Una volta era di prammatica: una persona di cultura media doveva essere in grado di “girare un sonetto”, perché è la forma composizione poetica più diffusa, la più semplice, la più adatta a celebrare feste, amicizie, urbanità, anniversari e festività simili. Per i matrimoni si organizzavano “corone di sonetti”; per le dediche di un libro si scriveva un sonetto; per un compleanno si imbastivano i convenzionali quattordici versi endecasillabi, e sono sicuro che così facevano anche i padrini per ricordare un battesimo o una prima comunione. Tanta disponibilità aveva i suoi aspetti negativi: se ne inventavano versioni modificate in diversi modi, ora aggiungendo terzine, e quindi “rinterzandoli”, o intercalando versi più corti tra i versi consentiti dallo schema normale, ora inserendo versi in latino tra i versi in italiano, ora facendo tutte le rime con parole sdrucciole oppure tronche, ora … insomma “giocando” con una struttura stagionatissima e che non sembra ammettere trasgressioni.
E già l’idea di giocare con la letteratura sembra un’azione dissacrante, o quanto meno irriverente perché la nostra civiltà ha conferito alla letteratura e a chi la pratica una dignità che non sembra compatibile con la frivolezza del gioco. Quante persone non abbiamo conosciuto che, una volta presa la penna in mano, assumono il ruolo di sacerdoti di un culto di cose arcane che il riso o tutto ciò che non è serio profanerebbe! Eppure, basterebbe ricordare a questi signori che la commedia, la satira, e la barzelletta, la parodia sono generi che vengono associate all’idea del riso, quindi del gioco o dello svago. E ci diranno, allora, che non intendono negare l’elemento ludico nel gioco, o escludere che esista la comicità e l’eutrapelia e l’ironia nella letteratura, ma vogliono dire che la letteratura è sempre una cosa seria anche quando gioca, e nessuno dirà che L’Orlando Furioso o il Don Chisciotte non sono creazioni serie perché suscitano il riso.
È verissimo, rispondiamo, e quando parlano in questo modo ci convincono, ma dobbiamo subito aggiunge che anche il gioco è una cosa seria. Ed eccoci impegnati in un discorso che non vorremo sostenere sulle pagine di una rivista per non specialisti, perché i temi di tale discorso troverebbero ospitalità in una rivista di estetica. E tuttavia, possiamo occuparci del problema in termini non specialistici, e limitandoci solo ad alcune considerazioni guidate dal buon senso, dall’esperienza. E cominciamo a dire che il gioco è una cosa seria, e diciamo anche di più: è un’attività che è riservata solo a mammiferi, perché non abbiamo mai visto i pesci o i serpenti giocare, mentre giocano i leoni, i topi, gli elefanti e gli uomini, e constatiamo così che il gioco è un’attività naturale di certi generi animali. E aggiungiamo che entro le specie indicate, il gioco non è un’attività esclusiva dell’età infantile, ma di tutte le età. I vecchi, insomma, suonano il piano, danzano, giocano a carte, scrivono opere letterarie… e forse l’attività ludica in età avanzata è solo dell’uomo, mentre i leoncini giocano per imparare l’arte delle caccia, ma poi non ci risulta che continuino a giocare in età avanzata, a meno che non giochino con i cuccioli.
La complessità di questi problemi, e insieme la loro insopprimibile presenza ha spinto a ricerche volte a definire la natura di questa attività umana. E poiché il giocare è parte dell’attività infantile, si capisce che i primi a studiarne le ragioni e i modi sono stati i pedagogisti. Ma era inevitabile che anche il giocare degli adulti divenisse oggetto di studio. E tre sono i maggiori studiosi che hanno esaminato l’argomento.
Il primo e ancora massimo studioso del significato filosofico e sociale del gioco è stato Johan Huizinga, che stabilisce i tratti essenziali del fenomeno. Il gioco, egli sostiene, è un’azione o un’attività volontaria, compiuta entro un determinato limite di tempo e di luogo, seguendo una regola liberamente accettata ma ferrea e imprescindibile; è sufficiente a sé stessa perché ha un fine in sé; produce un sentimento di tensione e di gioia; crea la libertà consapevole di essere temporaneamente “altri” da quello che si è nella vita corrente.
Si gioca, dunque, per propria volontà e quindi in modo del tutto libero. Tuttavia il gioco ha le sue regole che devono essere rispettate rigorosamente, pertanto richiede un’adesione spontanea ma vincolante a delle leggi senza le quali non si può parlare di gioco. Il gioco è “autotelico” in quanto trova in sé stesso il fine ed è disinteressato, ma questo non vuol dire che sia inutile e che non abbia una sua utilità. Nel realizzarlo sorgono forti emozioni che bisogna sostenere e controllare, e nel praticarlo si prova un senso di gioia, indipendentemente dal risultato.
