di Leo Di Simone
Agire sulla storia non significa tanto modificarne immediatamente gli assetti, quanto dare forma con un gesto, una parola a un significato eterno. Nel regno più che millenario dell’Occidente, la coscienza ha sollevato il trascendente sempre più in alto, sempre più lontano dalla vita quotidiana, tanto da creare un abisso invalicabile che ha postulato la necessità di un ponte, il più grande ponte immaginabile tra visibile e invisibile. Un ponte che ad un tratto questa nostra cultura ha trovato già bell’è fatto nella persona del più grande outsider della storia: Gesù Cristo.
L’outsider, per definizione, è colui che è escluso in partenza da ogni possibilità di vittoria, l’imprevisto, l’incompetente, al di fuori di ogni scuola o consorzio riconosciuti ed affermati, il profano fuori dal tempio, il parvenu proveniente da una condizione oscura e inferiore, disprezzato da ogni consorzio civile e religioso. Gesù Cristo come outsider e parvenu della storia significa la presenza dell’invisibile nella comune materia di questa nostra vita umana, un uomo-dio per cui visibile e invisibile diventano uno nel ponte che li collega. Cristo come ponte (Pontifex è il titolo che nel Nuovo Testamento e solo nella Lettera agli Ebrei viene attribuito a lui) e il Papa come suo vicario in terra assolvono questo compito di collegamento tra umano e divino, con una sostanziale differenza: che l’Uno è il ponte, l’altro colui che continuamente è chiamato a ripararne le brecce che le ingiurie della storia provocano nella sua mistica struttura.
Solo per un processo di semplificazione teologica il Papa, nel lessico cristiano, è stato definito “il dolce Cristo in terra”, e Pontefice che in realtà corrisponde al titolo che i romani attribuivano all’imperatore come esercente del culto imperiale: Pontifex maximus. Termine ambiguo quello di Pontifex, che traduce in latino il concetto ebraico di Sommo Sacerdote che Gesù Cristo ha svuotato riempiendolo di contenuto nuovo, come la Lettera agli Ebrei, appunto, cerca di dimostrare. Ma anche questa lezione teologica, col passare del tempo, ha visto evaporare la sua pregnanza, e del Papa è svanita anche la fisionomia discepolare di successore di Pietro, primo tra i discepoli, povero tra i discepoli a cui Cristo ha affidato il compito di pascere i “suoi” agnelli e di confermare nella fede i “suoi” fratelli. Nessun lascito di potere che lui non aveva avuto, nessuna prerogativa di preminenza mondana che non gli era appartenuta, nessun rivestimento onorifico di cui da sempre si era spogliato. L’unica “gloria” condivisa è stata quella della croce che Pietro però ha voluto capovolta rispetto a quella del suo Signore.
Tutto ciò avrebbe dovuto costituirsi in consistenza teologica ed in realtà pragmatica di vita. Ma non è stato così. I papi della storia, con qualche eccezione che conferma la regola, non ci sono riusciti, e il papato ha rappresentato nella bimillenaria storia della Chiesa un segno di potenza che vuole additare alla semplicità disarmante del messaggio cristiano che conduce all’imbocco del ponte per l’incorporazione a Cristo. Una contraddizione logica che vuole alludere ad un’altra contraddizione che però la elide in quanto ontologica, perché costitutiva di Cristo in quanto “segno di contraddizione” (cf. Lc 2, 34-35) mandato da Dio nel mondo «per confondere i sapienti e i forti e ridurre a nulla le cose che sono» (Cf. 1 Cor 1,27-28).
Secoli di interminabili e accese dispute hanno tentato di infrangere l’unità del ponte, gettando il peso ora da una parte ora dall’altra, sull’umano a scapito del divino e del divino senza l’umano, trascurando anche il collante, quella terza forza che la teologia ha chiamato Spirito Santo, vero garante dell’integrità del ponte, che ha suscitato nella storia esperti e raffinati riparatori di brecce, non necessariamente papi, coloro che il popolo cristiano venera come santi. Uno fra tanti, ma fra i più significativi, Francesco, giusto per entrare nel discorso sul papa che ci ha lasciati e delinearne con qualche tratto un grato ricordo. Francesco, il santo di cui ha preso il nome e tratto ispirazione. Francesco d’Assisi che Giotto rappresenta come puntello vivente mentre sorregge la Chiesa che sta crollando; così il papa del tempo, Innocenzo III, lo aveva sognato, aiuto pneumatico per rimettere in piedi la grande istituzione che lui credeva di rendere forte con il diritto canonico e con il prestigio imperiale, con le leggi umane e le tre corone una sull’altra, non pensando che lo Spirito di Cristo sceglie sempre “ciò che è ignobile” per mortificare la presunzione umana dei potenti.
