«[…] dignity, not fear must be the foundation of human polity.»
Omri Boehm, The Reality of Ideals, Berlin 2024
Secondo il racconto biblico, un bel giorno il Nome [scil. tetragramma divino consonantico la cui vocalizzazione è incerta] [1] disse a Giona, figlio di Amittai: «Alzati, va a Ninive, la grande città, e proclama contro di essa perché il loro male è salito fino a me» [2]. Com’è noto, il personaggio Giona si dirige in direzione opposta alla città di Ninive, sale su una nave che lo dovrebbe portare molto lontano, salvo l’essere sorpresa da una terribile tempesta; per sfuggire alla quale i marinai (dopo averle provate tutte e su invito dello stesso Giona che – addormentato in fondo alla nave e quindi risvegliato dai marinai viene indicato dalla sorte come colpevole – si dichiara responsabile del malanno) lo gettano a mare.
Ma il personaggio indicato col Nome non demorde e manda un grosso pesce che inghiotte Giona, se lo tiene in pancia per tre giorni e per tre notti e quindi (sempre su indicazione del Nome) lo vomita sull’asciutto. Prosegue il racconto: il Nome «[…] rivolse una seconda volta la sua parola a Giona: Alzati, va a Ninive, la grande città, e proclama a essa il messaggio che ti dico». Questa volta Giona si comporta conformemente alle parole del Nome. Si alza, va a Ninive, la grande città (talmente grande che ci volevano tre giorni per percorrerla tutta), vi entra e vi annuncia per un giorno intero: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà rovesciata». E qui torna ad accadere l’incredibile: la gente di Ninive dà credito alle parole di Giona e chiama alla penitenza generale. Penitenza cui aderisce anche il re, estendendola persino agli animali e invitando tutti (ma proprio tutti) a una conversione senza mezzi termini: le condotte malvagie e la violenza debbono essere abbandonate. Forse, così facendo, aggiunge il re, Dio si placherà e la gente di Ninive non si perderà. Dio vede i loro atti, si pente del male annunciato e non manda la catastrofe.
Tutto è bene quel che finisce bene? Neanche per sogno! Secondo il testo Giona ci resta malissimo e supplica il Nome (la consapevolezza della cui misericordia lo aveva indotto a fuggire sulla nave) addirittura di togliergli la vita perché è meglio morire piuttosto che vivere. Al che il Nome gli dice: «Ti sembra giusto essere così arrabbiato?». Giona non risponde e torna, da autentico profeta, a preferire gli atti alle parole: esce dalla città, si prepara un rifugio e si siede, aspettando di vedere come sarebbe andata a finire veramente. Spera insomma che la penitenza ninivita non si riveli del tutto efficace…
Aspetta che ti aspetto, in pieno giorno fa un gran caldo a oriente. Il Nome gli manda una pianta (forse) di ricino (ma la cosa è incerta) per fargli un po’ d’ombra e liberarlo dal suo male. Giona, tutto felice, respira e se la gode. Ma all’alba del giorno seguente Dio manda un verme che divora la pianta fino a farla seccare e pure un vento caldo e maledetto, così forte che Giona, sentendosi mancare, torna a desiderare con tutta l’anima di morire e ripete: meglio morire che vivere [3]. Riferisce qui il testo che anche Dio più o meno si ripete tornando a chiedere a Giona: «Ti sembra giusto essere così arrabbiato per [quel che è successo al] ricino?». E Giona: «Sì, mi sembra giusto. Sono arrabbiato da morire!».
Sarei tentato di chiudere qui questa brevissima sintesi del libro di Giona [4], prima cioè della battuta e della domanda finali (4, 9-11), messe in bocca dall’autore al personaggio Nome [5]:
«Tu hai compassione del ricino per il quale non ti sei affaticato e che non hai fatto crescere, che in una notte è spuntato e in una notte è morto. E io non dovrei avere compassione di Ninive, la grande città, nella quale abitano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la destra dalla sinistra, e una grande quantità di bestiame?».
Quest‘ultimo passaggio del testo, chiaramente, gioca sull’attaccamento, tanto emotivo quanto utilitaristico, che proviamo nei confronti del vivente con cui siamo in rapporto. Attaccamento talmente vero ed empiricamente evidente da doverci manifestare, di conseguenza, nelle intenzioni dell’autore l’incalcolabile tragedia che – anche a livello più astratto (il livello cui rimanda il personaggio Nome) – di per sé costituisce la perdita di ogni vita: non solo quella umana, non solo quella di chi fa parte del nostro gruppo e non solo quella intelligente. Nondimeno: se la misericordia universale divina, per un lettore o una lettrice avvertiti, dal punto di vista esegetico risulta comprensibile a partire dal cosiddetto noachismo (v. p.e. Neher 2004: 293 s.) cioè sull’alleanza stipulata expressis verbis dopo il Diluvio (in Genesi 8, 21-22) fra Dio e ogni essere vivente (dunque né solo con gli esseri umani né soltanto con gli ebrei e le ebree), a livello politico l’universalità della missione profetica di Israele stenta a tradursi in una routine di solidarietà planetaria. E chi leggeva o ascoltava il Libro di Giona lo sapeva benissimo. Come osserva Abraham Heschel (1962: 368, tr. mia, or. in nota) [6]:
«La risposta di Dio a Giona, che sottolinea la supremazia della compassione, sconvolge la possibilità di cercare una coerenza razionale delle vie di Dio con il mondo. La storia sarebbe più comprensibile se la parola di Dio fosse l’ultima parola, definitiva e inequivocabile come un dogma o un decreto incondizionato. Sarebbe più facile se l’ira di Dio diventasse automaticamente efficace: una volta che la malvagità ha raggiunto la sua piena misura, la punizione la distruggerà. Eppure, al di là della giustizia e dell’ira, c’è il mistero della compassione».