Infine – cosa altrettanto se non più importante – lo si pratica con la consapevolezza di vivere in un mondo diverso da quello corrente, e diverso anche nel nostro essere: il che significa che chi gioca si estranea consapevolmente dal proprio stato e natura per vivere in altro mondo e in altra forma. Questa in essenza la formulazione di Huizinga.
Per il nostro discorso conta molto l’aspetto dell’estraneazione, perché, se ben capito, consente di vedere la vita come vorremmo che fosse, ripetendola ma per finzione; e nel farlo la libera dagli impedimenti che la realtà pone: quasi un ideale, se si vuole, ma non in modo assolutamente staccato dal mondo reale e quindi irreale. Il gioco conserva molti dei principi e norme che regolano il mondo e il comportamento umano; mantiene anche il senso che ogni azione si svolge nel tempo, tuttavia è un tempo che può essere interrotto nel momento in cui la finzione del gioco termina.
Quindi è un’attività fuori dal tempo ma pur sempre definita dal tempo, e il protagonista può fingere di essere una persona diversa da quella che è nella realtà, ed è consapevole di tornare ad esserlo non appena il gioco finisca.
Non è l’attore, perché questi espleta, sì, un jeu, ma lo fa seguendo un copione, mentre il giocatore sente una gioiosa libertà creativa che è anche la causa che induce a giocare. L’attore, come ci insegna Diderot nel suo famoso Sur le paradoxe du comedien, è tanto più credibile quanto più mente, fingendo di essere il personaggio che rappresenta e nascondendo al massimo la persona che crea quella finzione. Tutto il teatro, del resto è un “gioco”. Gli spettatori che vanno a teatro sanno di andare a vedere uno spettacolo in un luogo chiuso che immaginano sia il luogo dove avviene l’azione, seguono una vicenda che sanno completamente “ri-creata”. E alla fine applaudono se la “finzione” è stata così ben realizzata da apparire vera. Il teatro, comunque, è solo una delle forme della letteratura, e presenta due tipi di gioco simultanei: quella degli autori, che fingono, e quella degli spettatori che fingono di credere alla rappresentazione illusoria di ciò che vedono.
Le specie del gioco presentano una loro diversità che è stata studiata da un altro specialista in materia. Questi è Roger Caillois, il quale ha dedicato al gioco uno studio importante. Anche per lui il gioco è un’attività libera, separata dalle altre attività umane; è un’attività incerta nel senso che non prescrive un risultato; è improduttiva perché se fosse altrimenti sarebbe un lavoro; è regolata da leggi ma è indipendente dalla legislazione vigente, ed è finta nel senso che suppone una realtà fuori da quella corrente.
Roger Caillois classifica i tipi di gioco secondo lo scopo che si prefiggono. Propone, così, quattro categorie fondamentali: l’agon, l’alea, l’ilinx e la mimica. Nel primo opera l’idea che il gioco sia competizione fra individui o gruppi e di questi uno vince e l’altro perde, e così i giocatori provano chi è il più forte, e chi vi partecipa prova a sé stesso di essere forte. In questo modo “agonistico” è insito un elemento narcisistico. Nel secondo, l’alea, entra il concetto di azzardo e di competizione. In questi due atteggiamenti verso il gioco si evade il mondo creandone un altro. Nel terzo gioco “ilinx” (gioco di dadi truccati) si confonde l’avversario fino a creargli uno smarrimento che lo porta a rinunciare al gioco (il caso dei giochi di prestigio, tanto per capirci). Il quarto, il gioco della categoria mimica, suppone l’uso della maschera che cela l’identità del giocatore perché ne possa assumere una fittizia; quindi in questa quarta categoria come nella precedente il giocatore scappa dal mondo diventando un’altra persona.
Queste categorie sono flessibili e in molti casi possono anche combinarsi e creare composite modalità di gioco. E non si possono dimenticare le tesi di Victor Turner secondo le quali il gioco, lungi dall’essere un’attività improduttiva e frivola, svolge una funzione sociale perché è prima di tutto individuale. Il gioco, infatti, sospende il tempo reale, ma lo sostituisce con un tempo irreale che però conserva tutti i caratteri del tempo reale, cioè la durata e il senso del passato e dell’attesa. In questo tempo reale/irreale il giocatore crea rapporti con gli altri membri della società, rapporti che appaiono e sono spontanei ma pur sempre regolati dalle regole del gioco. Il giocatore in questa situazione vive un senso di controllo che non gli richiede autentico sacrificio di libertà e di potere, e acquista un senso di felicità, che gli rivela, tra l’altro, una possibile forma di socializzazione fondata sulla reciprocità autentica e sulla giustizia.
Questi tre studiosi fanno capire da punti di vista diversi il valore antropologico, sociale e psicologico del gioco. Nessuno di loro si occupa della letteratura, forse perché il tipo di gioco che essa realizza è molto diverso dagli altri giochi; ma è anche indisputabile che essa contenga una dimensione ludica certa. Ricordiamo, infatti, che la letteratura nella sua specie maggiore e riconosciuta è “finzione”. Lo afferma una trafila di autori da Platone in poi, e lo dice Pessoa in modo sintetico in una sua poesia intitolata “Autopsicografia”: «Il poeta è un fingitore, e finge così completamente che arriva a credere che sia dolore il dolore che davvero sente».