Il nome “Francesco” non era mai stato accostato alla dignità pontificia, forse perché nomen est omen, perché il nome è augurio e auspicio di un programma di vita, segno che in sé reca un progetto, un tipo di rapporto col mondo, con Dio, un fine da raggiungere, un’opera da compiere. Per Francesco d’Assisi non fu così. Fu chiamato Giovanni al battesimo e sua madre, che era francese, lo ribattezzò Francesco, a ricordo della sua terra. Un nome inventato, con non molte connotazioni speciali se il suo titolare non l’avesse riempito con i contenuti speciali della sua fede e delle forme ancor più speciali del suo modo di viverla, che conquistarono come una leggenda la cristianità del suo tempo fino al presente, rappresentandolo come un ideale eroico irraggiungibile e per questo da venerare con ammirazione e fervore. Francesco è stato meglio tenerlo sugli altari, nelle nicchie devozionali; troppo impegnativo il suo cristianesimo, troppo radicale la sua adesione a Cristo, la sua identificazione col Crocifisso fino allo sgorgare del sangue delle cinque piaghe nel suo corpo; troppo empatico il suo amore per i poveri e gli esclusi, troppo folle la sua concezione di povertà e di vita fraterna che già, lui in vita, i suoi discepoli giudicarono irrealizzabili.
Cosa passava per la testa del cardinale Jorge Mario Bergoglio quella sera del 13 marzo 2013 quando pochi minuti dopo il raggiungimento del quorum elettorale gli fu chiesto, accettata l’elezione, come volesse chiamarsi da papa? Questo insegna la tradizione della Chiesa: che entrare nella condizione petrina significa cambiare vita e nome; anche a Cefa Cristo cambiò il nome in Pietro, a Saulo in Paolo e dato che nomen est omen chi è caricato del papato deve scegliere l’omen per portarne il peso, seguendo gli esempi di qualcuno di santa memoria che lo ha preceduto. Ma mai Pietro, per umiltà, e mai Francesco… per una sorta di timore reverenziale, di impari emulazione? Non sappiamo. Sappiamo che quella sera l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio scelse quel nome, rompendo una timorosa tradizione e aprendo un capitolo nuovo della storia della Chiesa, ciò che gli storici di dopodomani leggeranno come un nuovo paradigma.
Quando il nome “Francesco” fece seguito a quello mai udito di Jorge Mario Bergoglio l’acclamazione del popolo adunato fece eco allo stupore interiore di ciascuno, ci fu un incontro simbolico con quel nome, si ricongiunsero attese, speranze, stupori per quel nome che da solo evoca la fisionomia della santità cristiana, il ribaltamento delle posizioni culturali della civiltà occidentale: una posizione nuova dell’essere in Cristo nella Chiesa. Il tripudio fu grande nel cuore di quanti, dopo giorni tristi di sospetti, polemiche, crisi istituzionale che toccava i vertici, dimissioni di un papa che tanti dubia avevano suscitato, attendevano una novità, una discontinuità che solo lo Spirito può attuare. Bastò quel nome ad evocare il significato eterno della proposta evangelica che si incarna in forme sempre nuove ad ogni generazione, così come prese carne nel poverello di Assisi, anche lui segno di contraddizione nella Chiesa del suo tempo, ad imitazione del Signore a cui si era donato.