Passati due millenni (fatti anche di ottima esegesi), la compassione universale è ancora, evidentemente, un mistero. E infatti il Libro di Giona (la cui fortuna non conosce crisi) non l’afferma come un comandamento politico radicale: si limita a narrarla come un enigma, una possibilità tanto reale quanto dolorosa [7]. Come osserva il grande biblista Luis Alonso Schökel, nella prefazione al testo della sua traduzione in spagnolo, l’originalità di Giona fra gli altri profeti è tutta in questa sua ribellione violenta alla propria missione [8]. Di fronte alle ingiunzioni del Nome (ma ancor di più di fronte alla sua libertà di smentirsi) Giona si rivolta non solo fino alla nausea (come accade a diversi profeti) [9] ma addirittura con violenza. Una violenza tutt’altro che astrattamente verbale o pietosamente suicida: pur di non salvare Ninive Giona sarebbe disposto a far pagare ai poveri (e totalmente innocenti) marinai il proprio rifiuto di predicarvi. Forse Giona, piuttosto che dal Nome, impara la compassione e il rispetto proprio da questi marinai che cercano fino all’ultimo di salvarlo: in 1, 13-14 si legge infatti che a) provano ad avvicinarsi il più possibile alla riva; b) pregano il Nome (cioè il dio di Giona e non gli altri dèi); e c) chiamano la vita che stanno per sacrificare (cioè quella di Giona) innocente. Chiedendo al Nome di non dover morire per l’omicidio che stanno per commettere, dimostrano di essere perfettamente coscienti di ciò che implica e significa provocare la perdita di una vita qualunque. Cosa che non si può affermare per Giona, in fondo alla nave, (1, 5) addormentato e quindi indifferente alla tempesta che avrebbe ucciso anche i marinai. Soltanto il confronto dialogico ed equo (tirate, cioè, le sorti) con i marinai lo convince dell’irresponsabilità e dell’ingiustizia del suo comportamento.
Ma Ninive, sembra chiedersi Giona, va veramente salvata? In quanto capitale degli aggressivi Assiri (già sepolta dalla Storia al momento della redazione del testo e quindi pura metafora) [10], è una città non soltanto gentile e idolatra ma anche nemica e nefasta e, dunque, colpevole agli occhi di Israele. È vero che Giona si fa gettare in mare dai marinai per salvarli, ma se il grande pesce non lo avesse riportato a terra (se Giona fosse dunque, com’era nelle sue intenzioni, morto), Ninive non sarebbe stata salvata. Recandosi a Ninive al secondo appello Giona sembra aver imparato la lezione, ma qualcosa in lui, alla fine della storia, gli impedisce di metterla veramente in pratica. La sua capacità di compassione tocca nuovamente il suo limite.
Giona è, insomma, nella posizione di chi, ritenendo che il male debba essere interamente sradicato, è più che disposto (e/o disposta) a sacrificare anche qualche bene (inclusa la fedeltà a qualcuno dei propri criteri etici più importanti) [11]. È questo suo tratto antropologico di giustificazione della violenza, piuttosto che quello teologico della tradizionale misericordia universale del divino che credo debba esser messo in risalto oggi. Non perché, in spirito post-teista [12], debba un’antropologia essere sempre preferibile a una teologia – e basterebbero le intercessioni di Abramo per Sodoma e Gomorra (Genesi 18, 17-33) o quella di Mosè per gli Israeliti (p.e. in Esodo 32, 11-14), entrambe accolte dall’istanza divina, a rovesciare la prospettiva e a rivelare la vanità di quest’opposizione nell’universo testuale della Bibbia– ma perché questa rivolta violenta verso un principio di solidarietà planetaria radicale è oggi più che mai all’ordine del giorno delle nostre agende politiche e lo è esattamente nei termini apparentemente pacifici e vagamente suicidi di Giona. Mi spiego: fino a pochissimi anni fa molti di noi avrebbero non solo condiviso l’universalità del valore della vita ma avrebbero anche intravisto una certa barbarie nell’atteggiamento di Giona. Sarebbe troppo semplice imputare questa forma di regressione soltanto al clima di tensione (o aperta aggressione) internazionale recentemente scatenato da quelle che un tempo si chiamavano le Grandi potenze: che chi si senta sotto attacco pensi a difendersi è ovvio; che sia disposto (o disposta), facendolo, a sopprimere del tutto il meglio della propria identità (magari pensando di difenderla, come capita a chi sente continuamente il bisogno di brandirla) richiede invece qualche spiegazione e qualche proposta di contromisura.
