivi. Bisognò adattarsi a vivere in questo carnaio. Nel prato vicino al nostro Quartier generale, a Quoram, più di 500 cadaveri si decomponevano lentamente» [64].

Quando Graziani fu nominato Viceré d’Etiopia a causa dell’adozione di una politica intensamente opprimente nei confronti dei locali, fu rinsaldata la resistenza partigiana e il viceré subì un tentativo di attentato. Graziani organizzò una cerimonia il 19 febbraio 1937 alle undici davanti alla propria residenza invitando eminenti ospiti della comunità etiope per celebrare la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia, un rito tenutosi nella capitale dell’Africa orientale italiana nel giorno della Festa della Purificazione di Maria Vergine, a seconda del calendario alessandrino e da allora considerato giorno di cordoglio nazionale. Alla cerimonia furono presenti le maggiori autorità militari e civili italiane tra le quali il generale Italo Gariboldi che assunse l’incarico di capo di Stato Maggiore delle forze armate italiane nell’Africa orientale italiana, i notabili locali, i ras etiopi, l’abuna Cirillo dalla tonaca nera e dalla barba nivea insieme agli altri capi della Chiesa copta, gli ufficiali italiani e le gentili signore [65]. Assistettero alla cerimonia anche quasi tremila poveri etiopi:

«Per onorare la nascita del principe di Napoli, Graziani dispose che il venerdì 19 febbraio 1937, alle ore 11, fossero riuniti nel giardino della sede del governo generale tutti i poveri di Addis Abeba, nonché i capi delle diverse chiese e comunità, compresi i musulmani» [66]. A quei poveri, come necessitava il rituale, sarebbero stati consegnati talleri argentei, visto che la moneta parallela dell’Abissinia era costituita dal tallero di Maria Teresa raffigurante il profilo dell’imperatrice austriaca e poi quello coniato da Menelicche e ancora il tallero con l’effigie del celebre Vittorio Emanuele. I cinquemila talleri preparati da Graziani erano attesi da ognuno dei poveri: « il 19 febbraio 1937 (12 yakkatit 1929) […] per festeggiare pubblicamente la nascita, avvenuta il 12 febbraio, del principe di Napoli e “principe dell’impero” Vittorio Emanuele di Savoia, il viceré decise di distribuire, al palazzo vicereale di Gannata Le’ul, nel recinto del Piccolo Gebbi, cinquemila talleri a circa tremila poveri di Addis Abeba, secondo l’usanza etiopica praticata nelle solenni festività religiose» [67].

Due giovani studenti eritrei appartenenti alla resistenza etiope, Mogus Asghedom e Abraham Dobotch, si introdussero segretamente nel palazzo imperiale di Ghebì con l’aiuto del tassista Semeon Adefres, si mescolarono agli ospiti e compirono l’attentato pianificato e preparato lanciando sette granate ; si diedero poi immediatamente alla fuga, sostando probabilmente qualche ora nel villaggio conventuale del Dabra Libanos» [68]. Si scagliarono dalla balconata bombe a potenziale ridotto e di tipo Breda: «Mentre Graziani si apprestava a parlare della gradinata antistante il ghebì, furono lanciate contro di lui in rapida successione sette – otto bombe a mano di tipo Breda (la versione definitiva parla di quindici – venti bombe, ma ci atteniamo al primo rapporto dei carabinieri, meno influenzato da esigenze propagandistiche» [69].

Rodolfo Graziani fu gravemente ferito, raggiunto da 350 schegge all’emitorace destro, agli arti superiori e inferiori destri»[70]. Il maresciallo venne trasportato all’ospedale della Consolata in cui fu ricoverato [71].

Dopo che fu soggetto all’attentato bombarolo sopra descritto e al quale per un pelo sfuggì, il Viceré dell’Abissinia ed ex governatore generale della Libia italiana Graziani, avido di rivalsa, ordinò una rappresaglia, la rappresaglia di Addis Abeba del 19 febbraio 1937» [72].

In seguito al fallito attentato subito da Graziani, nel telegramma mandatogli il 5 luglio del 1936 da Mussolini, si ordinò di ammazzare l’insieme dei ribelli già catturati, di uccidere i resistenti ricorrendo ai gas e di mettere in atto una politica di sterminio e di terrore: «L’8 luglio 1936 […] era stato […] Mussolini a mandare a Graziani un telegramma segreto (il n.8103) in cui era scritto : “Autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici stop. Senza la legge del taglione ad decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma. Mussolini”» [73].

zhistoricaCosì con la strage programmata, la milizia fascista venne lasciata libera di colpire in maniera indiscriminata tutti coloro che capitarono sotto le sue grinfie al fine di dare un segnale potente dell’egemonia dei bianchi sui neri in termini di incondizionato dispregio della vita e della dignità degli etiopi. Si provvide pertanto ad una repressione sanguinante del popolo del luogo che durò tre giorni: «Ai soldati italiani fu dato ordine di fare giustizia sommaria. Addis Abeba, la capitale etiopica, fu così messa a ferro e fuoco e centinaia di abissini furono uccisi, mentre le loro capanne venivano incendiate senza pietà» [74].

Il ventidue febbraio il maresciallo Graziani scrisse al duce: «In questi tre giorni ho fatto compiere nella città perquisizioni, con ordine di passare per le armi chiunque fosse trovato in possesso di strumenti bellici, che le case relative fossero incendiate. Sono state, di conseguenza, passate per le armi un migliaio di persone e bruciati quasi altrettanti tucul» [75]. Si trucidarono brutalmente abissini il cui numero rimase un enigma irrisolto: «Nessuno ha mai stilato un bilancio preciso degli etiopici che sono stati uccisi dal 19 al 21 febbraio 1937. Si va da un minimo di 1400 a un massimo di 30000, a seconda delle fonti» [76].

La spietata rappresaglia volutamente incontrollata e «la più imponente e cruenta della storia del fascismo» [77] partì da Addis Abeba. Questa sproporzionata rappresaglia coinvolse militari, miliziani e civili a cui si diede carta bianca e che si macchiarono di impetuose violenze di ogni genere in un terribile clima di totale impunità: «gli squadristi fecero uso di camion militari e lanciafiamme, altri, sprovvisti di mezzi, procedettero a piedi e agirono con armi improvvisate, come pale, assi, coltelli, bastoni, manovelle di avviamento di veicoli. (…) oltre 4.000 incendi di case, mentre i residenti ancora intrappolati furono tratti fuori e colpiti, o uccisi con baionette o bastonati a morte, altri furono gettati dai ponti o investiti dai veicoli, o trascinati a morte dietro di essi. Addis Abeba […] fu messa a ferro e fuoco, con una vera e propria caccia all’etiopico e ripetuti massacri» [78].