Le creazioni letterarie sono anch’esse una finzione che, come in tutti i giochi, ha la funzione primaria di creare un’evasione tanto per chi la crea come per chi la fruisce. Per chi la crea è un gioco da “solitari”, ma è anche vero che il creatore ha sempre presente un uditore. Questi però è remoto, isolato e non ha ruoli di antagonista, ma semmai di partner. Ricordiamo tutte le discussioni sull’autore e sulla sua vera natura: è la stessa persona che dice “io” nelle sue liriche o nei suoi romanzi, oppure è una persona diversa da quella che concretamente sta seduto a scrivere? La questione si risolve in gran parte capendo che l’autore diventa anche lui un personaggio della sua propria creazione ed è quello che presenta “il suo punto di vista”. Ma lasciamo perdere queste sottigliezze che ci porterebbero molto lontano e quasi certamente non riusciremmo a portarle a conclusioni certe e incontrovertibili.
Ricordiamo però una cosa che rende la finzione letteraria diversa da tutte le altre funzioni ludiche: la letteratura intende trattare di materie che sconfinano dal tempo che di solito si impone nei giochi: una partita di scacchi, supponiamo, ha un’evasione dal tempo che dura fino a quanto dura la partita, mentre la letteratura tocca materie che vanno oltre il tempo della stesura e della lettura, e pertanto crea situazioni e materie che sono rivisitabili a distanza di tempo illimitato. Ancora oggi leggiamo le opere omeriche e così facendo evadiamo dal tempo nostro per entrare nel tempo di quel che accadde oltre due millenni fa. Mi pare che questo sia ovvio e che non richieda ulteriori chiarimenti, per capire che la letteratura supera il tempo come durata che invece è uno dei limiti dell’attività del gioco. O possiamo dirlo anche in questo modo: il gioco evade dal tempo, la letteratura anch’essa lo evade ma simultaneamente intende perpetuarlo.
C’è però ben altro da osservare, perché esiste non solo il gioco della letteratura ma il gioco nella letteratura, il quale, a sua volta, presenta una varietà tipologica molto vasta. Se consideriamo la lingua, vale a dire il primo ingrediente di ogni creazione letteraria, vediamo che essa ci offre infiniti campioni di gioco, tanto comuni che spesso non ce ne rendiamo conto. Quando diciamo che una persona è “un libro aperto” non ci rendiamo conto di usare una metafora, cioè attribuiamo ad un essere cose o qualità che sono proprie di un altro essere. E ci divertiamo molto quando ammiriamo come un poeta scriva un verso ropalico in cui la prima parola è di una sillaba, la seconda di due, la terza di tre, e così via fino a quando il verso è pieno, e appare come una “clava”, che è il significato di “ropon” greco. Oppure quando leggiamo un verso in cui ogni parola ha lo stesso numero di sillabe e si dispongono in fila come una serie: questa figura retorica si chiama “articulus”, di cui abbiamo un esempio parziale nel verso di Pia dei Tolomei: «ricorditi di me che son la Pia», dove si vede che nel secondo emistichio tutte le parole sono separate da uno spazio uguale.
Davanti a questi casi possiamo essere certi che l’autore “giocava” sulla lingua. E se ricordiamo il verso carducciano “il divino del pian silenzio verde” non possiamo non sentire l’effetto della duplice inversione di concordanze di “divino” con “piano” e di “silenzio” con “verde”, e gli esperti di retorica, conoscendo bene che non si tratta di un caso isolato, hanno chiamato “ipallage” questo tipo di gioco. Potremmo allargare il discorso sulle “figure retoriche” come gioco, ma si tratta di cose che ogni lettore può osservare per proprio conto. Il numero degli esempi sarebbe infinito, se pensiamo che le antifrasi, le anastrofi, il doppio senso, gli iperbati, le inversioni sintattiche e fenomeni analoghi sono tutte forme di gioco linguistico che danno colore al linguaggio, e lo rendono memorabile. Comunque ammettiamo di aver fatto un salto: i generi letterari implicano un livello di gioco molto più alto del semplice gioco linguistico, e in tal caso il metro del giudizio richiede l’uso di criteri diversi perché si deve parlare di composizione, di ispirazione, di fonti … insomma di un genere di elementi estetici ben più complessi di quanto non lo siano quelli contenibili in un semplice gioco linguistico.