Per assurdo, sorprendente e seriamente indesiderabile che appaia, quel che sta accadendo è, per così dire, normale e obbedisce a mio modo di vedere, nei termini e nel senso di Bernard Lahire [13], a una legge sociologica fondamentale e cioè alla selezione di parentela ovvero preferenza per il simile: “preferire” i propri figli e le proprie figlie a quelli e quelle altrui, i propri parenti, amici, vicini di casa, connazionali, tifosi della stessa squadra, condomini rispetto a chi non è nulla di tutto questo…. Il senso della selezione (o preferenza) è ovviamente quello di limitare i conflitti e aumentare l’efficacia della cooperazione (che può essere riproduttiva, almeno all’inizio, come nel caso dei figli, o puramente e variamente estensiva, come nel caso dei condomini o dei sodali di partito). Il rovescio di questa bella medaglia è però doppiamente negativo: in primo luogo non è possibile avere un noi senza automaticamente creare un loro; in secondo luogo si tende a considerare (per definizione) il noi come migliore rispetto al loro. Creare un’identità che ci interessa implica insomma un giudizio di valore (che finisce per diventare inconsapevole), orientato ai poli semantici pro-/regressivi “umano-nonumano”, giudizio, va da sé, implicitamente ingiusto nei confronti di tutte quelle identità di cui non facciamo parte [14]. Questo giudizio di valore ovviamente prepara, alimenta e giustifica non solo le pratiche di una difesa legittima ma anche quelle intolleranti, violente o del tutto inumane che rischiamo di attivare ogni qual volta la prossimità diventa problematica.
Da questa prospettiva la legge di selezione di parentela tende dunque a una contraddizione: da una parte (ad intra) elimina conflitti – stante la gerarchia sociale per cui chi è arrivato o arrivata dopo, se vuole sopravvivere, deve ascolto e obbedienza al simile che lo ha preceduto o preceduta –, dall’altra (ad extra) li stimola, dando luogo a faide insensate e sempre meno umane e a un livello di tolleranza della violenza sempre più prossimo all’indifferenza [15]. Se si aggiunge a questa contraddizione di fondo il fatto che, essendo i gruppi umani post-neolitici estremamente grandi e complessi (e agendo la legge di selezione di parentela non a intermittenza ma in modo continuo), si vede bene che a scuotere gli assetti noi-loro basta poco: gli appelli più o meno imperiosi a nuove identità (come pure le sofferenze, i disagi, le paure e le ingiustizie che possono provocarli) non sono un’eccezione ma la regola della vita sociale. Di conseguenza nessuna solidarietà (da quella familiare a quelle civili o ideologiche) può essere data mai per scontata [16]; né la rivolta violenta di Giona (o la sua attualità) e neppure la fatica (probabilmente vana) che deve fare il personaggio Nome per convincerlo della correttezza di un comportamento universalista e misericordioso dovrebbero, in fondo, sorprenderci.
Se la pentola sociale è sempre sul punto di bollire, mi sembra giusto, perché l’acqua non si versi, proporre alcune possibili contromisure, pur nella coscienza della loro pochezza rispetto alla serietà del problema. Ne ho identificate essenzialmente tre. Le prime due vengono indicate già da Lahire come normali, ovvero già in opera in tutte le società umane. Si tratta delle contromisure, insomma, strutturali che usiamo (noi esseri sociali) per evitare che la dinamica identitaria sfoci in violenza.
La prima è quella più semplice e consiste nell’invenzione neolitica di creare un monopolio del suo esercizio. Chi vive in uno Stato nazionale o federale odierno – in cui questo monopolio è rispettato e imposto con fermezza e (nel migliore dei casi) umanità da specialisti autorizzati, controllati dalla legge e pagati con soldi pubblici – ha qualche difficoltà a immaginare cosa può essere la vita quotidiana in posti in cui le cose non stanno del tutto, o per nulla, così: mi riferisco a tutta quella serie di luoghi che va dai Paesi in guerra a quelli controllati dalle mafie fino alle cosiddette, famigerate e terribili, No law zones. Si tratta di realtà abbastanza lontane dall’esperienza di alcuni di noi ma è chiaro che lo scarto fra legalità, sicurezza e pace e l’inferno contrario è meno grande di quanto sembra e se è vero che atti di violenza possono avere la forza di cancellarlo, alla larga legalità, sicurezza e pace non possono fondarsi soltanto sull’esercizio monopolista della forza.