E quel nome divenuto papale evidenziò, coi segni semplici che seguirono, un cambiamento di stile, un clima cui non si era abituati. A partire dal “fratelli e sorelle, buonasera!”, saluto informale che innescò subito una relazione confidenziale e diretta tra il nuovo papa e la sua gente, tra il papa venuto da “un altro mondo”, portatore di notizie nuove e di esperienze mai provate, e il suo nuovo popolo di cui diventava vescovo. Il nuovo vescovo di Roma amò sottolineare Francesco. Tale infatti è il papa come successore di Pietro, vescovo di Roma, titolo che gli è proprio e lo colloca al primo posto tra gli altri vescovi del mondo che a lui sono “collegati” nella carità in un “collegio”, e in lui riconoscono il primato nella garanzia della fede sotto l’assistenza dello Spirito Santo. Ma non era mai accaduto che il nuovo papa vescovo di Roma chiedesse l’assistenza dello Spirito invocato dal suo popolo su di lui. Era la prima volta. Un gesto di alta portata teologica ma fuori protocollo, uno di quei gesti che provocano il panico negli inamidati cerimonieri; il primo tra tanti altri gesti sorprendenti che Francesco porrà in essere spontaneamente, per istinto pneumatico. Un gesto che ricordò come non solo i preti incardinati a Roma (Cardinali) avessero in passato eletto il loro vescovo, ma anche il popolo, con l’acclamazione e la preghiera. Ciò implicava due cose: l’importanza del camminare insieme, Vescovo e popolo, in un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia, di speranza; e la centralità della preghiera, soprattutto quella di intercessione.
Quella sera il nuovo papa, Francesco, ripristinò il valore liturgico di un atto eucologico che in antico ebbe forma popolare (l’azione liturgica è del laos/popolo) prima che clericale, e ne ripristinò il significato per sottolinearne la portata ecclesiale. Non era però una vera novità, piuttosto una verità dimenticata; il Vaticano II aveva rimesso in luce la fisionomia del popolo sacerdotale, ma secoli di clericalismo non si cancellano in poco tempo. La battaglia contro il clericalismo sarà sempre presente nel magistero di Francesco, una sfida che ha affrontato in molti modi, non senza attirarsi antipatie e fieri ostracismi specie all’interno della curia e tra le frange tradizionaliste che lui, con un neologismo, aveva denominato “indietristi”. Il principio è che la Chiesa è di tutti e per tutti, “para todos, todos, todos!” ha ripetuto con tutta la forza della sua fede alle folle non abituate a sentirlo dire. E “Todos” è parola onnicomprensiva, assolutamente inclusiva; non solo i poveri ma anche i ricchi che patiscono per una più perniciosa miseria spirituale, e tutti gli “uomini di buona volontà”, anche se ancora non sono saliti sul ponte ma sono diretti verso di esso; un principio teologico proveniente dal primo papa, Pietro, che si rese conto come «Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10, 34-35). Altro primitivo e fondante insegnamento ecclesiale poi dimenticato, che si deformò col tempo approdando sulla linea dell’esclusione con lo slogan teologico “extra Ecclesiam nulla salus”, fuori della Chiesa non c’è salvezza.
Un altro segno saltò agli occhi dei più avveduti, i più avvezzi alla semiologia ecclesiastica dove ogni segno ha una sua specifica connotazione e un preciso valore distintivo. Pochi hanno notato che papa Benedetto aveva una maglia nera fuori ordinanza sotto la talare bianca quando salutò e benedisse il popolo romano dalla loggia vaticana subito dopo l’elezione. Non aveva avuto tempo di cambiarsi o non si aspettava di essere eletto? Qualcuno ha sostenuto la seconda ipotesi. Francesco aveva invece la camicia bianca ma non indossava gli altri paludamenti papali quali la mozzetta rossa, residuo storico della cappa imperiale essa pure col tempo lentamente “mozzata” in ordine all’agilità, e la stola apostolica barocca ricamata. Da qualche illazione si è appreso che abbia detto al cerimoniere pronto a paludarlo: “il carnevale è finito”, motto che corrisponde al temperamento che abbiamo poi conosciuto, misto a una propensione forte all’ironia e all’humor; ed anche a una consuetudine di sobrietà alla quale è stato formato dal suo ordine di appartenenza, la Compagnia di Gesù. Dei paludamenti papali ordinari ha conservato, per ovvia necessità, la bianca talare, sotto la quale continuò a portare i calzoni neri di sempre e le scarpe nere ortopediche invece che le babbucce rosse. L’anello al dito rimase quello di metallo argentato, di poco prezzo, e la croce pettorale quella di sempre, anch’essa non preziosa. Stessa sobrietà ha inaugurato per le vesti liturgiche, dichiarando chiusa la stagione dei ricami d’oro, dei pizzi e dei merletti, senza però nessuna prescrizione legislativa, soltanto con l’esempio. Con ciò ridimensionava l’estetica rinascimentale e barocca che aveva ammantato i papi per molti secoli, ed anche i prelati che ancora oggi sono legati a quelle forme di vestiario che fanno percepire la Chiesa al mondo come un reperto del passato.