Passiamo invece ad un altro tipo di gioco letterario che consiste nel dipingere oggetti disponendo le parole in un certo modo, cioè usando parole come un corpo concreto dando alle vocali e alle consonanti un ruolo fisico. Questo avviene nei “carmi figurati”, o nelle poesie che creano delle figure. I lettori di poesia moderna ricordano i “calligrammi” e la poesia “concretista” che perpetuano la pratica di disporre i versi in modo da formare la figura dell’oggetto di cui si parla o anche di altre figure. Nel fondo questo tipo di gioco risponde al bisogno mai esaudito di fondere in un unicum il rapporto di parole e cose, di verba et res, di creare, insomma, un linguaggio simbolico o di realia, come le “cinque parole reali” di quell’Idantura ricordato da Vico: era un antico re scita che rispose alle dichiarazioni di guerra di Dario inviandogli una ranocchia, un topo, un uccello, un dente d’aratro e un arco, e il re persiano dovette ricorrere ad una commissione di dotti perché interpretassero quel messaggio “concreto”.
Sono “esercizi” letterari senza altra ambizione che quella di “giocare”, cioè di “passare il tempo”; ma si possono considerare come manifestazioni di una profonda insoddisfazione per la forza espressiva della parola, una ribellione contro la tradizione che ha privilegiato la parola come mezzo espressivo per eccellenza. Dopo tutto, la parola non basta ad esprimere a tutto tondo tutti i contenuti che intendiamo comunicare, perché alla parola parlata si deve aggiungere il tono della voce e anche i gesti del corpo che possono intensificare e dare sfumature di significato che la parola da sola non può convogliare. E dobbiamo ricordare che la comunicazione viene poi valutata da chi la riceve e dal modo in cui l’interpreta, e a questo fine tutte le sfumature segnaletiche possibili servono ad arricchire la comunicazione. Quante comunicazioni non avvengono solo attraverso i gesti? Ma non è detto che riescano sempre perfette, in quanto anche le comunicazioni gestuali hanno un emittente e un ricettore e non sempre la loro sintonia è perfetta. Lo dimostra una storiella che era diffusa fra gli studenti medievali di diritto, e che viene ricordata in quel capolavoro del medioevo spagnolo che è El libro de buen amor, di Juan Ruiz, arciprete di Hita.
Si racconta, dunque, che tra Greci e Romani si voleva interrompere una guerra, e per questo si scambiarono degli ambasciatori. I Greci scelsero un filosofo, che però non parlava latino; e i Romani scelsero un soldataccio ubriacone che non parlava greco. Quando si incontrarono, il Greco fece un saluto alzando con tutto il braccio la palma della mano. Il soldato rispose alzando la mano chiusa. Il greco rispose mostrando il solo indice, e il romano rispose con tre dita … insomma, il dialogo procedette in questo modo. Il filosofo greco, tornato fra i sui connazionali, parlò con molto apprezzamento del romano, e disse che gli aveva detto con la mano aperta “Dio è un’universalità manifesta”, e il romano gli avrebbe risposto “Dio è la sintesi di tutto”. Poi gli avrebbe indicato con un solo dito che Dio è unico, e quello avrebbe risposto che Dio è trino, facendogli vedere tre dita. Il soldataccio romano diede una versione ben diversa dell’incontro: “Lui mi ha detto: ‘Io ti do uno schiaffo’, e io gli ho risposto: ‘e io ti do un pugno’; lui mi ha detto: ‘Io ti cavo un occhio’, e io gli ho risposto: ‘I ti cavo entrambi gli occhi e ti rompo i denti’”. Questo, insomma, per dire quanto siano inaffidabili i dialoghi per gesti!
Questa piccola parentesi serve a farci ricordare che la comunicazione ha le sue regole e perimetri, e fra questi è fondamentale l’interpretazione. Si comunica in un modo per essere capiti in quel modo, ma non è detto che questo accade necessariamente: talvolta il messaggio è mal formulato, tal altra il ricettore è incapace di riceverlo nella sua formulazione originaria. Il gioco linguistico, la finzione letteraria vengono valutati in buona parte da chi li interpreta e dal modo in cui lo fa. Anzi, molti giochi linguistici che mirano a suscitare il riso sono basati su incomprensioni linguistiche, su doppi sensi del tutto inosservati, su malintesi che creano drammi o commedie.
Da tutto quel che abbiamo detto, risulta chiaro che il gioco letterario avviene per lo più al livello della retorica o del controllo linguistico, al livello possiamo dire “formale”. E questo ci porta ad un’altra considerazione di tipo storico-letterario, cioè a ricordare che i periodi in cui quest’attività ludica ebbe la sua massima fioritura fu il periodo del Barocco e delle Avanguardie, e questo perché nel primo periodo fu intensissimo lo studio della retorica, nel secondo fu notevole la ribellione alle regole della retorica. Per il periodo Barocco di può consultare lo splendido libro di Giovanni Pozzi, La parola dipinta (Milano, Adelphi, 1981), e per le avanguardie, consiglierei di consultare il volume collettivo di P. Honorato – F. Lange – A. M. Risco (a cura di), Notas visuales- Fronteras entre imagen y escritura (Ediciones Metales Pesados, Pontifícia Universidad Católica de Chile, Santiago de Chile, 2010).