Questa prima contromisura è sostenuta perciò di norma da una seconda, legata alla dinamica comunicativa che rende possibile una corretta selezione di parentela senza corredarla automaticamente di metodi coercitivi violenti. Per comprenderne la portata è utile riprendere e seguire l’intero ragionamento di Lahire riguardo alla legge della selezione di parentela o preferenza del simile: se la questione di fondo resta quella di garantire la conservazione-riproduzione-estensione del proprio “portato”, gli animali sociali (non solo quelli umani) non hanno sempre vita facile quando si tratta di stabilire la prossimità di un altro individuo a se stessi o a se stesse. L’essere ovipari o vivipari, osserva Lahire, influenza moltissimo il processo selettivo: la madre che ha esperienza diretta e (nel migliore dei casi anche) cosciente del parto sa ben distinguere fra chi le è molto simile perché le è parente e chi parente non è per nulla (ed è dunque dissimile) ma come fare quando questa esperienza manca o quando – caso che include sia gli animali ovipari che quelli vivipari – si incontra una moltitudine di esseri alla cui nascita neanche le madri erano necessariamente (o coscientemente) presenti? I ricorsi semiotici sono tantissimi in natura: dai segnali olfattivi di origine biologica (p.e.) delle formiche a quelli simbolico-culturali degli esseri umani. Questo passaggio progressivo dalla rigidità della dimensione fisica alla liquidità eterea delle rappresentazioni segniche permette agli esseri umani non solo di specificare (e dunque calibrare) il grado di prossimità fra due individui (essere figli o fratelli o cugini o amici o compagni non è la stessa cosa) ma anche di fingerlo ovvero di provare a crearlo fingendolo: così in Sicilia siamo tutti cugini, i giovanissimi del mondo intero si vogliono bro(ther), cristiani e cristiane si sforzano di essere fratelli e sorelle, e chi cerca di convincere Israele e Palestina a far la pace rinvia (con pochissima fortuna) alla comune discendenza abramitica [17].
La manifesta insufficienza a contenere guerra e violenza delle prime due contromisure ne rende necessaria una terza, che se non è normale (nel senso delle altre due) neppure è del tutto inedita. Si tratta di qualcosa che non è veramente nuovo e che tuttavia tende a sembrare sempre fuori luogo, anche nella nostra contemporaneità che, a mio modo di vedere, ci trova come Giona, seduti e sedute ad attendere e forse anche sperare che qualcuno non si salvi. Tanto la domanda insistente (Ti sembra giusto essere così arrabbiato?) che l’osservazione finale del Nome circa la compassione universale sorgono, infatti, con qualche approssimazione, nelle migliori menti umane proprio quando le tensioni identitarie rischiano di tradursi in aperta e disumana violenza. Come ognuno potrà verificare a partire da qualsiasi commento, è, del resto, possibile (non certo) che gli autori del Libro di Giona (e di quello di Rut, specie relativamente alla questione dei matrimoni misti fra ebrei e donne di altre popolazioni) rispondessero con le loro narrazioni a una ventata di nazionalismo estremo (dai forti tratti xenofobi e violenti) che caratterizzò parte della storia post-esilica di Israele [18].
Penso, di conseguenza, che la terza contromisura necessaria consista nel creare uno spazio in cui, nonostante tutto e specialmente quando le strategie simboliche tradizionali non riescono più a convincere nessuno a non usare violenza o addirittura spingono a farlo, abbia ancora senso porre a qualcuno la questione regolativa della compassione universale, del dovere di una solidarietà di base che garantisca a chiunque, sino a quanto possibile e un po’ di più [19], il diritto di esistere. Come ha efficacemente osservato il filosofo israeliano Omri Boehm (2022, tr. mia, or. in nota) [20]:
«In un’epoca in cui dobbiamo rafforzare la democrazia liberale occidentale in Europa e contrastare l’ascesa delle politiche di estrema destra e dei nazionalismi etnici, nonché affrontare le catastrofi globali e le ondate migratorie, dobbiamo decidere se aggrapparci all’idea dell’umanesimo universale come una bussola, persino come un’arma, o se costruire una società in cui questa idea viene derisa e disprezzata».
Anche il filosofo senegalese (e musulmano) Souleymane Bachir Diagne (2024a) ha proposto di rilanciare l’universalismo, aggiungendo però che dovrebbe essere ripensato in termini postcoloniali, superando cioè il relativismo implicito in tutte le posizioni particolariste (anche quelle anticolonialiste o woke) [21]:
«[…] dobbiamo pensare in termini di pluralità e decentramento del mondo, contro una configurazione che lo trasformerebbe in una giustapposizione di centrismi, separatista per definizione: un mondo di tribù. Contro la frammentazione irriducibile, dobbiamo ricordare che ciò che si insegna deve essere universalmente valido.» (tr. mia, or. in nota) [22]).
Diagne, in questo passo, sta parlando dell’insegnamento universitario della filosofia ma è evidente anche per lui che la questione va ben al di là delle aule universitarie[23]. L’universalismo dovrebbe essere visto più che come una disciplina astratta come una prassi tanto che Diagne al sostantivo preferisce il verbo del titolo del suo libro: universalizzare (universaliser). Questa prassi prevede come prima operazione quella di decentrarsi: smettere di considerarsi, secondo lo schema di Lahire, come necessariamente migliori. È ovvio che per decentrarsi è necessaria un’operazione di traduzione, di apprendimento delle lingue e delle culture altrui. Diagne si riferisce qui esplicitamente al concetto di universale laterale di Maurice Merleau-Ponty, la pratica del quale consisterebbe nel fare dell’esperienza etnologica non uno strumento di dominio colonialista ma un’ «[…] incessante messa alla prova dell’altro da parte di se stessi e di se stessi da parte dell’altro.» (tr. mia, or. in nota) [24]. Abdicando all’idea fisiologica di essere gli unici esseri veramente umani al mondo, ci si mantiene aperti ed aperte all’idea più realistica di non esserlo ancora. Per portare a termine quest’operazione transidentitaria di decentramento è dunque necessario avere un’idea di umanità non soltanto astratta – come in fin dei conti sostiene Boehm [25]– ma anche, con Diagne, destinale e collettiva ovvero (la parafrasi è mia e non di Diagne) come compito da svolgere il più equamente possibile e su un piano di uguaglianza insieme a tutto il resto dei viventi [26].
