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Fuochi per mutabili esistenze

 paolo-ruffilli-fuochi-di-lisbonadi Aldo Gerbino 

E sta lì l’arcano della cosa, nel mescolarsi a un’altra

 intelligenza e nel baciare sulla bocca una coscienza. 

[Da “I fuochi di Lisbona” di Paolo Ruffilli: 145] 

Forzammo i confini‒Però il Dio unico / Da deviazioni

ci protegge / Per questo lungo le scale / Coprimmo d’oro

l’interno buio delle chiese. 

[Sophia De Mello Breyner, da “I navigatori”, 1990]  

Sappiamo che l’aspirazione primaria di Fernando Pessoa non si consuma nel desiderio “d’essere poeta”, piuttosto si consolida in qualcosa di più sotterraneo, misterioso, psicologicamente inquieto. Questo, forse, ci fa comprendere il suo dichiarare (rileviamo da Una sola moltitudine) di come l’esercizio, o meglio l’improrogabile necessità dell’espressione poetica considerata piega ineludibile del vivere, sia stata proprio l’unica sua “maniera di stare solo”. Ed è proprio nel groviglio di tale solitudine che Paolo Ruffilli pone il suo scandaglio per saggiare in che modo l’esperienza del viaggio sentimentale possa costituire nuovo fronte di approccio alla stessa esistenza. Un lasciarsi andare, ordunque, a quelle oscillazioni audacemente scosse dalle eresie del cuore, dal tempo che scorre e corrode, volte a costituire la fitta matrice di questo lavoro di Ruffilli.

Su tali motivi, ben s’inserisce una missiva datata 29 novembre 1920, che possiamo leggere in Lettere alla fidanzata del 2012 per cura di Antonio Tabucchi, in cui si sottolinea, appunto, come «il Tempo, che invecchia volti e capelli, invecchia anche, ma ancora più in fretta, gli affetti più coinvolgenti». E ancora come il poeta lisbonese insista, biasimando il discorso amoroso per le sue macchie di misere banalità, col rilevare la corruzione di tante parole per l’uso continuo e plurale, tanto che, afferma, di come «la maggior parte delle persone, perché è stupida, non se ne rende conto, e crede di continuare ad amare perché ha l’abitudine di sentire se stessa che ama. Se così non fosse, al mondo non ci sarebbero persone felici». Certo, sono opportune le indicazioni di Antonio Tabucchi, mosse in quello stesso anno delle “Lettere”, in cui fu primo segreto lettore del lavoro di Paolo Ruffilli; un materiale creativo in piena gestazione e dragaggio dalle scorie del quotidiano, intento a trasferire, o meglio a irraggiare, il ventaglio d’inquietudine che agitò il rapporto amoroso tra Fernando Pessoa e Ophélia. Il porre, per Tabucchi, attenzione alla costruzione di quel germinante parallelismo operato da Paolo: nella confezione d’un suo ‘doppio’ ben rientra nel prolifico contrasto tra esasperazione ed estensione della personalità dello scrittore e poeta portoghese immerso nell’intreccio dei suoi eteronimi vs l’ortonimo e prendendo ulteriore alimento, ricorda Tabucchi, delle «carte dello scrittore e della sua “infanta”, oltre che sui luoghi della città in cui la relazione si è consumata tra adesioni e rotture». 

Già nel ritmo del sistema grafematico (così vale l’opposizione del corsivo al tondo) si trasmette per sua peculiare attitudine un particolare stridìo, quasi uno strofinio del lettering capace di amplificare il suono delle parole fin dalla stessa postazione dei grafemi collocati dal registro della scrittura per una naturale sollecitazione di suoni da cose e persone. Quindi, oltre che ai lettori, è agli ascoltatori di tali suoni che Paolo Ruffilli sembra volgere il suo scritto, proprio in virtù di quell’ “Arte musicale” rilevata da Carlo Vittorio Cattaneo in ordine al poeta Jorge de Sena, ma da estendere alla gran parte della poesia portoghese, esasperandone e contenendone la narrazione in quel denso spessore bio-atmosferico che ci avverte, con lucentezza, come tale procedimento di scrittura sia pronto a restituirci tutta la fascinazione di Lisbona.