Ma vediamo ora più da vicino un solo gioco letterario per vedere come si prospetta e che tesori ludici ci offre. È in termini generali il gioco della retrogradazione e in particolare il genere di sonetti retrogradi. In generale la retrogradazione è una figura retorica sconosciuta nel mondo antico; e anche gli studiosi di retorica moderni non le danno un nome proprio. Questi conoscono, come lo conoscevano gli antichi, il gioco della lettura alla rovescia, e lo chiamavano “palindromo”, per cui una parola come radar si può leggere tale e quale da qualunque dei due estremi si cominci a leggere; e una parola come roma si poteva leggere come amor se la suddividiamo nelle sue unità sillabiche, e intere frasi come ecco delle belle docce o in latino ite in certamen iuventus certamen inite. Esiste però una retrogradazione che sembra un palindromo ma di fatto produce una frase di significato diverso. Un esempio comico è il seguente ripreso dalla cronaca spagnola. Alcuni giovani insofferenti dei divieti sessuali ecclesiastici scrissero un manifesto che aveva come frase iniziale “O se peca o se seca”, e le autorità ecclesiastiche risposero con un secco “capese o casese”, cioè “si castri o si sposi”! La lettura procede alla rovescia ma il risultato è tutt’altro che identico a quello della frase di partenza. Il sonetto retrogrado è analogo.
I nostri avi conobbero il gioco in poesia: basti pensare ad autori come Porfirio Optaziano o semplicemente Ausonio che nel suo Technopaegnia costruì dei carmi figurati complicatissimi o carmi che terminano ogni verso con un monosillabo che poi viene ripetuto tale e quale nel verso successivo — Ma non conobbero i versi “retrogradi” o “refluentes”. E scegliamo come strumento particolare del gioco letterario il sonetto retrogrado, cioè un sonetto che si può leggere alla rovescia, dall’ultima parola alla prima. E perché proprio il sonetto? Perché è il genere più fisso ed insieme il più plasmabile dei generi strofici italiani. Sarà opportuno qualche ragguaglio per capire le dichiarazioni appena fatte.
Il sonetto, come è risaputo, fu inventato da Iacopo da Lentini, il fondatore di quella che poi venne a chiamarsi “La scuola siciliana”. È un genere strofico che godette di una fortuna straordinaria, e fu, senz’altro, uno dei maggiori contributi italiani al mondo della poesia. La sua fortuna dipese in gran parte dalla possibilità di combinare un “evento” con una riflessione, e farlo combinando due generi strofici. Il sonetto, si sa, è composto da uno strambotto, o un’ottava, e da due terzine. I primi otto versi, dunque, hanno una vita autonoma entro uno schema perfettamente chiuso, cioè con lo schema di rime ABABABAB, e le sue possibili varianti (ad es. ABBAABBA). Gli altri sei versi sono due terzine a schema CDCCDC e possibili variazioni. E mentre le due quartine presentano “la situazione” o l’“evento”, le due terzine contengono le reazioni, i propositi, le considerazioni dell’autore. Si pensi al vantaggio di un tale schema. Intanto la poesia diventa disponibile ad accettare eventi che appartengono alla vita reale e perfino “quotidiana”, nel modo che era concesso al genere dell’epigramma ma non a quello della “canzone”. Il cosiddetto “realismo” italiano si deve in gran parte proprio al sonetto che, in questo senso, precorre la “novella” di tipo boccacciano. Il sonetto conobbe subito delle varianti, come “il sonetto rinterzato”, il sonetto che fra i normali endecasillabi intercala versi più brevi o in altre lingue. Saranno stati questi pregi e potenziali a rendere il sonetto il prodotto d’esportazione più fortunato. Nel Quattrocento fu introdotto in Spagna dal Marqués de Santillana; ai primi del Cinquecento fu introdotto in Francia da Clement Marot; nello stesso periodo Wyatt lo importò in Inghilterra, e il Petrarchismo lo diffuse ovunque, portandolo dal Mediterraneo alla sfera boreale al mondo tedesco e slavo. In questi passaggi subì anche delle modifiche: ad esempio il sonetto shakespeariano ha tre quartine e un distico di chiusura.
Tanto era popolare questo genere di componimento che non c’era uomo di cultura che non sapesse “girare un sonetto”, come si diceva nel Settecento, e forse proprio questo logorò il prestigio del genere. Tanta popolarità fu anche il motivo della decadenza del genere. La grande voga rinascimentale e barocca del sonetto si affievolì fino alla quasi totale scomparsa nel Settecento, ma è tornata con poeti come Foscolo, Baudelaire e Auden, Dylan Thomas e Rilke. Nel Novecento Rubén Dario, il fondatore del modernismo ispanoamericano, scrisse un sonetto di tredici versi (De una juvenil inocencia), cioè sopprimendo un ultimo verso, deludendo in tal modo l’aspettativa che la misura del sonetto lasciava prevedere. Evidentemente Rubén Dario contava sulla familiarità dei lettori con questo genere strofico, e per questo poteva “giocare” senza problemi di essere frainteso.
