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Ghetti o accoglienza per i dannati della nostra terra. Dopo i fatti di San Ferdinando

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2019 @ 01:45 In Migrazioni,Società | No Comments

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Corteo su “Verità e giustizia per Soumaila Sacko”, 23 giugno 2018 (ph. Dario Condemi)

di Giovanni Cordova

Lo scorso primo febbraio, nella sala consiliare del municipio di San Ferdinando (Reggio Calabria) è stato presentato il “Comitato per il riutilizzo delle case vuote della Piana da parte di lavoratori locali e migranti”. Studiosi, operatori sociali e volontari dovranno farsi carico di operazioni di studio e mediazione, sia istituzionale che comunitaria, per tentare di ovviare al disagio abitativo esistente nell’area della Piana di Gioia Tauro. Disagio abitativo la cui implacabile fotografia è rappresentata dalla tendopoli-ghetto di San Ferdinando, in cui nella stagione agrumicola vivono tra i 3000 e i 5000 braccianti stranieri, nonostante l’ingente patrimonio abitativo non utilizzato nella stessa area, abbandonato in condizioni di precarietà e incuria.

Nelle ore in cui questo breve contributo viene ultimato, un rogo – il terzo in tre mesi – divampato nella notte tra il 15 e il 16 febbraio si porta via un ragazzo senegalese, Moussa Ba, di 29 anni. Dopo l’ennesima tragedia – annunciata – pare che a breve prenderà avvio il definitivo trasferimento dei braccianti che vivono nella baraccopoli di San Ferdinando. Non sono state ancora definite le modalità con cui il trasferimento avverrà. Né è chiaro se tale operazione assumerà la forma di uno sgombero in nome della lotta al degrado, come annunciato dai tweet del Ministro degli interni, o di un ricollocamento sul territorio in direzione dell’accoglienza diffusa. Quest’ultima potrebbe essere facilitata, almeno in linea teorica, dalla disponibilità della regione Calabria a contribuire alla realizzazione di forme di accoglienza diffusa [1] che segnino una discontinuità con l’organizzazione istituzionale di ghetti fin qui perseguita.

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Il rogo della tendopoli di San Ferdinando

Ghetto di Stato

Sarebbe più corretto, tuttavia, parlare di tre tendopoli, dal momento che nel corso degli anni le istituzioni hanno affiancato al nucleo ‘storico’ della vecchia tendopoli un’altra tendopoli in cui ospitare circa 500 persone, dopo l’incendio divampato lo scorso anno nel vecchio campo e in cui ha perso la vita la ragazza nigeriana Becky Moses. Una tendopoli che è emanazione della sempiterna logica emergenziale e provvisoria, figlia del registro temporale su cui si muovono gli attori di governo nel territorio.

A fine 2018, poi, altri capannoni sono stati predisposti in seguito a un incendio in cui ha trovato la morte il non ancora diciottenne Suruwa Jaiteh, cittadino gambiano. Un ciclo esistenziale, per i braccianti e tutti gli abitanti del ghetto di San Ferdinando, scandito da fiamme e lutti.

Stando al rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro elaborato da MEDU – Medici per i diritti umani  – nel 2018, almeno il 60% dei lavoratori migranti stagionali della zona si concentra nella vecchia tendopoli della zona industriale di san Ferdinando, dove vive in condizioni di estrema precarietà igienico-sanitaria, privata di acqua potabile, tra depositi improvvisati di plastica e rifiuti bruciati e bombole a gas impiegate per riscaldarsi, causa di frequenti roghi.

Negli ultimi anni, l’andamento del quadro geopolitico internazionale e l’evoluzione delle politiche migratorie nel fortificato contesto europeo hanno prodotto non soltanto l’aumento della popolazione della baraccopoli, in cui nel tempo della raccolta agrumicola si stima la presenza di oltre cinquemila braccianti, ma anche la cronicizzazione del fenomeno.

La dimensione dello sfruttamento lavorativo nelle campagne della Piana di Gioia Tauro è quanto meno dirimente ai fini della puntuale comprensione dell’intera questione. Al punto che soffermarsi sulle criticità di una mala o negata accoglienza rischia di essere fuorviante rispetto a problematiche che riguardano non dei generici cittadini stranieri, non dei migranti, ma dei lavoratori: braccianti, per esattezza.