Francesco inaugurava una forma di papato di cui l’estetica alternativa era solo l’indice di contenuti etici ed esistenziali. Altri segni ed altre parole hanno inciso nella percezione universale del ministero petrino di Francesco, segni e parole indelebili che oggi ne rivivificano la memoria facendone percepire la portata epocale e i contenuti per nulla scontati. Segni talmente incisivi da identificarsi con lui, da diventare un tutt’uno con la sua persona, delineando la figura alta del cristiano che è stato, legato ad un solo modello, Cristo, che si è sforzato di imitare con tutte le forze, la volontà e l’amore. Ha coniugato Francesco con Ignazio per il quale essere compagno di Gesù non era un concetto e neanche un ideale, bensì un’intima relazione con Lui, per scoprire giorno per giorno che di Lui ci si può fidare e che Lui si fida di te, perché ti conosce per quello che sei. Essere amici e compagni del Signore per i Gesuiti significa, per intima coerenza, essere amici dei poveri. Il Cristo che porta la Croce mette in contatto con ogni genere di sete che affligge l’umanità e fa riconoscere che quel bisogno sta anche dentro ciascuno. La povertà, in ogni sua forma, genera violenza contro la dignità umana. Ignazio e i primi compagni sentirono l’urgenza di raggiungere gli ultimi e gli esclusi alle frontiere del mondo, come pure al centro della cultura in cui vivevano, per cui cercarono di guardare il mondo dalla prospettiva dei poveri e degli emarginati, imparando da loro e agendo per loro e con loro.
Questa è la spiritualità ignaziana e quella del gesuita Bergoglio; e tale è rimasta nel gesuita divenuto, per la prima volta nella storia, vescovo di Roma. Queste prospettive, tuttavia, non sono di parte, non sono patrimonio francescano o gesuitico, appartengono alla natura della Chiesa e i santi le hanno attuate nelle condizioni del loro tempo, in maniera originalissima. Papa Francesco le ha riprese per rimetterle in circolo nella vita ecclesiale, perché il Concilio le ha riculturate con un inciso della Lumen gentium tra i meno citati, se non per nulla, nel postconcilio:
«E come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza» (LG 8/306).
Francesco altro non ha fatto che voler rendere operativa questa contraddizione evangelica, nella sua stessa vita, col suo stesso esempio. Non l’ha imposta, l’ha desiderata e proposta. Quanto alla povertà con lo stile povero e dimesso, quanto alle persecuzioni con l’annunzio chiaro e netto del vangelo, senza giri di parole e contravvenendo tante volte alle regole della diplomazia e del politically correct, provocando reazioni anche violente dentro e fuori la Chiesa. Reazioni che in maniera più o meno palese, più o meno eclatante sono emerse dopo la sua morte. L’annuncio chiaro e diretto del vangelo provoca sempre reazioni dia-boliche previste già da Cristo:
«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15, 18-19).
Francesco ha così disatteso ogni convenzione mondana ed anche ecclesiastica, tutto ciò che è scontatamente convenzionale e si polarizza in una concezione statica di “tradizione” come conservazione delle ceneri piuttosto che custodia del fuoco. Contravvenendo alla tradizione di celebrare solennemente il rito della lavanda dei piedi il giovedì santo nella basilica vaticana, lo celebrò, poco dopo l’elezione, nel carcere minorile di Casal del Marmo. Lavò i piedi a 12 giovani detenuti anche musulmani o non credenti, e anche ad una laica operatrice umanitaria. Da allora non mancò mai a questo appuntamento carcerario, fino a quattro giorni prima di morire, quando non poté compiere il rito per le condizioni fisiche debilitate, giunte ormai allo stremo; ma si rese presente ugualmente e la sua presenza realizzò il rito iconico del suo ministero in favore degli ultimi, considerati fratelli da amare in modo speciale perché più sfortunati e disprezzati: “Fratres omnes”, fratelli tutti.
In Francesco non c’è stato iato tra rito e vita, tra liturgia ed esistenza umana, tra preghiera e azione, tra il discernimento nella meditazione e le scelte anche difficili; tali esperienze le ha vissute, da buon gesuita, come espressione della libertà donata da Cristo che è libertà di amare. Ha considerato il gesto del chinarsi davanti all’umanità sofferente altamente simbolico dell’imitazione cristica della Chiesa illustrata da LG 8 e ne ha fatto la cifra sacramentale del suo ministero petrino.