Nello stesso contesto, sempre in riferimento alla feroce strage compiuta sulla popolazione impotente di Adis Abeba, l’inviato speciale del giornale “Corriere della Sera » ad Addis Abeba, Ciro Poggiali, scrive nel proprio diario: 

«Tutti i civili (italiani) che si trovano in Adis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico “squadrismo fascista”. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada […]. Inutile dire che la rappresaglia si compie su gente ignara e innocente» [79]

Insieme alla rappresaglia sopradescritta, ci fu quella dei militari. Questi rinchiudevano 4.000 etiopi in improvvisati campi di concentramento e incendiavano i vasti agglomerati di tucul lungo i due fiumi che attraversavano la città. La mattina dopo Alfredo Godio osservava il transito di camion «sui quali erano accatastati, in un orribile groviglio, salme di abissini uccisi» [80] e cadaveri bruciati : «Da Piazza 5 maggio all’Ospedale americano se ne erano salvati ben pochi di tucul» ricordava a sua volta il vercellese Alfredo Godio, che l’indomani mattina attraversava il quartiere. […] fra le macerie c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi, sulla strada per Ambò, vidi passare molti autocarri “634” sui quali erano stati accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi» [81]

I diplomatici stranieri documentarono la sfacciata crudeltà della soffocante repressione ordinata da Mussolini per mezzo delle loro macchine fotografiche: «diplomatici stranieri di Addis Abeba sono in movimento armati di macchine fotografiche per fissare le immagini più crudeli della strage» [82]. Ciò spinse Graziani ad ordinare l’interruzione della rivalsa brutale dispiegata dai suoi seguaci dal suo letto ospedaliero a partire dalle ore dodici del ventuno febbraio:

«Il 21 febbraio, Graziani, preoccupato per i diplomatici stranieri armati di macchine fotografiche, autorizzò il colonnello Mazzi ad inviare al federale Cortese un fonogramma per la cessazione delle rappresaglie. Il federale fece diffondere un volantino: “camerati! Ordino che dalle 12 di oggi cessino le rappresaglie e che dalle 21.30 i fascisti debbono ritirarsi nelle proprie abitazioni”» [83].

Furono fatte tante stime del numero delle vittime dell’ecatombe. Secondo lo storico Angelo Del Boca, uno dei più importanti esperti del fenomeno del colonialismo italiano nel Corno d’Africa, le disgraziate vittime di quei terribili giorni ammontarono a qualche migliaia. Lo storiografo Ian Campbell ritenne che erano state ventimila, mentre le autorità etiopiche sostennero sempre la strage di ben trentamila persone. In realtà, non venne mai guidata una ricerca indipendente e internazionale che consentisse la concreta verifica del numero effettivo di caduti. Il dato di base però rimase lo stesso: fu compiuto un massacro immenso.

«Nonostante il più facile accesso agli archivi militari e coloniali, e al cosiddetto “Fondo Graziani”, non vi è concordanza sull’esatto numero di vittime causate nella repressione di Addis Abeba. Gli etiopi, fin dal settembre 1945, quando presentano un Memorandum al Consiglio dei ministri degli Esteri riunito a Londra, parlano di circa 30.000 morti, mentre i giornali francesi e americani fornirono cifre oscillanti fra i 1.400 e i 6.000 morti. Le cifre fornite dallo stesso Graziani nei suoi rapporti con Mussolini, indicano in circa un migliaio le persone passate per le armi e altrettanti tucul bruciati nei giorni del massacro [...]. Uno dei maggiori storici del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, stima in circa 3.000 le vittime dei […] tre giorni di violenza ad Addis Abeba, cifra ripresa anche dall’inglese, Anthony Mockler, e dallo storico Giorgio Rochat, che però ipotizza che la cifra potrebbe essere più alta, tra 3 e 6.000, come lascerebbero intendere le carte del “Fondo Graziani”, le quali non permettono però un calcolo documentato. Nel recente Il massacro di Addis Abeba Ian Campbell applica tre diverse metodologie di stima che portano congiuntamente, all’ipotesi di circa 19.000 vittime, includendo in tale numero anche le uccisioni [...] avvenute nelle settimane seguenti» [84]

cronache-ribelliDopo quei tre giorni sanguinosi e spaventosi, Graziani propose a Mussolini di deportare in Italia i notabili per allontanare la classe dirigente etiope. Il duce aderì alla proposta del suo generale di confinare in Italia l’insieme dei notabili tuttora incarcerati dal 19 febbraio nell’area sotterranea del palazzo del Maresciallo Graziani [85]. Così quattrocento aristocratici etiopi, inclusi donne e alcuni bambini, vennero deportati sull’isola dell’Asinara in due tranche. Quelli di livello minore, invece, furono internati nei campi di concentramento situati sull’isola di Nocra dalle condizioni di vita durissime e nel villaggio di Danane. La metà di loro avrebbe perso la vita per denutrizione o per malattia [86].

Il bagno di sangue non si fermò il 21 febbraio del 1937 e la vendetta italiana proseguì implacabile a distanza di qualche mese dall’attentato. Infatti, il Maresciallo Graziani affidò il compito di far piazza pulita del clero copto al generale Pietro Maletti e ordinò una spedizione punitiva nei confronti della città santa di Debrà Libanòs: 

«Presso il monastero copto in Etiopia si radunarono infatti a partire dal 20 maggio 1937 per una festività religiosa migliaia fra monaci, preti e pellegrini ortodossi, che nella settimana successiva vennero barbaramente trucidati dalle truppe italiane comandate dal generale Pietro Maletti, per ordine del viceré Rodolfo Graziani. Il massacro dei religiosi fu solo l’ultima in ordine di tempo delle efferate conseguenze del fallito attentato allo stesso Rodolfo Graziani qualche mese prima, precisamente il 19 febbraio 1937» [87]

I religiosi di Debrà Libanòs trucidati furono accusati di proteggere gli esecutori dell’attentato di Addis Abeba: «[Ci] fu proprio il sospetto del viceré che il monastero avesse dato rifugio agli attentatori, sfuggiti alla vendetta consumatasi a partire dal giorno successivo all’attentato» [88]. Quando arrivarono alla destinazione, le truppe ricevettero un telegramma inviatogli dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani nel quale si ordinò di passare «per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore» [89]. L’operazione ebbe l’obiettivo di colpire in modo definitivo l’anima e il cuore del paese africano [90], con il pretesto di una mai attestata copertura agli attentatori da parte dei monaci abissini [91]. I residenti furono trucidati in circa una settimana; nell’ultimo giorno della strage furono fucilati pure i centoventisei giovani diaconi risparmiati all’inizio. Il viceré fece sapere al duce che si sterminarono monaci copti e preti disarmati. Il numero degli uccisi fu importante: «La […] liquidazione […] al di là delle dichiarazioni ufficiali italiane, colpisce a morte da 1423 a 2033 persone, tra monaci, diaconi e pellegrini» [92]

Insieme ai crimini bellici descritti in precedenza, ci fu un crimine sociale commesso dal regime coloniale italiano e che consistette nell’avvio di una politica fortemente razzista ispirata ad un’ideologia fascista secondo cui la razza italiana che venne a contatto con un insieme di altre razze, doveva proteggersi da qualunque contaminazione ed ibridazione: «la conquista dell’Etiopia segnò l’avvio del razzismo fascista, specialmente dopo la promulgazione di un codice di comportamento che regolava i contatti sociali e sessuali tra gli italiani e gli africani» [93].