Fin dall’inizio il sonetto fu soggetto ad esperimenti metrici e variazioni. Fin dall’inizio, infatti, vediamo il “sonetto guittoniano”, il “sonetto rinterzato”, il “sonetto ritornellato”, il “sonetto caudato” detto anche “sonatessa”, e varie altre forme di cui non sto a dare le spiegazioni perché parlare di questioni metriche senza riportare dei testi diventa molto tedioso. Basti dire che proprio la fissità del genere rendeva ovvie le eventuali variazioni.
Mi limito solo a ricordare un sonetto che quanto alla metrica e allo schema rimico è del tutto convenzionale, ma poi mostra complicazioni di difficile lettura. È un sonetto del guittoniano di Panuccio del Bagno, e lo pubblichiamo come ci appare nei manoscritti:
E lo riportiamo ora come normale sonetto, che, però di normale ha molto poco, essendo una vera esibizione di acrobatismo e di virtuosismo letterario:
Amor s’ha il mio voler miso di sovra,
Sovra non falla giammai non diviso che
Che sua virtù di me sia punto sovra,
Sovra si forte lo parer diviso
E l’alma è vinta ognor se poso o s’ovro
S’ovro è da me non mai punto e diviso
Tutto non com’elli è tanto sovro
Sovra da me astenne saetta diviso.
E quello amore in me che tanto porto,
Porto è d’omne virtù, non sol di parte
Parte da cui lei no mai tanto regna.
Io che pensando benenanza porto,
Porto sentir di lei m’è d’omne parte.
Parte di ben di sé vero in cui regna.
È un vero rompicapo, e comunque mostra anche le possibilità ludiche del sonetto. E tanta era questa versatilità che, rompendo con la tradizione di usare la poesia per dipingere oggetti, si usò la pittura per dipingere i sonetti, come mostra il caso del “Sonetto dipinto” di Giovan Battista Palatino che dipinse il sonetto Dove son gli occhi e la serena forma di Petrarca. È un episodio celebre, e ci limitiamo a ricordarne solo le quartine.
In calce si leggono le parole del sonetto petrarchesco, per cui il lettore può facilmente decifrare il “rebus”. Vedrà che la lettera D è seguita dall’immagine di due uova, quindi “ove” per formare la parola “dove”; segue la figura del suonatore per il verbo “son”; quindi GL seguita dall’immagine di due occhi, e così per il resto del verso e dell’intero sonetto. Non c’è dubbio che sia una costruzione ingegnosa e alquanto diversa dai consueti carmi figurati: questi di solito sono “originali” anche nella composizione del testo verbale, mentre Pellegrino illustra un testo di un altro autore. La combinazione è ugualmente ingegnosa anche se in modo diverso, e comunque illustra una nuova possibilità di combinare parole e immagini. Il messaggio certamente è diverso, e tuttavia è efficace: Pellegrino era un calligrafo al quale interessava soprattutto far stupire con una pagina ornata, nata dalla collaborazione di due arti, quella del poeta e quella dell’illustratore.
Ma il sonetto su cui intendiamo soffermarci si distingue per il fatto che in un solo sonetto ne contiene due, perché si può leggere alla rovescia, creando un testo nuovo di senso compiuto e completamente contrario a quello della versione originale. Si tratta del cosiddetto “sonetto retrogrado” che gioca con il lettore perché non gli rivela la sua natura se questi non si sforzi di trovarla.
Un sonetto retrogrado, forse il primo in assoluto, viene pubblicato da Antonio da Tempo nella sua Summa de arte rhythmica dei primi del Trecento, ed è accessibile nell’edizione Delle rime volgari trattato di Antonio da Tempo, composte nel 1332, dato alla luce integralmente ora la prima volta a cura di Giusto Grion, Bologna, Romagnoli, 1869: 100-101:
Molti coltivan persona possente.
Donando acquista l’uomo sempre amici.
Gradando spesso si trovan felici;
Tolti e sgradati cadono perdente.
Involti son d’ amici ricca gente;
Calando vanno amor povri mendici.
Irando fansi plusor inimici;
Volti concordi fanno amor lucente.
Natura di vertute si presenta;
Censo rifiuta ciascun virtuoso;
Figura nuda virtute contenta.
Compenso buon è voler amoroso;
Secura caritate Dio talenta:
A censo divin nato è ’1 caritoso
Si può leggere alla rovescia, e per farlo senza gravi inciampi dobbiamo fare qualche minima forzatura, come, ad esempio, proprio alla fine dobbiamo leggere “il caritoso è”, anziché il più improbabile “caritoso l’è”. Ma come arriviamo a sospettare che sia un sonetto retrogrado? Niente ce lo fa sospettare, se non il fatto, per altro non eccezionale, che quasi ogni verso formi una frase compiuta e a sé stante. Lo dice lo stesso Antonio da Tempo: «versus per se debet habere orationem perfectam, aliter numquam bene compilatur» (ivi: 100)
Prendiamo un sonetto spagnolo retrogrado di uno spagnolo e studiato da uno specialista di arte poetica anch’esso spagnolo, Juan Diaz Rengife. Lo riportiamo perché studia il “meccanismo” della retrogradazione del sonetto e di esso ci serviamo per studiare un campione italiano.