Ghettizzazione, marginalizzazione, sfruttamento e vulnerabilità sono gli snodi di un concatenamento da percepire nella sua totalità. L’escissione di una sola parte dal tutto genera una prospettiva monca sui fatti indagati.

2Lo sfruttamento lavorativo poggia sulla mancata applicazione dei contratti, lavoro a cottimo (vietato dalle norme di settore) o salario inferiore a quanto previsto dai regolamenti vigenti, paghe non corrisposte e contributi non versati, nonché su orari di lavoro esorbitanti. A ciò si aggiunga il punto forse più importante, ovvero la mancata applicazione di quanto prescritto dalla normativa del lavoro del settore agricolo: le aziende agricole devono provvedere al vitto e all’alloggio dei lavoratori iscritti a busta paga. In assenza di queste condizioni, il lavoro nella piana di Gioia Tauro assume i contorni di un ricatto senza rimedio. Un ricatto cui contribuisce la condizione di precarietà giuridica condivisa dalla maggior parte di una manodopera quanto mai necessaria per il distretto economico. Il già citato rapporto di MEDU stima che il 92,6% dei braccianti del ghetto di Rosarno che si sono rivolti alla clinica mobile dell’organizzazione sia regolarmente soggiornante [2]. Tuttavia, una percentuale non irrilevante di lavoratori, di poco inferiore al 30%, lamenta il mancato accesso alla procedura per la domanda d’asilo – prassi riscontrata anche in altre parti d’Italia. Cresce inoltre il numero di lavoratori che non hanno potuto rinnovare il permesso di soggiorno per lavoro in quanto privati del contratto.

Il fabbisogno abitativo dei braccianti stagionali è tale che questi popolano anche casolari dispersi nella Piana di Gioia Tauro. Si tratta, sempre secondo il report di MEDU, di edifici fatiscenti e privi di fornitura idrica o elettrica, così come di servizi igienici.

Rosarno e la Piana di Gioia Tauro si inseriscono in una geografia produttiva globale. Le stradine invase dall’erba alta che conducono all’area industriale, i contorni all’orizzonte del porto di Gioia Tauro, mito dello sviluppo promesso e mai arrivato, evocano uno scenario di abbandono e di lontananza da ogni centro propulsore di economia e di crescita. Scrive Arturo Lavorato (2018):

«Il contesto della baraccopoli di San Ferdinando è una intera area di depressione e sottosviluppo, in cui maturano tali sacche di povertà ed emarginazione autoctone da fare corpo centrale e non semplice appendice all’organismo sociale e il cui capitalismo locale ha la natura mafiosa e compradora tipica delle nazioni periferiche. Per capirci meglio, i contratti finti sono la norma per i lavoratori locali, i full-time travestiti da part-time, i contributi pagati dal lavoratore, il lavoro elargito come una grazia che ti acquista mani e piedi al benefattore, sia il padrone o sia il notabile che ti raccomanda, al quale dovrai devozione eterna ben al di là del semplice voto».

 Ma attenzione a considerare San Ferdinando – al pari di altri centri marginali dell’economia produttiva – un polo privo di collegamenti con le rotte dello sviluppo globale. In realtà «la manodopera arriva dall’Est Europa e dall’Africa Occidentale, il succo d’arancia arriva dal Brasile al porto di Gioia Tauro, i contributi alle coltivazioni vengono da Bruxelles e infine le arance sono esportate in mezzo mondo: Romania, Russia, Repubblica Ceca, Germania, Polonia, Emirati Arabi, Stati Uniti» (MEDU – 2018: 27). È la filiera dello sfruttamento attraverso il ruolo decisivo giocato dalla grande distribuzione organizzata: «braccia migranti, multinazionali del succo, grandi commercianti e supermercati sono gli attori del gioco» (ibidem).

Negli ultimi anni la mobilità economica dei braccianti sta mutando. Gli spostamenti che inseguono le stagioni della raccolta, in particolar modo il trasferimento estivo in provincia di Foggia, non comportano più lo svuotamento temporaneo della baraccopoli. Sempre più persone restano a San Ferdinando per la durata dell’intero anno, al punto che la pur necessaria categorizzazione degli attori sociali come braccianti va senza dubbio ampliata e ricondotta a scenari mobili, rispondenti al mutamento del quadro politico e legislativo internazionale e alla sua dialettica con agenzie e prassi locali.