La politica di discriminazione razziale istituita dall’Italia prima della conquista dell’Etiopia nelle altre colonie africane cioè in Somalia, in Eritrea e in Libia aveva rinvenuto un limite nella pratica del madamato per cui, per il periodo nel quale rimaneva nella colonia, il colonizzatore bianco teneva da sé una convivente-serva di origine africana, utilizzata come domestica e sfruttata sessualmente. Durante la fase iniziale della colonizzazione italiana antecedente a quella etiopica, il fenomeno fu accettato, se non talvolta incoraggiato, da parte dei comandi militari i quali lo prediligevano rispetto al rapporto con le call-girl per motivi sia sanitari che per la più grande stabilità di vita concessa ai diversi militari a cui era vietato di far venire la loro moglie in colonia:

«Il madamato si affermò nell’Africa Orientale Italiana sin dall’inizio dell’esperienza coloniale, ma soltanto all’indomani della guerra di Etiopia del 1935, divenne per il governo fascista un problema difficile da risolvere, anzi una pratica […] da vietare e reprimere con la legge. Eppure all’inizio dell’esperienza coloniale, in particolare con la conquista dell’Eritrea (1885-96), il madamato fu incoraggiato dai nuovi conquistatori soprattutto nei confronti degli ufficiali. Il motivo dichiarato era di proteggere questi ultimi dal contagio di malattie veneree, inoltre, era considerato disdicevole che gli ufficiali frequentassero bordelli e donne in promiscuità con i semplici soldati» [94].
Il regio Decreto n. 880, aprile 1937 (@Storia coloniale negata)

Il regio Decreto n. 880, aprile 1937 (@Storia coloniale negata)

I figli venuti al mondo da convivenze chiamati meticci erano generalmente abbandonati alle loro madri nel momento in cui i loro padri lasciavano la colonia [95]. Soltanto alcuni di loro, educati in missioni spettanti all’Italia o riconosciuti dai loro padri, avevano la possibilità di sperare di condurre una vita migliore attraverso l’acquisto della cittadinanza italiana [96]. Occupata l’Etiopia, proprio a sfavore della pratica dei figli meticci e del madamato, il regime segregazionista attuato dal fascismo impostò la sua battaglia per salvaguardare la purezza della razza italiana di fronte ai miscugli sanguigni tramite l’applicazione di un insieme di norme e pratiche esplicitamente razziste e discriminanti.

La necessità di una purezza razziale spinse il fascismo, dopo la proclamazione imperiale, a diffondere l’immagine della donna africana dalla pelle scura immonda, maleodorante e sofferente di gravi malattie veneree come la sifilide. L’antropologia razziale di Lidio Cipriani degli anni Trenta la coadiuvò e, osteggiando la tesi sostenitrice dell’evoluzionismo, affermò l’impossibilità di un’evoluzione dei neri per presunti motivi biologici. Secondo Cipriani, l’inferiorità mentale delle donne della “razza negra” confinava sovente con una deficienza vera e propria e i loro comportamenti si accostavano più a quelli delle bestie che a quelli degli esseri umani e per questo, era necessario vietare le unioni miste [97].

La Corte d'Appello di Addis Abeba, 31 gennaio 1939 (@Rolando Dubini)

La Corte d’Appello di Addis Abeba, 31 gennaio 1939 (@Rolando Dubini)

Appena invasa l’Etiopia, Mussolini che temette la presenza dei mulatti e la propagazione di una razza mista intermedia fra colonizzati etiopi e coloni italiani telegrafò a Graziani e Badoglio: «Per parare sin dall’inizio i terribili et non lontani effetti del meticismo disponga che nessun italiano – militare aut civile – può restare più di sei mesi nel vicereame senza moglie» [98]. Per lottare contro il fenomeno della procreazione di meticci, il regime provava pure a persuadere spose italiane a seguire i loro mariti per evitare che questi ultimi, presi da sentimenti di sconforto e nostalgia, potessero essere prede dello scandalo di probabili accoppiamenti con femmine locali e della nefasta riproduzione di mulatti [99]. Furono proibite le unioni ibride avviando un concreto regime di discriminazione razziale, vale a dire un vero e proprio modello di apartheid che sarebbe poi sfociato nell’applicazione delle tristi leggi razziali discriminatorie emanate in Italia [100]. In questo orribile contesto di segregazione razziale, nacquero le norme contro i mulatti, motivo dell’inquinamento razziale nel giugno del 1936. Il 19 aprile dell’anno successivo, si promulgò il Regio Decreto n. 880 riguardante «sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi» [101]. Fu composto di un unico articolo e infliggeva la pena della detenzione da uno a cinque anni di prigione «il bianco sorpreso in relazione di indole coniugale con persona suddita» [102]. Fra i civili puniti, ci fu un operaio italiano che venne condannato il 20 maggio 1938 da parte della Corte d’Appello di Addis Abeba a tre anni e due mesi per aver convissuto con una galla che aveva solo tredici anni. Per impedire sempre le relazioni tra italiani ed etiopiche, per i postriboli venne instaurata una politica di segregazione razziale con l’introduzione di postriboli dedicati ai clienti italiani in cui ci furono unicamente donne italiane di pelle chiara. 

Ogni tentativo di creare lupanari con sole prostitute di razza bianca non diede grandi risultati [103]. Negli anni seguenti, la discriminazione razziale nelle colonie italiane dell’Africa orientale rinvenne una nuova linfa nella legislatura razziale italiana dell’anno 1938 quando una ventata di arresti e un’ondata di denunce colpì i rapporti fra indigene proseguite segretamente e italiani [104].