Sagrado Redentor, y dulce esposo, F ———-A
Peregrino, y supremo Rey del cielo G———–B
Camino celestial, firme consuelo G———–B
Amado Salvador, Jesus gracioso F———–A
Prado ameno, apazible, deleytoso F ———-A
Fino Rubí engastado, fuego en yelo G———–B
Divino amor, paciente, y santo zelo, G ———-B
Dechado perfetísimo, y glorioso F ———-A
Muestra de amor, y caridad subida, H ———-C
Distes Señor al mundo haziendo es hombre, I ———–D
Tierra pobre, y humilde a vos juntado; L ———-E
Vinistes hombre, y Dios amparo, y vida, I————C
Nuestra vida, y miserisa mejorando H ———–E
Encierra tal grandeza tal renombre. L————D
Riprendiamo il testo e la spiegazione da Juan Diaz Rengifo, Arte poetica española (Ministerio de Educación, Madrid, 1977, ristampa anastatica della princeps che è del 1592: 5).
Questo sonetto si può capovolgere, cioè leggere dalla parola finale renombre per risalire alla prima sagrado, ricreando lo schema che Rengifo descrive nello specchietto dove a retrogradazione compiuta troveremo che la rima A verrà sostituita dalla rima F, la rima B dalla rima G, e così fino all’esaurimento delle rime da A a L. È interessante vedere che nel sonetto retrogradato, si restaureranno le quartine e le terzine nell’ordine volute dal sistema strofico del sonetto. Pertanto avremo che encierra (v.14) rimerà con cierra (v.11) diventando rispettivamente rime dei versi 1 e 4, poi per le terzine venistes (v.12) rimerà con distes (v. 10) e così avremo restaurato la sequenza di quartine e terzine. La maestria nel combinare questo capovolgimento è stupefacente perché retrogradazione non significa semplicemente rovesciamento a specchio (per cui vedremmo un sonetto che comincia con le terzine e si chiude con le quartine), ma viene restaurato un sonetto del tutto normale, organizzato con una prima parte di otto versi (cioè due quartine), e una seconda di sei (ossia due terzine).
Ma vediamo un altro sonetto, questa volta italiano. L’autore è Luigi Groto, noto come Il Cieco d’Adria.
Fortezza, e senno Amor dona, non tolge
Giova, non noce, al ben, non al mal chiama
Trova non perde honor, costumi, fama
Bellezza, e castità, lega non sciolge,
Dolcezza, non affanno l’huom ne colge
Nova perfidia Amor rompe, non trama,
Prova non crucia, il duol odia, non ama
Prezza, non scherne, in buon, non in rio volge.
Vita, non morte dà, gioia, non pena,
Sorte buona, non ria, frutto non danno,
Invita il Ciel, non al Inferno mena
Accorte non cieche hor l’alme si fanno
Aita non offende, arma non svena
Forte, non molle Amor, Dio non tiranno.
Il sonetto uscì Rime nuovamente ristampate, et ricorrette dal medesimo Auttore, (Zoppini, Venezia 1601: 57) ed è ristampato nell’edizione moderna delle Rime curate da Barbara Spaggiari (Apogeo, Adria, 2014). Inoltre è stato studiato da quel grande maestro di materia metrica e “metametrica” che fu Juan Caramuel, come abbiamo visto altrove (P. Cherchi, Le meraviglie di Eco, Lecce, Milella, 2024: 130 sg.) e più recentemente da Giovanni Pozzi in Poesia per gioco (Bologna, il Mulino, 1984: 142), un autore quest’ultimo sempre illuminante per la comprensione del “gioco” letterario. Diàmone la versione “retrograda”:
Tiranno non Dio, Amor molle, non forte
Svena non arma, offende non aita
Fanno si l’alme hor cieche non accorte
Mena Inferno non al Ciel invita
Danno non frutto, ria non buona sorte,
pena non gioia, dà morte non vita
Volge rio in non buon, scherne non prezza
Ama non odia, duol il crucia non prova
Trama non rompe, Amor perfidia nova
Colge ne l’huom affanno, non dolcezza
Sciolge non lega, castità e bellezza,
Fama, costumi, honor perde non trova
Chiama male al non ben non al noce non giova
Tolge non dona, Amor senno e fortezza.
Per fortuna l’autore stesso ci dice che:
«Questo sonetto si può leggere in quattro modi. In duo si loda, e in duo si biasima amore, perché si può por la linea hora innanzi ora doppo la non. E ciascun verso si può leggere dal principio al fine, come sta notato, o cominciare dal fine di ciascun verso e venir leggendo verso il principio nel che però si deve avvertire, che gli articoli e le prepositioni si intendono come se fossero una voce sola con la parola seguente, onde non si traspongono».
