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Fotografare per incontrare gli altri, viaggiare per scrivere una ballata

copertinadi Virginia Lima

Passeggiare, camminare, vagabondare: azioni semplici, quotidiane, naturali che spesso diamo per scontate. Azioni vitali ed essenziali per alcuni, da scoprire o riscoprire per altri in un momento nel quale un semplice contatto sfiorato è sinonimo di potenziale pericolo, rischio, contagio. In un certo senso, dunque, in questi ultimi tre mesi anche noi come Julius, protagonista di Teju Cole in Città aperta, abbiamo attribuito o riassegnato nuovamente alle camminate il valore di essenzialità: «le camminate rispondevano ad un bisogno: erano una liberazione dalla severa disciplina mentale del lavoro e quando scoprii il loro effetto terapeutico diventarono la norma, e dimenticai come era stata la vita prima di quei vagabondaggi» (Cole 2013: 9).

È curioso che la traduzione a cura di Gioia Guerzoni de Lo sguardo di uno sconosciuto (2020) di Emmanuel Iduma esca proprio all’indomani della timida riapertura alla socialità e agli incontri, dopo tre mesi di isolamento forzato a causa della diffusione della pandemia e delle sue nefaste conseguenze. È con questo testo, edito da Brioschi editori, infatti, che si apre la collana GliAltri e, in particolare, la sezione dedicata alla letteratura africana. La scelta, spiega nella prefazione Alessandra Di Maio, nasce dal desiderio di far circolare opere apprezzate a livello internazionale, ma poco conosciute in Italia come dimostra il fatto stesso che l’edizione originale A stranger’s Pose sia uscita nell’ottobre 2018, ovvero ben quasi due anni prima della traduzione italiana. Un testo singolare, frutto dei viaggi che l’artista ha compiuto individualmente o insieme ad altri compagni durante la sua partecipazione al progetto Invisible Borders. Un romanzo strutturato in 77 capitoli, 77 racconti di viaggio che altro non sono che 77 scatti di una realtà, tuttavia, lontana dai cliché africani caratterizzati da riti tribali e sciamanici: Iduma, giovane scrittore e fotografo, cammina, cammina «con la musica, cuffie in testa, taccuino nella tasca» mentre la sabbia sollevata dalle ciabatte si spande in ogni direzione. In compagnia dell’artista, il lettore ha modo di osservare città africane così inaspettatamente contemporaneamente.

Il testo di Iduma, dunque, è un libro di movimento, un travalogue, un diario di viaggio, un’opera che parla appunto dell’esperienza di viaggio che l’autore vive spostandosi da Rabat a Addis Abeba passando per Dakar, Lagos, Benin City, Khartum solo per citare alcune delle città scoperte, ma che affronta anche in parte la riscoperta della propria identità. Un romanzo definito da Cole nell’introduzione «una ballata in cui il testo si dispiega come una melodia, in cui inaspettatamente, ma nella maniera più raffinata, le immagini compaiono come armonie».

In un clima ancora surreale, quantomeno in una Milano che ancora fatica a riprendere movimento e velocità, le pagine dello scrittore nigeriano suscitano un sentimento di riscoperta per il viaggio o semplicemente per il camminare su strade conosciute e non, verso angoli chiusi o scorci aperti, ma ancora di più muovono il desiderio, la necessità dell’incontro con l’altro. Il viaggio, effettivamente, è sempre stato un elemento costante nella vita dell’uomo. Si viaggia per andar lontano da casa, per fuggire, per lavoro, per formazione o anche solo per piacere. Nei viaggi di Iduma passato e presente si intrecciano nei ricordi dell’autore, attraverso i ritratti della propria famiglia, attraverso gli scatti stessi del fotografo, ma anche mediante le fotografie di professionisti di fama internazionale quali Siaka Traore, Dawit L. Petros, Malick Sibidé: scatti del passato che ora ci restituiscono aspetti di vita quotidiana, ora rappresentano pezzi di storia in un continente vasto quanto complesso.