Nel 29 del mese di giugno dell’anno seguente venne varata la legge razziale n. 1004 tramite la quale la materia fu rielaborata con l’individuazione del nuovo reato di “lesione del prestigio di razza”. Particolarmente, la legge n. 1004 (Sanzioni penali per la difesa del prestigio di razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana) [105] al primo articolo (Lesione del prestigio di razza) comminava: «Agli effetti della presente legge si intende lesivo del prestigio di razza l’atto commesso dal cittadino abusando della sua qualità di appartenente alla razza italiana o venendo meno ai doveri che da tale appartenenza gli derivano di fronte ai nativi, così da sminuire nel loro concetto la figura morale dell’italiano» [106].  Il decimo articolo («Relazione d’indole coniugale») [107] replicava «il divieto delle relazioni d’indole coniugale con i nativi, punendo il relativo reato con la reclusione da uno a cinque anni» [108]. Il dodicesimo articolo («Frequenza abituale in luoghi riservati ai nativi») [109] imponeva al cittadino italiano il quale, «nei territori dell’Africa italiana, frequentasse abitualmente luoghi aperti al pubblico riservati ai nativi (e, quindi, anche bordelli), l’arresto fino a sei mesi o l’ammenda fino a lire 2.000» [110].

Il definitivo accantonamento della situazione del meticciato fu rappresentato dalla legislazione relativa all’anno seguente. La legge n. 822 emanata il tredici maggio del 1940 (Norme relative ai meticci) [111], eliminò ogni speranza ai mezzosangue aggregandoli alla comunità degli indigeni. Difatti, nel primo comma del secondo articolo stabiliva: «Il meticcio assume lo statuto del genitore nativo ed è considerato nativo a tutti gli effetti» [112], mentre nel terzo articolo proibiva il riconoscimento del sanguemisto dal padre cittadino. Il quarto articolo statuiva che non si poteva attribuire al mulatto il nome di famiglia del padre cittadino e l’articolo seguente attribuiva i costi di educazione, mantenimento ed educazione del mulatto «a totale ed esclusivo carico del genitore nativo» [113]. Rilevante fu pure il settimo articolo per cui erano proibite «l’adozione e l’affiliazione di nativi e di meticci da parte di cittadini» [114], nonché il sesto articolo secondo il quale erano «vietati gli istituti, le scuole, i collegi, i pensionati e gli internati speciali per meticci, anche se a carattere confessionale. Gli istituti nazionali non debbono accogliere meticci che possono essere accolti negli istituti, nelle scuole, nei collegi, nei pensionati e negli internati per i nativi. I contravventori sono puniti con l’ammenda fino a lire tremila; può essere inoltre disposta la chiusura degli istituti» [115]. A favore solo di certi meticci e di alcuni mulatti furono rispettivamente il nono e decimo articolo. Il nono, invece, salvava gli 800 meticci che avevano già conseguito la cittadinanza italiana prima dell’anno 1936: «Le disposizioni contenute nei precedenti articoli non si applicano […] ai meticci che godono della cittadinanza italiana» [116]. Sull’impulso, poi, di certi funzionari coloniali inquieti per i loro figli, venne aggiunto il decimo articolo sulla cittadinanza per i meticci dal buon contegno civile e morale che avevano ottenuto un’istruzione italiana.

L’impalcatura di leggi e le consequenziali disposizioni amministrative, ivi comprese il rimpatrio per “indegno comportamento”, il privare gli ufficiali del loro grado e le radiazioni a cui furono esposti i militari non furono sufficienti a eliminare completamente le relazioni sessuali fra donne africane e italiani, né la venuta al mondo dei figli ibridi [117]. Anzi, secondo alcuni, si sarebbe arrivati alla cifra di ben trentacinquemila mulatti al crollo dell’Impero. Ci sarebbero stati fra i loro padri personalità rilevanti come il celebre generale e schermidore Alessandro Pirzio Biroli. Anche con la creazione di « un’apposita “squadra detta di madamismo » [118] che consistette in una specie di polizia del “buon costume” all’interno della PAI (Polizia Africa Orientale) non ci furono grandi mutamenti a consuetudini restie a scomparire.

La concubina indigena dell’italiano non era soltanto capace di appagare necessità sessuali ma procurava compagnia, cura personale, servizi domestici e supporto affettivo [119]. In altre parole, la madama era in una certa maniera capace di regalare «il calore di una casa, un bene di alto valore per uomini che si trovavano a migliaia di chilometri dall’Italia» [120].

Un altro flagello che segnò le relazioni tra italiani ed etiope durante l’occupazione italiana in Etiopia fu quello degli stupri. La magistratura della capitale dell’Etiopia si occupò dei casi di violenza carnale dei quali si macchiarono gli italiani. In uno di essi, la disgraziata vittima era una bimba novenne segregata contro la propria volontà dove abitava il proprio violentatore per vari giorni. L’uomo venne processato per stupro ma non per il delitto di sequestro di persona, ottenendo le attenuanti dato che, in conformità alle abitudini etiopiche, chicchessia aveva la possibilità di portare una bimba lasciata in abbandono a casa [121].

C’erano pure magistrati che trasgredivano la legge convivendo con femmine indigene. È il caso di Della Porta, il conte che presiedeva il tribunale civile di Addis Abeba: conviveva insieme ad una cortigiana del già imperatore d’Etiopia e sembra avesse stretto una relazione perfino con una ex informatrice abissina [122].

Soldati italiani con una mitragliatrice Schwarziose  presso la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, 1938 (@Roberto Malaspina)

Soldati italiani con una mitragliatrice Schwarziose presso la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, 1938 (@Roberto Malaspina)

L’Italia non provocò solo danni agli etiopi compiendo crimini di guerra come il massacro e la tortura ai quali furono spietatamente soggetti civili nel corso del loro dominio. Vi furono anche alcuni contributi positivi dell’occupazione italiana dell’Abissinia. Sul piano economico, gli italiani concorsero allo sviluppo infrastrutturale del Paese africano colonizzato. Per l’Italia, la ferrovia che univa Gibuti ed Addis Abeba costituì un’infrastruttura di straordinaria importanza. « La linea che ha una lunghezza di circa 790 km, ha richiesto 18 anni di lavoro per essere ultimata. Cominciata nel 1897 essa fu completata nel 1903 fino a Dire Daua, la stazione di Harrar, posta a 40 km. da questa città. I primi 103 km. Corrono attraverso la Somalia francese, il resto attraverso il dominio Etiopico. Difficoltà politiche e finanziarie causarono un ritardo nella prosecuzione dell’opera, che solo nel 1909 fu ripresa».[123]

La Francia, la Gran Bretagna e l’Italia siglarono un accordo sulla gestione dei tratti della ferrovia sopramenzionata: «la Francia si riservò la proprietà del tratto fino ad Addis Abeba, la Gran Bretagna avrebbe gestito il tratto dalla Capitale al Nilo e all’Italia era lasciata mano libera per la costruzione di una linea dall’Eritrea ad Addis Abeba»[124]. Quando ha raggiunto il fiume Auasc nel 1911 tutta la ferrovia si inaugurò il 17 giugno dell’anno 1917 [125] .

gianfranco-iannottaSempre per quanto riguarda la messa in luce delle impronte positive lasciate comunque dall’Italia in Etiopia, sul piano sociale, fu abrogata la schiavitù in modo definitivo nella regione del Tigrè conquistata dalle truppe italiane del Generale De Bono: «Il 19 ottobre il generale Emilio De Bono, comandante delle truppe italiane in Etiopia, mise al bando la schiavitù nella regione del Tigrè» [126]. La regione era così denominata dagli Amara [127] i quali l’avevano invasa e questa denominazione significa «sotto il mio piede, cioè “servo”» [128]. Prima di quella data, nell’Etiopia degli anni Trenta era diffuso il flagello atroce della schiavitù. Su quotidiani internazionali, si metteva in risalto l’esistenza di questo fenomeno nell’Etiopia feudale degli anni trenta. Nel giornale inglese “il Times” in data 9 aprile 1932, Lord Noel-Buxton scrisse: «La schiavitù in Etiopia va di pari passo con l’assenza di ciò che noi chiamiamo un regime di governo. Essa è in parte il risultato e in parte la causa della debolezza del meccanismo statale che è poco più sviluppato di quello del Medio Evo» [129].