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Corteo su “Verità e giustizia per Soumaila Sacko”, 23 giugno 2018 (ph. Dario Condemi)

In poche parole, se negli ultimi anni la riarticolazione del capitale economico e finanziario globale poggia innegabilmente sull’istituzione del ‘confine’ come metodo di inclusione differenziale della forza-lavoro (Mezzadra, Neilson, 2014) ripartita in categorie giuridico-politiche ed etnico-culturali generatrici di alterità subalterna, è altrettanto vero che le lenti da cui osservare i fenomeni in esame debbono essere molteplici.

Al netto delle dinamiche di ghettizzazione sussunte nella perpetuazione della tendopoli di San Ferdinando, il vaglio etnografico delle pratiche sociali e delle rappresentazioni aventi per oggetto la tendopoli diffuse tra braccianti stranieri e migranti che attuano forme di mobilità nell’area della provincia reggina hanno permesso di scalfire la superficie di ‘non-luogo’ con cui un certo discorso pubblico ha sovente descritto le condizioni inumane di quello spazio.

Se per Marc Augé (1992) i non-luoghi si differenziano dai luoghi per la loro refrattarietà a generare appartenenze culturali, relazioni sociali e tracce di memoria locale, la tendopoli è in realtà uno spazio ambivalente e polisemico: il transito senza sosta di soggetti riconducibili a varie categorie giuridiche ed economiche ma tutti contrassegnati da un elevato coefficiente di marginalizzazione e precarietà esistenziale, conferma che la tendopoli di San Ferdinando, più che un non-luogo, è piuttosto

«veicolo di rapporti umani, fonte di sussistenza, roccaforte a partire dalla quale farsi strada nella selva di procedure e politiche repressive che caratterizzano la vita in Europa dei migranti che non trovano posto nelle sempre più ristrette maglie dell’accoglienza e della protezione. La presenza di questi spazi sociali offre semmai un altro tema di riflessione, ovvero l’abbandono colpevole dei richiedenti asilo da parte delle istituzioni» (Cordova 2018:157)

incapaci di garantire loro la «sicurezza sociale offerta invece da reti personali spesso intessute in quelle strutture sociali nebbiose di circuiti paralleli del mercato del lavoro, dell’abitazione e dei documenti (ibidem)». È semmai l’azione politica dello Stato, la sua azione razionale di messa ai margini del corpo della nazione di vaste e invisibili sacche di popolazione a rendere inevitabile l’accesso a tali segmenti di illegalità, socialmente e politicamente determinata (Bourgois, 2008; Das, Poole, 2004).

4Vuoto abitativo

A partire dalla lettura di alcuni dati emerge quello che potrebbe essere definito uno scandalo: come scrive Alberto Ziparo (2017), in Italia – e nel Meridione in particolare – nell’ultimo ventennio il consumo di suolo è aumentato, quasi raddoppiato, a fronte di un inarrestabile calo demografico, consistente principalmente nell’abbandono e nello spopolamento di varie aree, specie rurali. Il bilancio di queste direttrici asimmetriche si traduce in un vuoto abitativo quantificato dall’Istat in 7 milioni di appartamenti non utilizzati. In Calabria, su 750 mila edifici 90 mila sono vuoti e inutilizzati: in poche parole il 40% del patrimonio residenziale è vuoto e in molti paesi dell’interno ormai esistono più case che abitanti. Nella Piana di Gioia Tauro, gli appartamenti vuoti sono circa 35 mila.

Emergono pertanto almeno due costanti inconfutabili. La prima è che a fronte di un’offerta talmente abbondante non trova esplicazione razionale alcuna la persistente domanda abitativa inevasa, che si traduce in una condizione di disagio abitativo vissuta da ‘nuovi’ e ‘vecchi’ cittadini. La seconda è che ormai è la rendita finanziaria, più che fondiaria o immobiliare, a dettare il ritmo incessante di nuove costruzioni che certo non sono giustificabili a partire da una domanda sociale (ir)reale (Ziparo 2018).

Diverse considerazioni – e strategie – allora si pongono innanzi all’osservatore che intendesse perseguire un mutamento dello scenario appena descritto. Una certamente riguarda le politiche e le poetiche dello sviluppo che hanno imperversato dal secondo dopoguerra con il loro afflato teleologico e di cui oggi cogliamo l’unica dimensione ad esse ascrivibili: le macerie (Bevilacqua 2008).