Ma bisogna intendersi bene. La prassi di decentramento transide.titario non è un vezzo da etnologi o sognatori (e corrispettivi femminili). Secondo Boehm l’ universalismo non allude a un diritto; casomai richiama a un dovere (Pflicht) [27]. Affermare che l’uguaglianza è un’ottima idea, continua Boehm, significa sminuire l’impatto sul nostro essere di quel che concettualizziamo con questa parola e, in ultima analisi, non comprenderne la forza [28]. Seguendo Kant, di cui è un grande esperto, il filosofo israeliano afferma (tr. mia, or. in nota) [29]:
«[...] ciò che rende umani gli esseri umani non è una qualità naturale, ma la loro libertà di seguire l’obbligo delle leggi morali. Poiché gli esseri umani sono aperti alla domanda su ciò che devono fare, sono essi stessi soggetti di assoluta dignità».
Il grande merito di Kant [30], prosegue Boehm, è stato quello di permetterci di vedere, dalla nostra visuale identitaria, che la parte migliore del monoteismo biblico non stava nell’imposizione mosaica universale di un dio geloso (come hanno sostenuto Spinoza, Nietzsche, Freud e, più, recentemente Jan Assmann) ma nell’aver sottomesso persino la divinità a un concetto di giustizia che supera ogni autorità [31]. Obbligarsi a seguire una morale assoluta (cioè al di là di ogni legge e identità) non significa dunque obbedire a tutti i costi, ma piuttosto sentire il dovere di disobbedire, se lo si ritiene necessario a partire da criteri etici universalizzabili, costi quel che costi [32].
Si può obiettare alle riflessioni di Diagne e Boehm che, al di fuori dall’universo filosofico di un Kant, non c’è nulla di veramente universale (men che meno l’uguaglianza identitaria invocata da Diagne e quella individuale, personale, postulata da Boehm) e che tutte le leggi che ci sono in giro (anche quelle fondamentali di Lahire) sono necessariamente di qualcuno [33]. Ma il succo della questione resta: richiamare a una prospettiva universalista è un ottimo antidoto sia alla pratica della violenza che alle sbornie identitarie fisiologiche di ogni società e di ogni potere, latrici di ingiuste disuguaglianze. Impossibile non pensare a figure disobbedienti come Dietrich Bonhoeffer, Martin Luther King, Henry David Thoreau, Hannah Arendt, Nelson Mandela, Paolo Borsellino. Potrei continuare ad aggiungere nomi a questa lista ma non credo ci sia bisogno di prolungarla all’infinito per comprendere che la contromisura universalista alla legge fondamentale di selezione di parentela e preferenza del simile non è né una passeggiata di salute nel politicamente corretto (come forse la lettura classica, quando non confessionale, del Libro di Giona, incentrata sulla misericordia divina potrebbe suggerire) né un’utopia irrealizzabile ma qualcosa di troppo prezioso e importante per escluderla – vuoi per realismo, vuoi per pragmatismo – dal tavolo delle discussioni, estromettendola del tutto dallo spazio sociale.
La prassi di decentramento transidentitario, che fa l’universalismo, ricorda molto da vicino quel che in prospettiva post-teista Augusto Cavadi chiama spiritualità laica: uno spazio di umanità da creare (o mantenere) a tutti i costi, dove la trasmissione culturale di ogni portato identitario – fatto di religioni e saggezze tradizionali proprie e altrui, di storia, autocritica ed equilibrio – non fa a pugni né con le scienze (naturali e sociali) né con l’agnosticismo né con la ricerca seria di principi etici veramente universali (ovvero non anti- ma transidentitari) ma soltanto con la leggerezza di chi rifiuta a tutti i costi di pensare con un minimo di oggettività [34]. Il Libro di Giona costituisce un momento di spiritualità laica? Direi proprio di sì: sia il personaggio Giona che quello indicato col Nome sono costretti a decentrarsi, parlano con identità straniere (i marinai) e nemiche (Ninive) e rinunciano (il secondo di buon cuore, il primo molto meno) alla violenza come sola contromisura all’ingiustizia perché vedono che anche i loro interlocutori, tanto i marinai che Ninive, si decentrano e li ascoltano.