Nell’anno 1933, secondo quanto riferisce nel volume intitolato Slavery Lady Kathleen Simon,

«L’Etiopia è la regione più arretrata del mondo e colà il problema della schiavitù è urgente: sono esseri umani che divengono una semplice proprietà, proprietà che può essere torturata e venduta sul mercato al miglior offerente; si tratta di mogli vendute, separate dai mariti e viceversa; di madri strappate via dai loro figli che divengono proprietà di un altro. Insomma la schiavitù non riconosce neanche la maternità o la paternità e sancisce il diritto di spezzare le famiglie per ragioni di mercato» [130].

pasquale-santoroUn’eredità notevole ha lasciato l’Italia anche sul piano sanitario. Si riuscì a sconfiggere diffuse malattie endemiche in Etiopia. Prima dell’approdo degli italiani, il vaiolo tolse la vita a tanti individui di Sidamo e del Galla, il tifo con petecchie fu endemico specialmente nella regione storica dello Scioa, la grave malattia di Hansen imperò specialmente a Harar e molte centinaia di non vedenti si aggirarono per l’intero territorio dell’Etiopia frutto dell’infuriare della blenorragia e della sifilide. L’Italia riuscì a realizzare in Abissinia, nell’arco di quattro anni, tra il 1936 e il 1940, quattro laboratori di profilassi ed igiene nella capitale Addis Abeba, a Gondar, a Gimma e a Harar contro la malattia infettiva grave chiamata la sifilide. Ricoveri anticeltici e sifilicomi vennero aperti in numerose località. Forniture continue del farmaco efficace nella cura della gravissima malattia infettiva della sifilide, il “Neosalvarsan”, furono messe a disposizione degli ambulatori, delle infermerie e degli istituti specialistici.

L'abolizione della schiavitù, del 12 aprile 1936 (@Alberto Alpozzi instoriainrete.com)

L’abolizione della schiavitù, del 12 aprile 1936 (@Alberto Alpozzi instoriainrete.com)

Inoltre, furono edificati tre ospedali ad Addis Abeba chiamati “Duca degli Abruzzi” “Luigi Razza” e “Principe di Piemonte”. Il primo di essi era con 300 posti letto mentre ognuno degli altri due ospedali ne conteneva 350. A questi tre ospedali sopraccitati, si aggiungevano un centro ortotraumatologico, un lebbrosario e un ricovero per la maternità e infanzia. Altri ospedali furono quello di Harar contenente duecento posti letto, quelli di Gimma che furono due e con quattrocentocinquanta posti letto per ognuno di essi, quello di Dire Daua, quello di Giggiga e quello di Gondar. La rete composta da ambulatori e da infermerie sovente gestite da personale militare possedeva centoquindici unità. Tutti i medici lavorarono per conto dell’Ispettorato Generale di Sanità con a capo inizialmente il Prof. Basile a cui succedette il Prof. Pisani [131]. Nell’ Istituto per lo studio e la pro-filassi delle rickettsiosi creato ad Addis Abeba nel 1938 [132], fu prodotto un particolare vaccino terapeutico per la cura del tifo esantematico. Usato in dosi massicce e mettendo in atto una fitta rete di disinfestazione mediante carovane mobili sanitarie, il tifo petecchiale in Abissinia fu definitivamente sconfitto nel 1939.

Domenica del Corriere, 20 marzo 1938 (@Antonio D'Accurso)

Domenica del Corriere, 20 marzo 1938 (@Antonio D’Accurso)

Il comportamento degli italiani prima del crollo del fascismo fu dunque segnato da alcuni (pochi) lati positivi e molti aspetti negativi manifestatisi in parecchi crimini come abbiamo già visto. Il regime prese atto dello smacco della «politica delle maniere forti alla Graziani» [133] che fu la causa della terribile lezione inflitta al clero etiopico e giocò a sfavore della pace coloniale. Venne destituito dal suo incarico di viceré d’Etiopia da Mussolini e sostituito nel dicembre del 1937 da Amedeo d’Aosta che promosse un nuovo e diverso approccio nei riguardi degli etiopi: «Il nuovo viceré si differenzia dal suo predecessore per una visione più umana dei rapporti con gli africani, infatti si dimostra tollerante e conciliante» [134]. La stagione del nuovo viceré fu di poca durata: sotto l’attacco inglese e con il rientro del monarca d’Etiopia Hailé Selassié, nel mese di gennaio dell’anno 1941, l’Etiopia fu persa dall’Italia [135].

Gli italiani sono stati vinti nell’ Africa orientale il 20 gennaio 1941 e l’Impero d’Etiopia non è più italiano. Inoltre, l’Imperatore Hailè Selassiè espatriato in esilio a Londra dopo l’invasione dell’Etiopia dall’Italia nel 1936 rientrò in modo trionfale nel proprio Paese d’origine con l’appoggio degli inglesi il 5 Maggio 1941: « appena cinque [anni] dopo la conquista di Badoglio, il negus Hailé Selassié ha fatto il suo trionfale ritorno in Addis Abeba» [136].

La storia dell’atteggiamento ambiguo degli italiani nei riguardi degli abissini non si è del tutto interrotta con la caduta del fascismo nel 1945. Per parecchio tempo, l’Etiopia cercò di ottenere giustizia nella comunità mondiale e l’imperatore rimpatriato denunciò i crimini di guerra italiani contro gli etiopi alla Società delle Nazioni in seguito al 19 febbraio.

Il diritto al pieno risarcimento dei danni patiti dall’Etiopia tra cui la restituzione di beni inestimabili rubati prima del crollo del fascismo venne rivendicato invano da Hailé Selassié: «Fra i beni requisiti dallo Stato italiano e non ancora riconsegnati al popolo etiopico figurano la preziosa biblioteca del Negus, l’aeroplano appartenuto a una delle figlie di Hailè Selassiè, oggi esposto nel Museo storico dell’aeronautica a Vigna di Valle, ed infine un monumento di inestimabile valore, l’obelisco di Axum» [137].