Le scelte controcorrente, si sa, provocano uno stato quasi naturale di solitudine. Icona paradigmatica della solitudine di Francesco al timone della barca di Pietro è quella che lo ritrae solo e sperduto nell’enorme spazio vuoto di piazza san Pietro al tempo del covid, il 27 marzo del 2020. Come Mosè ascese verso l’alto, per implorare la misericordia divina e dichiarargli la condizione miserevole del mondo: «Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città…», disse con voce commossa. «Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari: tutti chiamati a remare insieme». Nel silenzio della piazza, Francesco rivolse a Dio la sua invocazione: «Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori». Un momento storico irripetibile che ha toccato i cuori di milioni di fedeli, restando una delle immagini più forti del suo pontificato. Confesserà più avanti, nel libro Perché avete paura? Non avete ancora fede? che ricostruisce quel momento unico: «Camminavo così, da solo, pensando alla solitudine di tanta gente… chiedendo al Signore “meté mano”. Questa espressione “metti mano” è molto mia. Molte volte nella preghiera dico: “Mettici mano, per favore!”». Terribile situazione quella di sentirsi responsabile per tutti, intercedere per tutti, dover confortare tutti. La solitudine del papa scaturisce dalla stessa struttura della Chiesa che molti definiscono «una monarchia assoluta temperata dalla disubbidienza dei sudditi». Una definizione ironica che sarebbe di sicuro piaciuta a Francesco e che comunque rende l’idea del tipo di solitudine di chi si trova solo a capo dell’istituzione.
Dopo il Concilio, quando la Chiesa ha preso più consapevolezza della sua cattolicità e più dimestichezza nel rapporto con le culture, si è trovata davanti ai problemi del mondo descritti nella Gaudium et spes e alla difficile orchestrazione dei rapporti interculturali tra le Chiese locali. Il papa si è così trovato non più al timone della piccola barca vaticana già di per sé non facilmente manovrabile, ma alla guida di una immensa portaerei che doveva solcare gli oceani. E bisognava mettere mano ai tracciati di nuove rotte e alla riforma complessa delle macchine di bordo. Papa Francesco è giunto in un momento in cui le riforme tenute in gestazione per lungo tempo, vagliate con lenta cautela premevano per essere attuate; e si è dovuto barcamenare tra chi premeva sull’acceleratore e chi tirava tutti i freni disponibili, magari gettando l’ancora nel Tevere. Ma la Chiesa non poteva più ancorarsi nel Tevere, il mondo è il suo immenso mare. Ha mostrato così, da subito, dove voleva andare e pochi si sono mostrati veramente, sinceramente disposti a seguirlo.
Quante volte avrà chiesto al Signore “meté mano”? E il Signore gli ha dato come bussola il vangelo, sine glossa come diceva il suo santo. Il vangelo sine glossa che è segno di contraddizione perché scontenta “progressisti” e “indietristi”, gli uni e gli altri a criticare il papa per il mancato sacerdozio alle donne o per l’alterazione della dottrina, per la poca o molta indulgenza per la questione omosessuale o per la definitiva esclusione della liturgia preconciliare… e Francesco ad osservare i doppi giochi, i voltafaccia, i tradimenti di coloro cui aveva dato fiducia, la dimensione umana, troppo umana dei collaboratori. Praticare la difficile arte del discernimento, da buon gesuita, è stato l’impegno primario del suo ministero: l’arte di saper decidere tenendo conto di tutti i fattori coinvolti nella decisione.