Questo decentramento produce giustizia e uguaglianza? Direi ancora una volta di sì anche se con un po’ meno enfasi. Il male di Ninive che è salito fino al Nome (1,2), quello di cui il Nome si pente (3,10 e 4,2) e dal quale Giona viene liberato (4,6) sta probabilmente per una serie di intenzioni violente: gli Assiri avevano distrutto il Regno del Nord, in assenza di un loro pentimento elohim minacciava distruzione e Giona, grondando di risentimento, sotto sotto ma neanche troppo, ci sperava. In cosa consiste la penitenza di Ninive? (3,5-6) Digiunare e vestire abiti da lutto dal più grande al più piccolo di loro; anche il re si alzò dal suo trono, si tolse di dosso il mantello regale e sedette sulla polvere. Raggiunta quella che sembra una misura di azzeramento radicale delle disuguaglianze (nessuno mangia, nessuno – neanche gli animali – è più in alto o più in basso degli altri) si tratta quindi di (3,8) convertirsi dalla condotta malvagia (che immagino sia quella che crea disuguaglianze senza troppo pensarci) e dalla violenza che è nelle proprie mani (che immagino sia il mezzo per mantenerle o aumentarle queste disuguaglianze anche nei confronti di chi non è ninivita).
Se non ci sono dubbi per quanto riguarda l’uguaglianza bisogna ammettere onestamente che riguardo alla giustizia la risposta è forse. L’universalismo costituisce certamente il modo migliore di evitare il più possibile violenze e ingiustizie future, specie se, come Ninive, si è abbastanza assennati e assennate da dar credito al suo messaggio e talmente seri e serie nell’autocritica da cambiare radicalmente atteggiamento. E per quanto riguarda le ingiustizie passate? Su queste basi c’è da credere che una qualche forma di accordo si troverà: la storia ha già registrato volontà e forme di riconciliazione fra identità violentemente rivali. Per quanto riguarda l’Europa le prime che mi vengono in mente sono quella ancora debole della pace di Westfalia e quella più forte del secondo dopoguerra che ha portato all’Unione Europea. Giustamente celebre anche la vicenda sudafricana (v. Diagne, 2024b). Si dirà che si tratta di equilibri molto fragili, talmente fragili da risultare passeggeri. Sarà: ma quelli che li hanno preceduti e che li seguiranno, da questo punto di vista, non saranno diversi. Perlomeno quelle volontà e quelle forme, ispirate da e orientate all’universalismo, ci hanno permesso un po’ più di uguaglianza, giustizia e libertà: un po’ più di umanità.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Riporto con questo stratagemma ebraico quel che nel testo è reso con il nome proprio della divinità ebraica, mentre rendo con Dio il termine generale originale (notoriamente plurale) elohim.
[2] Tr. di Scaiola (2012), indicazione valida anche per le prossime citazioni.
[3] Ogni commento rimanda giustamente a questo punto al profeta Elia (I Re 19,4). Qualcuno anche a Tobia 3, 6; Giobbe 3,1-3 ; 7,15 / 10, 18-19 / 17, 13-14. E ancora: Esodo 32,32 ; Numeri 11,15; Geremia 20, 14-18.
[4]Anche Scaiola (2012: 74) ricorda che il testo potrebbe pure finire qui.
[5] Che il testo finale risulti contraddittorio e risulti da varie redazioni è evidente. Sicre (2011: 351-356) offre un orientamento breve, chiaro ed efficace sui versetti e i passi chiave della questione.
[6] «God’s answer to Jonah, stressing the supremacy of compassion, upsets the possibility of looking for a rational coherence of God’s ways with the world. History would be more intelligible if God’s word were the last word, final and unambiguous like a dogma or an unconditional decree. It would be easier if God’s anger became effective automatically: once wickedness had reached its full measure, punishment would destroy it. Yet, beyond justice and anger lies the mystery of compassion.»
[7] Ovvio e arcinoto, al riguardo, anche il riferimento esegetico al dialogo fra il Nome e Abramo (in spirito specularmente contrario a quello di Giona) circa il destino di Sodoma e Gomorra in Genesi 18, 17-33.
[8] Fra i commenti a me noti (per brevità rimando chi legge a dare una scorsa alla bibliografia in fondo al testo) nessuno fa risaltare questo aspetto violento del personaggio Giona come il breve testo di Schökel.
[9] V. tutte le reazioni dei profeti (per i passi corrispondenti v. n. 3) verso la libertà (anche quella di smentirsi) di Dio, libertà che, dal loro punto di vista, vanifica la loro missione. Cf. Neher (2004: 341 e 366 s.).
[10] Forse metafora della stessa Gerusalemme, visto che la distruzione del Regno del Nord da parte degli Assiri risaliva al 722 aev. mentre la redazione del Libro le succede probabilmente di tre secoli (v. Scaiola 2012 e la n.18 di questo articolo).
[11] Come chi (pacifico cittadino, o cittadina, di una democrazia occidentale), guardando un thriller o un giallo, ha voglia di punire il colpevole e, se la trama glielo permette, gode nel vederlo soffrire.
[12] Paradigma che elimina infausti steccati ideologici e garantisce il dialogo fra credenti e non-credenti sulla base di una dimensione spirituale comune (v. p.e. Cavadi, 2021 e Azzarello, 2024).