La storia inerente al trafugamento dell’obelisco di Axum è notissima: «Sottratto nel marzo del 1937, per ordine del ministro Lessona, dal quartiere ecclesiastico di Nefàs e imbarcato a Massaua sul piroscafo Cafiero, l’obelisco veniva trasferito a Roma ed eretto sul piazzale di Porta Capena per dare lustro ai festeggiamenti del 15° anniversario della marcia su Roma. Dall’esilio in Inghilterra, l’imperatore Hailè Selassiè condannava subito il furto sacrilego dello «storico obelisco eretto 1.600 anni fa» [138].

In seguito, avendo l’Etiopia riacquistata la libertà, il governo imperiale chiese la restituzione del monumento nel 1947, in coincidenza con la firma del Trattato di pace fra l’Italia e gli Alleati. Una seconda richiesta venne formulata nel 1952 dall’ambasciatore etiopico a Roma, Emanuel Abraham [139]. La “stele di Axum” rubata all’Etiopia e portata nel 1937 in Italia venne restituita soltanto circa un mezzo secolo dopo: « I lavori di restituzione avvennero nel 2005 ma l’odissea della stele di Axum finirà soltanto nel 2008» [140].

Il generale Rodolfo Graziani

Il generale Rodolfo Graziani

Nell’anno 1948, all’ONU venne chiesto dall’Etiopia di sottoporre a processo alcuni criminali di guerra, ma la sua richiesta non fu soddisfatta. A questo proposito, si rivendicò l’estradizione di alcuni marescialli e generali italiani ma «per le atrocità consumate in Etiopia […] non è stato istruito alcun processo. Badoglio, De Bono, Graziani, Lessona, Pirzio Biroli, Geloso, Gallina, Tracchia, Cortese, [come] responsabili [di] genocidi sono rimasti impuniti» [141] in quanto l’Italia rivendicò il diritto a giudicarli sul suo territorio [142].

Fu fatta allora una nuova richiesta limitandosi a chiedere all’ONU di processare solo due accusati di crimini di guerra, Graziani e Badoglio. I differenti equilibri interni postbellici erano delicati, e gli altri Paesi non vollero colpire l’Italia. Il Generale italiano Badoglio morì da uomo libero nel 1956 [143] mentre il politico italiano Graziani non fu condannato per le stragi compiute in Abissinia, ma per aver collaborato coi nazisti quando assunse l’incarico di Ministro della Difesa della R.S.I. Difatti, venne condannato a diciannove anni di prigione dal tribunale militare, tuttavia venne rilasciato solo pochi mesi dopo la sua incarcerazione: «il processo a cui venne sottoposto (non per i suoi atti di genocidio in Abissinia e Etiopia, ma solo per il suo ruolo nella RSI) terminò nel 1950 con la grottesca condanna a 19 anni di carcere. 17 dei quali condonati; sicché dopo quattro mesi di prigionia Graziani riacquistò la libertà, e pochi anni dopo aderì al Movimento Sociale Italiano, di cui fu presidente onorario fino alla morte, nel 1955» [144].