L’ascolto sinodale è stato alternativo alla prerogativa teologica dell’infallibilità che non ha mai voluto esercitare. I problemi della Chiesa sono problemi di tutti i fedeli e quod omnes tangit ab omnibus approbari debet, come recitava il diritto giustineaneo. Ha lasciato sicuramente tante questioni aperte papa Francesco, ma ha innescato un processo, quello del sinodo universale, che porterà la Chiesa, considerata come unità di pastori e popolo di Dio, a rivedere la propria fisionomia in relazione al mondo a cui è inviata; seguendo le indicazioni del Vaticano II che già aveva pre-visto la novità della sua missione nella modernità, e non per ultime quelle dello Spirito che apre gli occhi, orecchie e cuore davanti ai dolori del mondo. Francesco ha coniato un altro trinomio per descrivere la dinamica del discernimento: “testa, cuore e mani”, cioè ragione, sentimento, esperienza, per cui il discernimento è una forma di intelligenza concreta e al tempo stesso spirituale che lo ha fatto mettere in ascolto dei dolori di questo mondo di cui la guerra è il più cruento. La sua è stata una voce che costantemente, nei dodici anni di ministero, si è levata contro la guerra e contro il riarmo. Ha cominciato col denunciare la “terza guerra mondiale a pezzi” e non ha più smesso, giorno dopo giorno, di supplicare Dio per la fine delle stragi ancora in corso, esortando i potenti alla ragionevolezza con il monito fermo e ripetuto come un mantra: “la guerra è sempre una sconfitta”. La solitudine della sua voce ha raggiunto il cuore del mondo, provocando consensi e adesioni, ma è stata scomoda per i potenti che si sono sentiti smascherati dalle affermazioni nette e puntuali del papa, che ha parlato di crimine, genocidio, follia, crudeltà, disumanità. I suoi ultimi pensieri, le sue ultime parole per la benedizione alla Chiesa e al mondo, nel giorno memoriale del trionfo della vita sulla morte nella Pasqua di Cristo, sono stati per la pace, quella che lui avrebbe raggiunto da lì a poche ore e in cui ora vive continuando a pregare:
«Nessuna pace è possibile laddove non c’è libertà religiosa o dove non c’è libertà di pensiero e di parola e il rispetto delle opinioni altrui. Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo! L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo. La luce della Pasqua ci sprona ad abbattere le barriere che creano divisioni e sono gravide di conseguenze politiche ed economiche. Ci sprona a prenderci cura gli uni degli altri, ad accrescere la solidarietà reciproca, ad adoperarci per favorire lo sviluppo integrale di ogni persona umana».
Parole senza ricaduta? In quante forme le ha dette! Sembra che il vangelo sia senza ricadute, forse perché non abbiamo saputo tradurlo nei linguaggi più comuni e nelle forme più limpide. Francesco si è impegnato in questa traduzione tesa a recuperare la ricchezza originaria dei significati, e molti hanno compreso, molti esterni all’accampamento, atei, agnostici, intellettuali, gente comune non particolarmente religiosa, esponenti di altre fedi che hanno mostrato a questo papa dal tratto umano, dal cuore compassionevole, il loro apprezzamento e la loro simpatia perché ha parlato come altri mai avevano parlato e vissuto con coerenza ciò che con forza aveva proclamato.
In futuro ci saranno molte occasioni, dentro e fuori la Chiesa, per guardare più attentamente a questo “poliedro di Dio” come si potrebbe definirlo; il poliedro che lui amava come figura tipica della variegazione del mondo da approcciare da angolature diverse, da prospettive non fisse e senza pregiudizi. Javier Cercas ha parlato di lui come Il folle di Dio alla fine del mondo, mentre Francesco ci è giunto “dalla fine del mondo”, forse senza neanche pensare che avrebbe spontaneamente decostruito la figura del Sommo Pontefice, del papa infallibile riducendolo e così elevandolo alla figura di “fratello universale”. Alla fine ha compreso che il suo “papato” era consistito nel modo in cui lo aveva vissuto, confondendosi cioè con l’umanità, con l’uomo comune, povero nel vestito e infermo nel corpo, in carrozzina col suo poncho argentino a parlare con la gente. L’ultima icona di Francesco, che ha destato stupore. Mai un papa in san Pietro in quella veste anonima, con l’aria semplice del nonno infermo della porta accanto. Questa icona credo sia la più significativa di Francesco, più di tante altre. Ha deposto l’ultimo segno del suo alto ministero per abolire ogni distanza e ogni timore reverenziale che quell’abito può provocare. E poi si è immerso nel mare della folla, senza più forze, lasciandosi cullare dalle ondate di affetto dell’umanità che ha amato non meno del suo Signore. E ha fatto Pasqua passando da amore ad Amore.
Ed ora? Siamo in molti a sentirci orfani di questo padre, a provare un senso di disorientamento per aver perso un punto di riferimento sicuro, come si è espresso il presidente Mattarella; forse altri avranno tirato un sospiro di sollievo o addirittura esultato per la scomparsa di una voce scomoda e inquietante che per tanti anni ha disturbato i potentati e fustigato costumi politici e culturali. Si tratta comunque di giudizi e sentimenti personali e ognuno risponde del suo in ordine al grado di empatia instaurato con Francesco. E la Chiesa? La Chiesa non può non cogliere il ministero petrino di Francesco se non come un momento kairologico, in un certo modo una sintesi pneumatica di ciò che i suoi predecessori, da Giovanni XXIII a Benedetto XVI hanno messo in atto per svolgere il vasto programma conciliare che ha richiesto un tempo forse eccessivamente lungo per essere compreso.