La cultura dello sviluppo ha permeato di senso qualsiasi progetto di modernizzazione e benessere, collocandolo al centro di una relazione dagli esiti, solo in teoria prevedibili, tra capitalismo globale e sistemi locali. Il mito sviluppista ha fornito, come tutti i miti, immagini e categorie con cui pensare il mondo e la realtà sociale, al punto da occultare – o al più da rendere meno evidenti – le contraddizioni emergenti dal mancato raggiungimento di uno sviluppo equo ed esteso a tutte le aree attraversate da interventi che trovano in esso la propria logica [3] (India 2017). Il mito dello sviluppo consta di una componente geografica e politico-produttiva tutt’altro che trascurabile.

L’idea di modernizzare trova, in epoca moderna e contemporanea, la sua realizzazione archetipica nell’operazione coloniale, la cui discorsività poggiava proprio sulla necessità di adeguare sistemi sociali sottosviluppati agli standard delle potenze occidentali su cui gravava il ben noto ‘fardello dell’uomo bianco’ [4].

Tuttavia sarebbe un errore ritenere che miti e politiche sviluppiste-modernizzatrici abbiano permeato le sole relazioni tra Occidente e resto del mondo. Tommaso India, nel suo recente Antropologia della Deindustrializzazione. Il caso della Fiat di Termini Imerese, analizza la portata sociale e culturale della dismissione dello stabilimento industriale nel contesto del sud Italia. La vicenda storica del complesso industriale termitano oscilla tra esaltazione del progresso e dello sviluppo e disconnessioni nelle geografie produttive globali, le quali determinano la scelta di interrompere la produzione in determinate località per stabilirla altrove, se più conveniente.

La devastazione del patrimonio eco-paesaggistico italiano, accompagnata da una crescita economica che ha attraversato solo alcuni nodi della rete industriale e post-industriale italiana, lasciando del tutto abbandonate sacche consistenti del Paese che sono piuttosto andate incontro all’abbandono e all’incuria, vengono tuttavia oggi fotografate nel potenziale distopico che le ha generate e nell’impatto deprimente su territori e popolazioni.

Negli ultimi anni, infatti, la valorizzazione e la tutela del paesaggio sono emerse come azioni non procrastinabili, secondo lo stesso dettato costituzionale e in base alle direttrici normative e programmatiche di recente configurazione. I beni culturali e il turismo eco-sostenibile rappresentano senz’altro gli assett principali attorno ai quali prendono forma nuove politiche di riqualificazione del territorio.

5Accogliere per riterritorializzare

L’aspetto che in questa sede sarà oggetto precipuo di riflessione è la riterritorializzazione dello spazio attraverso nuove prospettive di abitare e condividere lo spazio sociale. Uno dei maggiori ribaltamenti di paradigma in azione nel panorama delle scienze umane e sociali nel corso del Novecento è stata senza alcun dubbio la svolta spaziale, «momento centrale nella riconsiderazione della pensabilità e dell’agibilità del mondo attuale» (Simonicca 2015:30). Il rapporto tra Sé e spazio sociale costituisce oggi forse uno dei maggiori terreni di confronto multidisciplinare e di felici sovrapposizioni tra discipline esplicative e interpretative.

Il trattamento culturale dello spazio istituisce in quest’ultimo una fitta griglia di metafore, corrispondenze e differenze, rendendolo pertanto uno specifico sistema simbolico (Scarpelli 2012). Se lo spazio costruito e intessuto di dinamiche culturali quotidiane è senz’altro una dimensione primaria dell’esperienza umana e, dunque, sociale, come analizzare le sue trasformazioni dovute all’impatto delle nuove tecnologie e al continuo mutamento dei rapporti di potere?

Nel corso del ventesimo secolo l’interesse per lo spazio è stato declinato dagli studi post-coloniali entro lo spettro di una geografia critica in grado di problematizzare la tematizzazione dell’Altro mediante la sua rimozione (Said 1991), o meglio la sua collocazione in uno spazio radicalmente alterizzato, immutabile, incastonato nelle maglie isomorfe di culture locali delimitate e semmai in via di sparizione (Gupta, Ferguson 1997).

L’accoglienza diffusa si caratterizza come una modalità peculiare di trattamento culturale dello spazio, rispondente a una certa idea dei legami sociali e dell’organizzazione di una comunità. Si tratta di una ibridazione tra quei modelli di ‘comunità’ e ‘società’ che tanto avevano ossessionato gli studi pioneristici di Ferdinand Tönnies (2011), ovvero l’innesto di forme di solidarietà meccanica (nell’accezione durkheimiana, più che quella proposta dal citato studioso tedesco) su modelli di organizzazione sociale formalizzati e contrattualizzati?