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] P. Ferrari, A. Massignani (a cura di) Conoscere il nemico. Apparati di intelligence e modelli culturali nella storia contemporanea, Milano: Franco Angeli Editore, 2010: 109.
[2]A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1976: 579-615.
[3] Ivi: 659.
[4] F. Bandini, Gli italiani in Africa: Storia delle guerre coloniali (1882-1943), Milano: Mondadori, 1980:123.
[5] M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero: gli Italiani in Etiopia, 1936-1941, Prefazione di Angelo Del Boca, Bari; Roma: Laterza, 2019: 7.
[6] S. Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2003: 250.
[7] A. J. De Grand, Breve storia del fascismo, Roma; Bari: Laterza, 1994: 120.
[8] Ibidem.
[9] E. Costa Bona, L. Tosi, L’Italia e la sicurezza collettiva dalla Società delle nazioni alle Nazioni unite, Perugia: Morlacchi editore, 2007: 112.
[10]F. Lanzoni, Manuale per i test di cultura generale. Per le prove a test di: concorsi pubblici, concorsi dell’Unione Europea, concorsi militari, ammissione all’università, Milano : Alpha Test, 2005 : 151.
[11] Touring club italiano, Le colonie e l’impero: dall’archivio fotografico TCI / Touring club italiano; prefazione di Arrigo Petacco; testi di Mario Lombardo; progetto grafico Toshihiro Miki, Milano: TCI, 2004: 31.
[12] R. Allegri, Benito Mussolini: Il Duce e la sua storia (Le figure del fascismo Vol. 1), Bologna: Area 51 Publishing, 2012: 1927-1928.
[13] R. Bottoni, L’impero fascista: Italia ed Etiopia, 1935-1941 Bologna, il Mulino 2008: 449 
[14] Ivi: 448.
[15] P. Matucci, Federico Baistrocchi sottosegretario 1933-1936, Firenze: Pagnini, 2006: 37.
[16] Dominioni, cit: 5.
[17] Ivi: 6.
[18] P. Corner, L’opinione popolare italiana di fronte alla guerra d’Etiopia, in L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935.41), Bologna: Il Mulino, 2008: 55-58.
[19] Ivi: 53.
[20] J. De Grand, cit: 127.
[21] A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’impero, vol. II, Roma-Bari : Laterza, 1986: 284.
[22] Corner, cit: 54.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Ibidem.
[26] Ivi: 51.
[27] Questo ente nacque «con il D.L .17 novembre 1927 n. 2207 e già il 1° gennaio 1928 l’Ufficio stampa del P.N.F. dirama un comunicato in cui ammonisce : […] I programmi dovranno essere interessanti» in R. G. Lazzero, Il partito nazionale fascista, Milano: Rizzoli: 1985: 122.
[28] Bottoni, cit: 173.
[29] Ivi: 174.
[30] Corner, cit: 56-57.
[31] Ivi: 57.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] Corner, cit: 58.
[36] Ibidem.
[37] Ibidem.
[38] Ibidem.
[39] Dominioni, cit: 14.
[40] Ivi: 16.
[41] Ibidem.
[42] Ivi: 16-17.
[43] V. Vailati. Badoglio racconta, Torino: Industria Libraria Tipografica Editrice, 1955: 305.
[44] Aa. Vv, “L’Italia marinara giornale della Lega navale italiana”, n°1, XV, (gennaio 1937) : 161.
R. Vuoli, “Politica coloniale, Rivista internazionale di Scienze Sociali”, Serie III, Vol.8 (Anno 45), Fasc.4 (luglio 1937): 585. 
[45] L’Etiopia faceva parte della Società delle Nazioni e quindi poteva godere di una protezione in caso di attacco da parte degli italiani. (J. De Grand, cit: 124.)
[46] Dominioni, cit : 18.
[47] Ibidem.
[48] J. De Grand, cit: 126.
[49] Dominioni, cit: 13.
[50] Ivi: 21.
[51] C. Roselli, Il Novecento, [S.l.: s.n, 200.]: 39.
[52] P. Borruso, Debre Libanos 1937, Bari: Laterza, 2020 :47.
[53] A. Fioravanti, 1885-1960|Cosa è stato davvero il colonialismo italiano (e perché non si parla di quei 75 anni) (16 settembre 2020) in https://www.linkiesta.it 
[54] N. Labanca, Una guerra per l’impero: memorie della campagna d’Etiopia 1935-36, Bologna: Il Mulino, 2005: 41
[55] S. Luzzato, Sangue d’Italia: inverventi sulla storia del Novecento, Roma: manifestolibri, 2008 :60.
[56] C. Bertieri, A. Giannarelli, U. Rossi, L’ultimo schermo: cinema di guerra, cinema di pace (a cura di); presentazione di C. Zavattini: Bari: Dedalo, 1984: 435.
[57] G. Rochat , Le guerre italiane 1935-1943 dall’Impero d’Etiopia alla disfatta. Volume 28, Torino: Einaudi, 2005: 43.
[58] A. Bincoletto, Storia del Colonialismo italiano in Africa, Milano; Padova: Good Mood, 2014: 1925.
[59] Labanca, cit: 42.
[60] M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero: gli italiani in Etiopia, 1936-1941 / Matteo Dominioni; prefazione di Angelo Del Boca, Roma: Laterza, 2008 :81.
[61] F.Argirò, La Corte penale internazionale organi, competenza, reati, processo, Milano: Giuffrè editore, 2006 :797. G. Rochat , Le guerre italiane 1935-1943 dall’Impero d’Etiopia alla disfatta. Volume 28, Torino: Einaudi, 2005: 43.
[62] Aa.Vv, L’impero imperdonabile a cura di M. Sberna, Firenze: Arcipelago, 2018: 125.
[63] E. G. Dapei, Una potenza virtuale alla resa dei Conti. Le velleitarie dottrine strategiche dell’Italia fascista, lulu.com, 2010: 53.
[64] A. Del Boca, La guerra d’Etiopia: l’ultima impresa del colonialismo, Milano : Longanesi, 2010: 144.
[65] J. Giliberto, Viaggio attraverso le memorie lasciate dall’occupazione italiana dell’Abissinia (22 agosto 2019) in https://www.ilsole24ore.com
[66] R. Canosa, Il maresciallo d’Italia, dalla guerra d’Etiopia alla Repubblica di Salò, Milano: Mondadori, 2004: 153.
[67] A. Elli, Etiopia: arte, storia, curiosità e itinerari nel cuore antico dell’Africa, Milano: Terra Santa, 2023: 127.
[68] Ibidem.
[69] L’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia (a cura di), Il movimento di liberazione in Italia. Rassegna bimestrale di studi e documenti. Volume 27, Milano: 1975: 19.
[70] A. Cova, Graziani un generale per il regime : la prima biografia documentata di uno dei personaggi più violenti e controversi della nostra storia, che ha incarnato miti, ferocie e contraddizioni del periodo fascista, Roma: Newton Compton, 1987: 191. ·
[71] D. Cadeddu, La storia non si ferma: incontro storico-autobiografico, Roma: Lanua, 1989: 17.
[72] Mario. E. A. Zetto, Il posto al sole: cinquant’anni fa. L’ultima grande impresa coloniale della storia, 1936-1941, Pisa: Giardini editori e stampatori, 1986: 77
[73] M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Milano: Feltrinelli, 2005: 142.
[74] L. Preti, Impero fascista, africani ed ebrei, Milano: Mursia, 1968 :90.
[75] L’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia (a cura di), Il movimento di liberazione in Italia. Rassegna bimestrale di studi e documenti. Volume 27, Milano: 1975: 22.
[76] A. Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro da morire, Vicenza: Neri Pozza editore, 2005: 7.
[77]  R. Bonavita, G. Gabrielli, R. Ropa (a cura di), L’offesa della razza : razzismo e antisemitismo dell’Italia fascista: istruzioni per l’uso, Bologna: Istituto per i beni artistici, culturali e naturali. Soprintendenza per i beni librari e documentari, 2005: 112.
[78] P. Borruso, Debre Libanos 1937: il più grave crimine di guerra dell’Italia; prefazione di Andrea Riccardi, Bari Roma: Laterza, 2024: 89.
[79] Z. Barontini, Cronache dalla polvere: un mosaic novel sul cuore di tenebra del colonialismo italiano, Milano: Bompiani, 2019: 8-9.
[80] G. Mayda, Graziani, l’Africano: da Neghelli a Salò, Firenze : La Nuova Italia, 1992: 47.
[81] TaA di Alfredo Godio, raccolta a Borgosesia (Vercelli) il 13 novembre 1979 in Aa.Vv, La nuova rivista europea: lettere e arti/cultura e politica, rivista bimestrale, Trento:  Rapporti Europei, 1981: 85.