[13] (2023). Le riflessioni (interdisciplinariamente fondate) di Lahire sono illuminanti quanto complesse. Troppo complesse per presentarle adeguatamente nello spazio di un articolo. Non posso che limitarmi a rimandare chi avesse bisogno di ulteriori chiarimenti alla fonte. Per aiutare chi legge aggiungo (senza alcuna pretesa di vera chiarezza o sufficienza) l’essenziale. Il sociologo francese propone una sorta di architettura fondamentale della socialità costruita, su un primo livello di (tr. mia) grandi fatti antropologici universali (p.e. il lungo sviluppo extrauterino del feto, la socialità, la simmetria bilaterale, la divisione sessuale e del lavoro riproduttivo), a un secondo livello una decina di linee di forza universali sottomesse a variazioni culturali permanenti (p.e. la necessità di reperire le risorse per la sopravvivenza o quella di regolare i rapporti di parentela – in particolare quelli fra genitori e prole, centrale nella sua teoria– o il rapporto fra i sessi/generi, o la trasmissione culturale, o l’espressività simbolica) e, infine, al terzo livello ben 17 leggi sociologiche maggiori (il numero, avverte Lahire, potrebbe essere rivisto) che riflettono necessità funzionali alla vita sociale e agiscono limitando (in linea di principio) la variabilità culturale. Fra queste leggi Lahire enumera (p.e.) la legge di conservazione-riproduzione-estensione di ogni società, quella relativa allo scarto fra chi trasmette o chi riceve un capitale culturale, quella della prevalenza dell’anteriore sul posteriore ecc.
[14] La grande e ottima bibliografia di Lahire non lo contiene per cui rimando sulla questione dell’identità (caratteristiche, dinamiche di formazione, vantaggi e svantaggi inclusi) anche ad Appiah (2018).
[15] Fra il 1485 e il 1501 a Toledo, per ordine dell’Inquisizione, furono bruciati vivi 250 individui. In media si tratta di più di 15 persone all’anno. Traggo l’informazione da Kamen (1998) che a sua volta la riprende da Fita y Colomé (1887).
[16] Come potrà facilmente verificare chiunque abbia la possibilità di ascoltare i racconti di uomini e donne di etnia ebraica sopravvissuti alla Shoah, specie per quanto riguarda le descrizioni dell’atmosfera di vita e dei rapporti coi vicini o i compagni e le compagne di scuola prima e dopo l’arrivo al potere di nazisti e naziste in Germania. La USC Shoah Foundation ha raccolto diverse testimonianze, parzialmente visionabili sulle piattaforme video più comuni.
[17] Lahire, appoggiandosi su diverse fonti, sottolinea la tendenza a usare anche per rapporti di parentela non genetica etichette del lessico familiare, che assicurano un’analogia immediata fra la virtualità (visibile) dei segni e la realtà (invisibile) dei geni. Gi aggettivi fra parentesi sono miei. Si pensi anche al titolo del saggio di Appiah in bibliografia, che parla di lies that bind (bugie vincolanti, tr. mia).
[18] Periodo cui si riferiscono Esdra 9 e 19 come pure Neemia 13, 23-30. V. (p.e.) Mazzinghi (2013), Lligadas (2019: 7-25), Lupovitch (2010) e Bianchi (2011). V. n. 10.
[19] Intenderei così il ricorso al grande pesce e in generale all’incredibile nel Libro di Giona, inteso post-teisticamente, non come parola divina indiscutibile ma come stimolo umano (con o senza ispirazione divina) perché umani ed umane riflettano.
[20] «Während wir in eine Epoche eintreten, in der wir die westliche liberale Demokratie in Europa zu stärken und den Aufstieg rechtsextremer Politik und eines ethnischen Nationalismus zu bekämpfen haben, zudem mit globalen Katastrophen und Migrationswellen konfrontiert sind, ob wir an der Idee des universellen Humanismus als einen Kompass, sogar als einer Waffe festhalten, oder ob wir eine Gesellschaft hervorbringen, in der diese Idee verspottet und verachtet wird.»
[21] Posizioni cui Diagne, insieme a tanti meriti, riconosce il demerito dell’aspetto violento legato alle loro versioni più esasperatamente identitarie. Diagne, al di là del wokismo, si appoggia sulle riflessioni e le proposte di un gran numero di pensatori e di pensatrici di tutto il mondo: da Teilhard de Chardin a Simone Weil, da Léopold Sédar Sanghor a Aimé Césaire, da Francis Wolff a Étienne Balibar, da Immanuel Wallerstein a Maurice Mérleau-Ponty, da Henri Bergson a Susan Neiman solo per citarne qualcuno.
[22] «[…] il nous faut pensar le pluriel et le décentrement du monde contre une configuration qui en ferait une juxtaposition de centrismes, séparatistes par définition : un monde de tribus. Contre la fragmentation irréductible il nous faut rappeler que ce qui s’enseigne doit valoir universellement.»
[23] Più avanti si riferirà criticamente a Hegel e al mito della filosofia come affare esclusivamente greco e all’Europa come solo agente filosofico possibile.
[24] «[…] incessante mise à l’épreuve de l’autre par soi et de soi par l’autre.»