La Scuola di Chicago, precorritrice degli indirizzi contemporanei degli studi urbani in ambito sociologico e antropologico, negli anni Venti del Novecento aveva avanti a sé le grandi città statunitensi alle prese con grandi trasformazioni sociali e spaziali interne, a partire dalla compresenza di comunità e gruppi etnico-culturali differenti. La registrazione di questo fenomeno diede vita ad un approccio che applicava la lente della segregazione urbana: ogni gruppo umano sembrava intento a ritagliarsi una sezione di spazio urbano in cui isolarsi e mantenere la propria identità. La mobilità degli abitanti e le interazioni sociali inter-etniche erano sottovalutate se non del tutto oscurate, in quel primo sguardo (Hannerz 1992).

L’accoglienza diffusa rappresenta, al contrario, la condizione di pensabilità necessaria a creare comunità ‘ampie’ e dotate di un senso di ‘località’ intesa nel senso appaduraiano di qualità fenomenologica dei rapporti sociali, coincidente con la sensazione di immediatezza, reciprocità, ‘sentirsi a casa’ (Appadurai 2001). In poche parole, accoglienza diffusa significa, un po’ utopisticamente, operare per lasciar sviluppare trame di socialità regolamentata ma allo stesso tempo libera di districarsi oltre irreggimentazioni e incapsulamenti etnico-culturali o economici che preesistono all’interazione sociale quotidiana.

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Corteo su “Verità e giustizia per Soumaila Sacko”, 23 giugno 2018 (ph. Dario Condemi)

Le ricadute di questo tipo di organizzazione sociale sono molteplici. Nei rapporti tra ‘vecchi’ e ‘nuovi’ abitanti, l’accoglienza diffusa implica l’abbandono di ogni segregazione interna, tanto nella dimensione del lavoro quanto in quella dell’abitare. Un esempio che vale la pena citare è quello offerto da Drosi, frazione del comune di Rizziconi, nella piana di Gioia Tauro, non lontana da Rosarno e San Ferdinando. Lì, nove anni fa ha preso avvio un progetto di intermediazione abitativa, col supporto della Caritas locale, che ha permesso a 150 lavoratori migranti fuori dai circuiti della prima e della seconda accoglienza di vivere stabilmente e degnamente in quel territorio. La Caritas si è fatta da garante per il pagamento degli affitti ed ha mediato coi cittadini proprietari di immobili sfitti affinché questi fossero aperti ai migranti, dietro pagamento di un canone minimo (50 euro a persona). Se all’inizio di questa esperienza le case coinvolte erano 4 (per trenta persone implicate), oggi 150 lavoratori abitano 20 case distribuite nel territorio comunale.

Si tratta di un modello da perseguire? Drosi rappresenta una prospettiva i cui oneri a carico dello Stato sono ridotti a zero, e non a caso Mimmo Lucano, sindaco di Riace (5), di fronte alle difficoltà finanziarie prima ancora che politiche da cui è stato subissato il suo straordinario laboratorio di comunità cosmopolita, ha dichiarato più volte, negli ultimi mesi, di voler aprire una stagione di accoglienza e di autorganizzazione comunitaria fuori dalle strette maglie amministrative e finanziarie dello Stato. Inutile rammentare, inoltre, che iniziative come quella di Drosi esercitano un impatto estremamente positivo per la popolazione locale, di cui vengono rivitalizzate un’economia altrimenti depressa e un tessuto sociale marcato, come in tante altre parti d’Italia e della Calabria in particolare, dallo spopolamento.

Certo, guai a ritenere che l’ospitalità diffusa possa facilmente e in poco tempo costituire una panacea paradisiaca, capace di spazzare via in un baleno decenni di segregazione razziale e sfruttamento lavorativo – i due temi sono intimamente relati. Scrive ancora Lavorato (2018):

«I tempi della praticabilità [del progetto di accoglienza diffusa] non sono commisurati ai volumi degli arrivi [di lavoratori migranti nella piana di Gioia Tauro]. Di necessità, oltre agli appartamenti si devono approntare strutture collettive, piccoli campi, ad accesso libero, e con capacità di accoglienza… incalcolabili. Perché incalcolabili sono i volumi. E condizioni di vita più decenti significherebbero una maggiore stanzialità. Poiché proprio a questo è volta l’inospitalità assoluta del territorio, a indurre chiunque abbia un’alternativa a sloggiare non appena col finire della stagione si abbassa la domanda di lavoro. E allora non si capisce il punto di arrivo in questa vertenza permanente per i diritti di soggiorno di una categoria, gli stagionali immigrati, non totalmente identificabile legalmente, non quantificabile stabilmente, non gestibile nei flussi reali».