Francesco ha dovuto, coll’incalzare del tempo culturale, approntarne una rapida sintesi. Ha dovuto portare la Chiesa al mondo senza attendere che il mondo venisse alla Chiesa e ha usato il megafono istituzionale della Chiesa per far giungere al mondo il messaggio evangelico: che è necessario proteggere l’uomo dalle lesioni alla sua dignità umana ad opera di una società secolarizzata e senza Dio. Ai cristiani ha ricordato che il loro compito non consiste in un puro e semplice interesse per la giustizia sociale, per l’ordine politico, per l’esercizio del libero commercio. Riguarda la stessa struttura della società e del patrimonio culturale dell’uomo: collaborare alla difesa e alla ripresa dei fondamentali valori umani senza i quali la grazia e la spiritualità avranno uno scarso significato per la vita dell’uomo. Per un più completo sviluppo di questo compito ha chiamato le altre Chiese sorelle e le altre religioni a condividerlo, perché unendo le forze spirituali e morali le religioni possano contrastare i disegni nefasti che si profilano all’orizzonte del XXI secolo e che già al presente manifestano un conturbante inizio. Una cosa sembra comunque certa: che sarà difficile cancellare l’azione di questo papa fuori misura senza ledere la credibilità della Chiesa. Il mondo credente e non, tanti uomini di buona volontà hanno guardato a lui come ad un faro di speranza, a uno che ha inaugurato percorsi virtuosi, a un mite combattente per la pace che ha evidenziato la forza della nonviolenza insita nel vangelo. Con lui, giunto a noi inaspettato e dalla fine del mondo, è passato il kairos dello Spirito per fornire a questo tempo una vitalità nuova e duratura da costruire insieme con tenacia per l’unità del genere umano e per la sua integrale salvezza.
Nessuno però ha sospettato che i funerali solenni celebrati il 26 aprile sul sagrato di san Pietro fossero quelli dell’anziano uomo in carrozzina con indosso il poncho e le cannule d’ossigeno al naso; e che le sue disposizioni testamentarie prevedessero l’essere portato via dal Vaticano, quasi per simbolica presa di distanza da un luogo in cui ha dovuto rivestire un ruolo che lo collocava tra i potenti della terra suo malgrado. Sulla sua tomba quell’uomo semplice ha previsto nessun titolo, solo FRANCISCUS. I potenti della terra però erano tutti lì, per il diritto ad esserci, giusto per esserci, per ribadire con la presenza in prima fila la dignità, lo status, la potenza. Del pericoloso uomo in carrozzina ormai innocuo dentro la bara non hanno mai condiviso una parola, e semmai lo hanno ascoltato in circostanze diplomatiche facendo finta di annuire ai suoi discorsi e facendo poi il contrario. Sicuramente Francesco lo sapeva e ha cercato di amarli ugualmente. Sicuramente Francesco vedeva, dal cielo, lo spettacolo dell’ipocrisia umana ammantata di visibilità istituzionale e avrà sorriso.
A Roma, che è anche la città di Pasquino e delle pasquinate, nella notte tra il 23 e il 24 aprile, in via Nicolò Piccolomini, vicino al Vaticano è apparso un murales, la nuova opera di Laika dedicata a papa Francesco. Papa Francesco è raffigurato mentre scorre la lista degli invitati al suo funerale. Tra i nomi si leggono quelli di Trump, Milei, von der Leyen, Salvini e Piantedosi, mentre lo scomparso già aureolato commenta: ”Ma questi chi li ha invitati?”.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, liturgista, esperto di musica liturgica e di arte sacra, è Interlocutore Referente presso la Pontificia Accademia di Teologia (PATH). Ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo, docente e Direttore della Scuola Diocesana di Teologia e della Biblioteca diocesana. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso. Attualmente è anche Referente diocesano per il Sinodo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018). Nel campo dell’innografia liturgica ha pubblicato con le Edizioni Paoline due volumi di inni: O fonte della luce; O Cristo splendore del Padre.
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