[25] V. n. 30.
[26] Tenere presenti questi requisiti (astrattezza e compito collettivo) e queste dimensioni (uguaglianza e giustizia) di ciò che dovremmo pensare come umano salverà chi lo faccia dall’avere un’identità universalista che lo o la separa da chi non ce l’ha? Probabilmente no ma sicuramente lo e la aiuterà a interrogarsi di continuo circa le proprie motivazioni, specie in caso di conflitti. Secondo Boehm l’universalismo implica una cessione di potenza. Credo che Boehm abbia ragione e sono sicuro che anche Lahire gliela darebbe.
[27] Se a dirgli di andare a Ninive fosse stato suo cugino, Giona molto probabilmente non avrebbe preso la nave per Tarsis o, se l’avesse presa, chi avesse letto la storia avrebbe semplicemente pensato che stesse andando in vacanza.
[28] Boehm ricorre in questo contesto addirittura alla parola verità (Wahrheit): secondo il filosofo parlare dell’uguaglianza come di un’ottima idea ne sminuirebbe la verità. Io preferisco restituire il suo pensiero in una veste più prudente.
[29] «[…] Was Menschen menschlich macht, ist keine natürliche Eigenschaft, sondern ihre Freiheit, ihrer Verpflichtung auf moralische Gesetze zu folgen. Weil menschliche Lebewesen offen für die Frage sind, was sie tun sollen, sind sie selbst Subjekte von absoluter Würde».
[30] Osserva lo stesso Diagne (con Susan Neimann e Antoine Lilti) che la formula sapere aude, nata in un’Europa stremata dai bagni di sangue delle guerre di religione e alla ricerca di una postidentità universale basata sul concetto di umanità, esprimeva già molto bene la capacità di universalizzare. Alla ricerca, come Diagne, di un concetto serio di universalismo, Boehm trova nel pensiero di Kant (e non nell’intero Illuminismo) il nocciolo che sta cercando. Contro la riduzione illuminista degli esseri umani ad animali intelligenti (kluge Tiere avrebbe poi detto Nietzsche) da manipolare e schiavizzare Boehm insiste su un concetto astratto di umanità. Sarebbe poi l’aspetto metafisico della questione, secondo Boehm, a rendere questa umanità soggetto potenziale di un umanesimo universale, cioè indipendente dalle convenzioni, dai desideri o dalle ottime idee di alcuni esseri umani. Senza questo aspetto ogni universalismo si ridurrebbe infatti a mera Identitätspolitik e precisamente a quella di chi in questo momento, dall’alto della propria (presunta) superiorità religiosa, tecnologica, economica ha la forza materiale di proporlo. Come afferma lo stesso Diagne (tr. mia, or. a seguire fra parentesi): «Universalizzare non significa allearsi, dall’esterno, con un’identità particolare a cui poi prestare il sostegno della propria: non mi alleo, mi riconosco in una causa comune, che è altrettanto mia, perché mira alla giustizia, all’umanità, al di là di una semplice addizione tattica o strategica di identità». («Universaliser n’est pas s’allier, de l’extérieur, à une identité particulière à laquelle on viendrait alors apporter le soutien de la sienne propre : je ne m’allie pas, je me reconnais dans une cause commune, qui est tout autant la mienne, car elle est visée de la justice, de l’humanité, au-delà d’une simple addition tactique ou stratégique d’identités»). .
[31] Boehm chiama differenza abramitica questa innovazione fondamentale del monoteismo biblico, alludendo all’intercessione di Abramo presso la divinità a favore di chi viveva a Sodoma e a Gomorra. Al riguardo v. n. 7. Sugli aspetti universalisti del monoteismo biblico (specie per quanto riguarda l’idea non-identitaria di una umanità) v. anche Boehm 2024.
[32] Impossibile non pensare alla dialettica fra Themis, Dike e Nomos (v. Cacciari/Irti 2019). Valga questo come rimando generale all’universo concettuale greco (da Esiodo a Sofocle e da Platone ad Aristotele), la cui abbondanza e profondità di riflessione su questi temi è talmente imponente da avermi sconsigliato di affrontarla con la dovuta qualità scientifica nel pochissimo spazio disponibile in questo articolo.
[33] Cf. per tutte le critiche secondo me possibili alla posizione universalista Azzarello (2024).
[34] Aggiungo per completezza che Cavadi (2021) – ma questo autore ha dedicato diversi altri lavori a questo tema non presenti in bibliografia– considera l’espressione spiritualità laica equivalente a filosofia. V. anche n. 33.
Riferimenti bibliografici
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Francesco Azzarello, è stato segretario della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, ha partecipato a varie attività antimafia collaborando con diverse associazioni palermitane. In Germania dal 1997, ha studiato Filologia romanza e Filosofia a Colonia. Dal 2003 insegna Filologia romanza a Friburgo. Oltre alle pubblicazioni accademiche in linguistica, letteratura e storia della cultura ha scritto di mafia, filosofia, teologia interreligiosa e altro. Dal 2015, con alcuni amici, accompagna diverse famiglie di profughi nel percorso di integrazione in Germania.
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