i__id1417_mw600__1xSiamo dunque nella patria di Fernando Pessoa, poeta tracciato, nel “canone occidentale” di Harold Bloom (con Neruda, con Whitman), quale monolite della moderna poesia. Poeta sfuggente con la sua griglia di eteronimia (da Bernardo Soares ad Alvaro da Campos, da Ricardo Reis ad Alberto Caeiro), vero e proprio ‘insieme’ di non ludiche tessere d’una multipla personalità pronta a ricostruire e creare quel “fingitore” incistato nella dinamica della sua poesia resa, in modo assoluto, inscindibile dalla sua vita. Si assiste all’esaltazione di pulsioni affettive mosse nella spirale di una saudade profondamente lusitana, per molti aspetti articolata in una mistica difficilmente contenibile, tanto da mostrare la sua pungente tenacia, per poi diffondersi in mille rivoli in cui corpi e anime tornano ad abitare i luoghi da cui essi stessi, portatori di consunzione, hanno avuto origine.

Tutto ciò si dilata per aprirsi, quasi un baccello sotto un sole autunnale, nel corso di questo romanzo di Paolo Ruffilli, Fuochi di Lisbona, dedicato a Henrique Dinis da Gama, al poeta Herberto Hélder e ad Antonio Tabucchi, edito dalla fiorentina Passigli sul finire del 2024. Il taglio incipitario dispone subito una tabula divaricata ai mutamenti esistenziali, i quali ben entrano nel portato binario di tale écriture anche attraverso etimi generici compresi ad esempio in quella categoria dell’‘adulto’ con la sua inevitabile erosione mostrata nell’intimo e certo ‘adulterarsi’: un corrompersi, un miscelare tutto il bene e tutto il crudele dell’esistenza.

È un convegno sul poeta portoghese a spingere il protagonista di questi “fuochi” nelle profondità ‘geologiche’ di Lisbona e nell’incontro con Vita, quasi a ripetere, a verificare il rapporto tra Fernando e Ophélia Soares Queiroz. Una speculare storia d’amore con esso, quasi ‒ lo sottolinea Tabucchi leggendo l’iniziatica stesura di questo romanzo ‒ «a ripercorrere con il cuore e con la testa i modi e i tempi dell’amore». Ma se la specularità, priva della sovrapponibilità, ci consegna una simbiosi ottica e simmetrica dei personaggi collocati al centro della storia, e offrendosi subito nella misura della ricerca, dell’analisi coscienziale, ecco che, dall’intimo, emerge l’asimmetria dei comportamenti, in una sorta di chirale esercizio chimico che è parte sostanziale del medesimo succo di ogni quotidiano vivere. Nessuna forzosa sovrapposizione è capace di annullare i due percorsi d’esistenza posti nella costruzione del romanzo in forma binaria; piuttosto si concreta, più definita, la loro esigenza multipla d’individualità: quell’essere l’uno, il doppio e quel ‘tutti’ propugnato da Pessoa, ma di cui abbiamo già contezza, con Pirandello, sin dal suo Uno, nessuno e centomila. Sul “falso concetto dell’unità individuale”, sarà infatti lo scrittore di Agrigento ad affermare con chiarezza come ogni unità stia ancorata «nelle relazioni degli elementi tra loro; il che significa che, variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l’unità».

Lisbona, emblema di non meno impegno nello svolgimento dei sentimenti, è dunque categoria d’esistenza e si riflette in quanto capace di flettere pensieri e azioni lungo il confronto di esperienze ricalcando la via già conclusa da Pessoa. La città si mostra al protagonista in tutta la sua sfuggente e accattivante sintesi mentre l’aereo si dispone all’atterraggio: un tramaglio di lettura geografica e spirituale, un attraente ed inquieto «punto fisico di morte ad occidente, dove appunto l’Europa terminava, oltre il fiume e il mare, come continente». Città dunque librata in quel finis terrae che ha suscitato e diffuso, sin da Luís Vaz de Camões, l’autore indimenticato dei Lusiadi, ligamenti strutturali tra la sua epica lingua di poesia e l’Europa letteraria, approdando alla modernità in una investigazione spesso spasmodica (come abbiamo già, in altra sede, avvertito) del lambicco metaforico, delle antitesi e della spettacolarità, della sensualità, delle icone naturalistiche o delle iperboli su d’una variegata realtà, fervidamente culminata (ma non ultimata) in pieno secentismo.