Come si vede, è un sonetto molto più complesso di quanto non ci sia parso a prima vista. Comunque la retrogradazione non è perfetta, in quanto la seconda quartina ha le rime ABCD. Ora, se l’autore stesso non ci avesse allertato circa i “quattro modi” di leggerlo, saremmo mai stati in grado di sospettarne almeno quello principale della retrogradazione? Non possiamo pensare che ogni sonetto possa essere “rovesciato” perché l’esperienza normale non ci autorizza a farlo: se rovesciassimo un sonetto qualsiasi di Bembo o di Foscolo arriveremo ad avere dei non-sense. Tuttavia, anche a prescindere dalle informazioni dell’autore, vediamo che la sintassi è piuttosto schematica e i versi sono composti da due unità sintattiche che esprimono sensi “contrari”, e questo dà al sonetto un ritmo apparentemente mosso ma in realtà statico per eccesso di equilibrio. Eppure tale peculiarità non è così insolita da destare attenzione. Semmai, se per caso vogliamo considerare lo schema metrico vediamo che è il seguente ABBA/ABBA/CDC/CDC, quindi tutto normale.
Ma se per curiosità — magari per valorizzare il sonetto che nel complesso è alquanto piatto — cerchiamo qualche gioco nelle iniziali dei versi, forse un acrostico o altre figure retoriche consuete, vediamo con nostra sorpresa che le parole iniziali dei versi hanno uno schema rimico parallelo a quello delle rime normali, cioè ABBA/ABBA/CDC/DCD. Questa combinazione non ha riscontri in altri sonetti “normali”, e sospettiamo che sia voluta e non sia frutto del caso. Ciò che non è casuale deve essere programmato, e quindi avere una regola. E la scopriamo subito: vediamo che rileggendo il sonetto “alla rovescia” avremo per parole in rima quelle che nell’originale erano le parole capoverso, e le rime dell’originale diventano le parole capoverso nel sonetto retrogradato! In altre parole vediamo che l’autore ha giocato, ma il lettore non se ne accorge, a meno che anche lui non giochi, e ne scopra il gioco per proprio conto. Quindi la modalità ludica viene raddoppiata e nascosta nel senso che l’autore gioca e lascia che il lettore per proprio conto gli scopra il gioco, e in questo senso giocando anche lui con l’autore.
Le possibilità del sonetto sono straordinariamente ricche. Lo conferma il fatto che sia stato scelto dalla poetessa Emma Lazarus per celebrare la statua della libertà. Eccolo:
Not like the brazen giant of Greek fame,
With conquering limbs astride from land to land;
Here at our sea-washed, sunset gates shall stand
A mighty woman with a torch, whose flame
Is the imprisoned lightning, and her name
Mother of Exiles. From her beacon-hand
Glows world-wide welcome; her mild eyes command
The air-bridged harbor that twin cities frame.
“Keep, ancient lands, your storied pomp!” cries she
With silent lips. “Give me your tired, your poor,
Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore.
Send these, the homeless, tempest-tost to me,
I lift my lamp beside the golden door!”
Il sonetto fu scritto nel 1883 e oggi, considerate le politiche americane rispetto alle immigrazioni, ha una vivissima attualità polemica. Alla sua forza giova molto la brevità, cioè quella concisione che si vede nelle “sentenze” la cui pregnanza sta tutta nel creare una densità del messaggio combinando brevità, significato e simbolo. Il sonetto ha una struttura poetica di dimensioni minime e questo giova infinitamente a condensare contenuti carichi di significato, degni di essere scolpiti in bronzo.
Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
[*] Il testo è la trascrizione della conferenza tenuta il 16 giugno 2025 presso il Circolo Letterario italiano di Chicago,
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Paolo Cherchi, “professor emeritus” della University of Chicago, dove ha insegnato letteratura italiana e spagnola e filologia romanza dal 1965 al 2003, anno in cui è stato chiamato dall’Università di Ferrara come Ordinario di letteratura italiana, e da dove è andato in congedo nel 2009. Si è laureato a Cagliari in filologia romanza, ha conseguito un PhD a Berkley (1966). Si è occupato prevalentemente di letterature romanze nel periodo medievale e rinascimentale. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il tramonto dell’onestade (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016); Petrarca maestro. Linguaggio dei simboli e della storia (Roma, Viella, 2018); Maestri. Memorie e racconti di un apprendistato (Ravenna, Longo, 2019); Ignoranza ed erudizione. L’Italia dei dogmi verso l’Europa scettica e critica (1500-1750) (Padova, libreriauniversitaria.it.edizioni); Quantulacumque lucretiana. Nuove piste di ricerca sulla fortuna di Lucrezio nel tardo Rinascimento (Generis Publishing, 2022); Studi ispanici. Fonti, topoi, intertesti (Milano, Ledizioni, 2022). Nel 2016 è stato cooptato come socio straniero dall’Accademia dei Lincei.
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