Tali considerazioni inducono a integrare nell’annosa questione del disagio abitativo dei braccianti della tendopoli di San Ferdinando, il problema del trattamento combinato di razzismo e sfruttamento che si abbatte su una manodopera dannata: i braccianti della Piana sono ‘lavoro vivo’, riprendendo la terminologia marxiana, in perpetuo movimento, circolante tra aree produttive depresse altrimenti incapaci di generare valore economico alcuno; ma allo stesso tempo oggetto di brama di controllo, disciplinamento, finanche respingimento. «Una contraddizione insanabile» commenta Lavorato.

Una contraddizione che si consuma tutta – al di là delle scritture più o meno raffinate, più o meno solipsistiche, di analisti, studiosi e ricercatori – sulla pelle e nei cuori dei dannati della nostra terra.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
Note
[1] In questo contributo si fa riferimento al concetto di ‘accoglienza diffusa’ per indicare un principio di interazione sociale opposto alla ghettizzazione, e non per designare specifici percorsi di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo.
[2] Il 45% è titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari; il 33% è ricorrente contro l’esito negativo della richiesta di asilo; il 7, 14% ha ottenuto la protezione internazionale; il 3,87% ha un permesso di soggiorno per lavoro e l’8,3% è costituito da richiedenti asilo in attesa di audizione in seno alle commissioni territoriali. Solo il 7,35% delle persone incontrate da MEDU risulta priva di valido titolo di soggiorno. Tuttavia, questa fotografia risale al 2018, ed è presumibile che il quadro muti in modo significativo in seguito all’entrata in vigore della Legge Salvini (con le sue conseguenze sui beneficiari di protezione umanitaria e sui richiedenti asilo che non potranno accedere alla seconda accoglienza).
[3] È il caso della sempreverde promessa (elettoralistica) della costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina: nonostante decine di studi ne abbiano irrimediabilmente confutato la fattibilità – sia per ragioni di tipo ingegneristico che per motivi di carattere ambientale e geologico – l’idea della sua realizzazione viene periodicamente rilanciata sull’altare dell’invocazione di un non meglio precisato ‘sviluppo’ del Mezzogiorno d’Italia di cui si farebbe portatrice e guardiana parte della classe dirigente.
[4] La bipartizione urbanistico-architettonica delle grandi città coloniali tra parti ‘vecchie’ lasciate alle popolazioni indigene e parti nuove destinate a bisogni e finalità di consumo dei coloni ha generato pratiche e politiche di segregazione (Copertino 2010, Sebag 1998) in cui vari autori hanno ravvisato l’origine della logica e della prassi del ‘campo’ di detenzione di soggetti percepiti e costruiti da un punto di vista sociale e culturale come inesorabilmente ‘altri’.
[5] La comparazione tra Riace e Drosi risulta difficilmente sostenibile, dato che il grosso dell’esperienza di Riace, pur visionaria per genesi e ispirazione, si muove nel campo dell’accoglienza istituzionale, a differenza di quello di Drosi.
Riferimenti bibliografici
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Copertino D., Cantieri dell’immaginazione, Roma, CISU, 2010.
Cordova G., Costruire marginalità, fabbricare identità. Note etnografiche su processi migratori in Calabria, in T. Bellinvia, T. Poguish, Decolonizzare le migrazioni. Razzismo, confini, marginalità, Roma, Mimesis, 2018: 153-172.
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Lavorato A., Benvenuti a Libreville, patria di eroi. Considerazioni dopo l’omicidio di Soumaila, napolimonitor.it/benvenuti-libreville-patria-eroi-considerazioni-lomicidio-soumaila-sacko-1/,consultato il 17/02/2019.
MEDU – Medici per i diritti umani, I dannati della terra. Rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro, maggio 2018.
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Said E., Orientalismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1991 (1978).
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Ziparo A., Un Paese di case vuote. Un quarto del patrimonio abitativo è inutilizzato, il Manifesto, 02-09-2017, http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/15169
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Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.
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