mv5bzddingriywqtzjvjmc00y2ixlthlmwutzjlhodhmntrmytjixkeyxkfqcgc-_v1_Il suo fogo d’amor che arde, tocca opportunamente il taglio barocco quale materia di appassionato acume e che, in quanto portato all’isteria, si è reso capace di produrre affascinanti modelli creativi spostandosi e nutrendo la stessa musica fin nella contemporaneità dei ‘fados’, o nella malinconia struggente di Amalia Rodriguez, un’interprete d’eccezione, ed oltre ai Madredeus nell’arco compreso tra  Lisboa e Ainda, colonna sonora dell’evocativo film di Wim Wenders, Lisbon Story. Così, per molti umori e per i molteplici input d’una incisiva poetica portoghese (il suo calco insiste su Camões), la lettura in prosa d’un poeta del valore di Ruffilli conserva e rimanda inequivocabilmente richiami e ritmi interni, i quali non possono essere sottaciuti: essi navigano in forma di sotterranea linfa nelle sue parole, nei suoi richiami, nei confronti stabiliti dai personaggi, da sentimenti autobiografici, da quei cordoni di un vivere che è il ritratto di una civiltà mediterranea aperta alle suggestioni del mondo. Non è un caso che incanti, fragranze, musicalità (l’‘oratorio’, ad esempio, sospinto a forma musicale) affiorino da lontananti versi come per Francesco Balducci intrisi del profumo penetrante e discreto del gelsomino (“o cari a l’Alba mia candidi fiori / cura della sua man, fregio del crine”), parole e pigmenti a sostegno di tali atmosfere creative, oppure, in particolare, dalla pregnante accelerazione metaforica che possiamo trovare nella Maria Maddalena alla Croce del “Cavaliere sanguinario” di Mazzarino, alias il siciliano Giuseppe Artale, espressa in quel “razzo finale costruito sul bisticci dei Soli (occhi) e dei Fiumi (capelli) che fanno effetti contrarissimi alla loro natura”, portato ad immergersi nelle acque del Tago come irripetibile topos, sì religioso, ma cosparso di sentimento amoroso in quell’aureo bisticcio «ché ’l crin se è un Tago e son due soli i lumi, / prodigio tal non rimirò natura / bagnar coi soli e rasciugar coi fiumi».

Il Tago è arteria carnale e luminosa, è la luce che si esercita sulle cose, sulle persone e che striscia, come in Ruffilli, tra i margini insoliti e nascosti delle emozioni, dice della sua importanza così come ne aveva dato segnale Pascal Mercier, pseudonimo dello scrittore svizzero Peter Bieri (filosofo delle Università di Berlino, Marburgo ed Heidelberg) in quel Treno di notte per Lisbona, che segue e ripercorre le tracce dello scrittore immaginario Amadeu Inàcio De Almeida Prado, autore dell’Orafo delle parole, e in cui viene ribadito in che modo sia «una cosa davvero singolare ma la risposta cambia in me a seconda della luce che cade sulla città e sul Tago». Ancor più in Ruffilli, al capitolo “La corsa del tempo”, è il Tago a presentarsi nella sua forma di «un magma incandescente e a ondate si espandeva nella stanza» per poi diventare alchemico: «un pulsare e un ribollire di fuochi che tutto coinvolge acque, città, il soffio dell’oceano che s’incontra con l’alito caldo dei corpi che mutano in colore, corpi dei due amanti, fusi in calori e pigmenti: carminio, scarlatto, vermiglio, porpora, amaranto» fino a chiedersi in questo ‘eccesso di Vita’ che permea corpo e mente del protagonista: «Non era [d’altronde] il rosso la tinta dell’amore?».