[82] A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale Volume 3, Roma Bari: Laterza, 1986: 86.
[83] E. Nassi, Rodolfo Graziani, soldato o criminale di guerra? (31 luglio 2013) in https://www.anpiroma.org/
[84] S. BassettiDa Monte Rubiaglio alla Gloria, Vignate (MI): Lampi di stampa ,2025:95-96. 
[85] E. Nassi, Rodolfo Graziani, soldato o criminale di guerra? (31 luglio 2013) in https://www.anpiroma.org/
[86] A.Quattrocolo, La strage di Adis Abeba : una vergogna tutta italiana, (19 febbraio 2019) in https://www.me-dia-re.it/
[87] F. Troccoli, La strage di Debra Libanòs e gli altri crimini dei “bravi italiani”  in https://www.micromega.net
[88] F. Troccoli, La strage di Debra Libanòs e gli altri crimini dei “bravi italiani”  in https://www.micromega.net
[89] P. Borruso, L’ultimo impero cristiano : politica e religione nell’Etiopia contemporanea, 1916-1974 ; prefazione di Richard Pankhurst, Milano: Guerini e associati, 2002: 202.
[90] Si tratta del «maggior convento d’Etiopia, con 297 monaci e 129 diaconi [in cui] si venera la salma del tigrino San Teclaimanot […] [ed] è meta di frequenti pellegrinaggi» (Cova, cit: 187.)
[91] E. Rausa, Massacri italiani in Etiopia e coscienza storica (3 marzo 2020) in https://laricerca.loescher.it/
[92]A. Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro da morire, Vicenza: Neri Pozza, 2005: 229.
[93]J. De Grand, cit: 127-128.
[94] G. Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano. Saggio introduttivo di E. Fatttorini, Milano: Jaca Book, 2009: 54-55.
[95] M. Strazza, Faccetta nera dell’Abissinia Madame e meticci dopo la conquista dell’Etiopia in «HUMANITIES», Anno 1, No. 2 (Giugno 2012): 116.
[96] Ivi: 117.
[97] Ivi: 122.
[98] ASDMAE, ASMAI, Gabinetto, Archivio Segreto, b. 18, Problema della razza, telegramma segreto cifrato, Mussolini a Badoglio e Graziani, Roma 11 maggio 1936.
[99] Strazza, cit: 125.
[100] M. Madonia, Quando noi “italiani brava gente” colonizzammo, violentammo e sterminammo gli etiopi, (28 settembre 2020) in https://thevision.com
[101] Bollettino ufficiale legislazione e disposizioni ufficiali, vol. LXVIII, , 15 gennaio 1938, Roma: Libreria dello Stato: 871
[102] Strazza, cit: 122.
[103] Dominioni, cit: 115.
[104] Strazza, cit: 131.
[105] N. Poidimani, Difendere la “razza” : identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Roma, Sensibili alle foglie, 2009: 22.
[106] Strazza, cit: 131.
[107] A. Randazzo, L’Africa del Duce : i crimini fascisti in Africa, Varese Arterigere, 2008: 251.
[108] Strazza, cit: 131.
[109] Randazzo, cit: 252.
[110] Strazza, cit: 132.
[111] D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino Bollati Boringhieri, 2003: 93.
[112] Sale, cit: 62.
[113] A. Cavaglion, G. P. Romagnani, Le interdizioni del Duce a cinquant’anni dalle leggi razziali in Italia (1938-1988), Torino  Meynier, 1988: 66.
[114]  Rodogno, cit: 93.
[115] Strazza, cit: 132.
[116] G. Acerbi , Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, Milano Giuffrè , 2011: 309.
[117] Strazza, cit: 132.
[118] L. MartoneDiritto d’oltremare : legge e ordine per le Colonie del Regno d’Italia, Milano Giuffrè, 2008: 69.
[119] Strazza, cit: 133.
[120] Ibidem.
[121] C. Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane. Prospettive psicosociali di analisi, in “DEP. Deportate, esuli, profughe”, n. 10 (2009): 115.
[122] Lettera del viceré d’Etiopia Graziani indirizzata al vicegovernatore generale in data del 23 marzo 1937, in ACS, Fondo Carte Graziani, B. 32, f. 25.
[123] AA.VV. Rivista geografica italiana e Bollettino della Società di studi geografici e coloniali in Firenze, Annata XXII., Fascicolo I., Firenze: Società Editrice Dante Alighieri, (gennaio 1915): 517-518.
[124] A. Alpozzi, Storia della ferrovia “italiana” Gibuti-Addis Abeba (21 dicembre 2021) in https://italiacoloniale.com
[125] A. Alpozzi, Storia della ferrovia “italiana” Gibuti-Addis Abeba (21 dicembre 2021) in https://italiacoloniale.com
[126] G. Abbondanza, Italia potenza regionale. Il contesto africano dall’Unità ai giorni nostri, Roma Aracne editrice, 2016: 72
[127] In Abissinia, « gli Abissini, gli Amara, I Tigrini, I Goggiam formano il popolo dei dominatori comunemente detti Amara; gli altri costituiscono il popolo delle genti assoggettate, I cui membri sono schiavi dei dominatori, i quali ne fanno oggetto di compra-vendita e se li passano in eredità come capi di bestiame» (E. Testa, l’Etiopia e i suoi abitatori in Aa.Vv, Varietas rivista illustrata,Venezia: Sonzogno, (gennaio 1935): 9).
[128] A. Vascon, Tigrai o Tigrè? (22 febbraio 2006) in https://www.ilcornodafrica.it/ 
[129] V. VaraniniL’Abissinia nei suoi aspetti storici geofrafici economici, Roma Unione Editoriale d’Italia, 1939: 112 .
[130] A. Alpozzi, Etiopia. Il bando di soppressione della schiavitù di De Bono non fu l’unico , (30 marzo 2021) in https://italiacoloniale.com
[131] A. Alpozzi, Vaiolo, tifo, sifilide e lebbra. Prima dell’Italia in Etiopia erano liberi di morire per malattie endemiche, (28 febbraio 2022) in https://italiacoloniale.com
[132] G. Bucco, A. Natoli, L’organizzazione sanitaria nell’Africa italiana; con nota redazionale integrativa sui servizi sanitari nei governi dell’A.O.I. a cura di A.Felsani, Roma: Istituto poligrafico dello Stato, 1965: 27.
[133] Genesis rivista della Società italiana delle storiche, Volume 2, Numeri 1-2, Roma: Viella, 2003: 50.
[134] A. Venturi, Il casco di sughero: gli Italiani alla conquista dell’Africa; con una postfazione di A. Ferrari, Torino: Rosenberg & Sellier, 2020: 125.
[135] E. Rausa, Massacri italiani in Etiopia e coscienza storica (3 marzo 2020) in https://laricerca.loescher.it/
[136] Venturi, cit: 149.
[137] A. Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze, «Italia contemporanea», settembre 1998, n.212, Milano: Grafica Sipiel: 593.
[138] Ibidem.
[139] Ivi : 594.
[140] D.Chiarle, Mistero e leggenda : nove enigmi inestricabili dall’isola non trovata al caso Taman Shud, Lulu.com, 2016: 70.
[141] A. Del Boca, I gas di Mussolini: il fascismo e la guerra d’Etiopia; con contributi di G. Rochat, F. Pedriali e R. Gentilli, Roma: Editori riuniti, 1996: 23.
[142] E. Rausa, Massacri italiani in Etiopia e coscienza storica (3 marzo 2020) in https://laricerca.loescher.it/
[143] Ibidem.
[144] A. Crivelli, La letteratura coloniale e postcoloniale in Italia. Dal romanzo di propaganda coloniale alle contronarrazioni postcoloniali, Milano: Meltemi editore, 2022:9.
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Nabil Zaher, da circa vent’anni è docente universitario di lingua, civiltà e lettere italiane presso l’Università di Monastir (Istituto superiore di lingue di Moknine). Ha insegnato anche all’Università di Messina come professore ospite del Dipartimento di civiltà antiche e moderne nel 2014 e nel 2015. Ha pubblicato diversi articoli in riviste culturali sulla presenza degli italiani in Paesi africani tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Nel 2015, è stato insignito del premio letterario nazionale «Carlo Levi», XVIII edizione 2015 ad Aliano per la sua tesi di Dottorato discussa presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e delle Umanità della Manouba e intitolata «Riflessi del Mezzogiorno nell’opera narrativa di Carlo Levi».

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