untrenodinotteperlisbona-05Trascinato da Henrique, amico portoghese conosciuto a Roma, dentro il corpo della città Ruffilli fa riecheggiare il suo climax continuo, le parole degli amanti vicinissimi nell’impervia cava seduzione di Lisbona, in cui, contemporaneamente, Fernando rivolge lo sguardo ad una «Ophélia tutta da abbracciare, baciare e prendere dovunque a morsi. La mia bocca è strana, perché non ha i tuoi baci ormai da troppo tempo. E le mie mani hanno perduto ogni felicità del tatto non potendoti afferrare per tenerti stretta. Aspetto il mare mosso dai tuoi occhi», per poi chiedere in un turbine d’ansia «… Quand’è che ci possiamo incontrare, noi due da soli, in qualche posto? Girare insieme, sottobraccio, per Lisbona…». Con queste sospinte parole di desiderio, Lisbona, nelle parole dell’autore del romanzo, ora appare «dritta come una diga eretta a contenere la fuga verso occidente dentro l’ignoto. Ma anche come porta aperta verso il mondo nuovo». Essa è, con Paolo, un «corpo solido ma vivo, in incessante divenire». Essa esiste in un’inesauribile innata trasformazione non allacciata soltanto «alla natura mutevole del suolo e ai terremoti che a secoli alternati avevano distrutto e mescolato le memorie».

S’avverte un accessorio porsi a confronto con quelle illuministiche sollecitazioni volteriane contrarie alle utopie sull’ottimismo espresse da Candide senza però rievocare la crudezza d’immagini e parole del Poema sul disastro di Lisbona: «Elementi, animali, umani tutto è in guerra. Confessiamolo pure, il male è sulla terra».

Una città invece, si prosegue con Paolo, «dal corpo femminile [che] era per forza un posto speciale per l’amore, senza saperlo me ne andavo convincendo anch’io. E per la sua natura, dunque, Lisbona offriva conforto agli amanti disperati». Così, per estremo, nel rosso sanguigno degli amanti è lei, Vita, qui incontrata e che sta pur china ‒ è scritto ‒ «nel solco che la lama di striscio mi aveva lì lasciato per il fianco. Succhiava la ferita. E succhiando il sangue mi diceva che era la sua vita. E, per tirarmi a sé, mi respingeva». Ma proprio in quel pressante invito a scacciarlo ella «mi teneva a sé, anche più stretto. Legato, avvinto, incatenato. Per quanto ci sentissimo beati, tanto più ci trovavamo coscienti e disperati».

Lisbona distruta, incisione 1755

Lisbona distrutta, incisione 1755

L’unico conforto, come detto, proveniva forse dalla luce di Lisbona; in essa si mescola ora il colore degli azulejos, il canto bruciante che riecheggia da Belém fino alle strade percorse da Fernando e Ophélia oppure si spinge oltre gli sguardi manuelini del fiorito gotico portoghese: dal Monastero dos Jerònimo su cui s’incontrano i fiati di Vasco Da Gama o, da Santarém, quelli di  Pedro Álvarez Cabral.

Non sappiamo bene se, nel fondo di queste pagine del romanzo, possiamo leggervi tutta la struttura complessa di vite piagate dal dubbio ‒ anche se sostenute da una limpidità che convive nel solco d’una filosofia e d’una poesia secondo le ragioni care a Maria Zambrano ‒ oppure se, nascostamente, ci sia dell’altro. Ragioni che allignano, per tanti versi, nella poetica di Pessoa, così come nel personaggio di questi ‘fuochi’ in cui si rivolgono altre solitarie esistenze, ora colte dal fragore dell’amore, ora toccate dalla violenza d’una città tanto penetrante e tanto da tutti penetrata: dai suoi navigatori (‘forzatori di confini’, scrive Sophia De Mello, seconda donna ad ottenere, nel 1999, il premio Camões), dai suoi naufragi e che si ritrova, inconsapevolmente, nella pace sottile dell’abbandono, del mutamento, nella macchineria di un amore concluso; un  finis che dopo essersi mostrato «in modo chiassoso» poi diventa «a un tratto muto». Sembra proprio che la molteplicità del sentirsi unico e cento o un disperante unico e solo, stia nell’enigmaticità del suggerimento di Pessoa rivissuto e ri-creato da Ruffilli; sì lo crediamo, per il sol fatto che: il tutto, e quel “tutto delle cose”, sembra poggiare su quel niente che «dura mai, per sempre. E niente per sempre, mai finisce». 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014).

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