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Malick Sibidé, Notte di Natale, 1963

Un esempio della perfetta simbiosi lirica tra passato e presente è l’incontro che l’autore ricorda con il famoso fotografo Malik Sibidè, il quale, ormai vecchio e cieco, si pone in una posizione ambivalente con la tecnologia digitale definendo «la fotografia come una caccia». Iduma descrive così la foto più famosa dell’autore, senza mai citarne il titolo (Notte di Natale, 1963) o il significato: «Nella foto, la ragazza è a piedi nudi, il ragazzo in giacca e cravatta e sembra che le loro ginocchia possano toccarsi da un momento all’altro. Quello che mi interessava era il sorriso sui loro volti, e il braccio della ragazza, che teneva abbassata la gonna, una danza così euforica minacciava di rivelare troppo».

Il movimento, costante nella storia dell’essere umano, assume, dunque, in modo prepotente una sfumatura di essenzialità che identifica la condizione stessa degli esseri umani: «L’umanità non sa come affrontare il desiderio di vagabondaggio, come placare la tentazione di muoversi. Le navi vanno bruciate». Così, Tariq ibn Ziyad, conquistatore dell’odierna Gibilterra – ci spiega Iduma – ordina di distruggere le navi che avevano condotto i suoi uomini dall’ Africa. Il movimento si contrappone all’immobilità, quell’immobilità che il fotografo nigeriano legge nell’ipotesi del corpo senza vita del padre: «Un corpo senza vita è la massima espressione dell’immobilità». Al concetto del vagabondare viene poi in un certo senso contrapposta l’immagine dell’albero: «mentre i germogli crescono verso l’alto, l’albero mette nuove radici in basso». Ma nello stesso tempo l’albero diventa similitudine dell’amore per Iduma in quanto – suggerisce l’autore – fin dalla sua nascita deve affrontare il problema della gravità allungandosi verso l’alto sì, ma mantenendo radici ferme e solide nel basso:

«una storia d’amore può essere vista come un albero alle prese con i suoi problemi di gravità: come crescere verso l’alto, mantenendo l’affetto reciproco, e al contempo rimanere radicati, anche se le nostre vite sono compromesse dai dettagli intimi dei difetti che vediamo l’uno nell’altro. La spinta verso l’alto dell’affetto, quella verso il basso della consapevolezza. Per far durare l’amore ci orientiamo in relazione alla gravità».

Se il viaggiare presuppone movimento nello spazio, il movimento a sua volta implica incontri. Il viaggio che Iduma compie nell’Africa centrosettentrionale è, infatti, un’esperienza di incontri descritti mediante sguardi fugaci, parole accennate, braccia appena sospese. Ma come la descrizione della foto che celebra l’indipendenza del Mali, gli incontri lungi dall’essere contestualizzati in uno spazio temporale definito, si sviluppano su uno sfondo quasi atemporale: nessune coordinate. Sono storie incomplete che si inseriscono quindi nell’anonimato, in una terra senza confini nella speranza che «le città apparissero slegate dai loro paesi, come un atlante di mondo senza confini».

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Siaka Traore, Untitled, 2016, riprodotta dall’autore

Gli incontri accennati si alternano così alle fotografie che si stagliano nelle pagine del libro insieme a quelle immagini che evoca lo stesso autore e che identificano una modalità analogica dello storytelling. Così all’ingresso in Mauritania, il lettore ha la possibilità di osservare il paesaggio attraverso lo sguardo di Iduma: «Vedo un paesaggio di dune e case costruite come scatole di fiammiferi», vede con il «naso schiacciato contro il finestrino» quegli uomini dai «corpi spavaldi, avvolti nei vestiti migliori, diretti verso case che sembrano alte solo un paio di metri». L’ardore, la fierezza dello sguardo di questi uomini incontrati nel primo giorno di ‘Aid al-Fitr sono tali da indurre Iduma ad un desiderio quasi perentorio, che finisce per travolgere anche il lettore: «voglio essere quegli uomini».

Ma il viaggio non è solo scoperta o riscoperta, a volte può anche essere sinonimo di esclusione, isolamento e alienazione. Così, quando dalla Mauritania Iduma arriva in un momento non ben precisato a Dakar in Senegal e precisamente a Ngor, il giovane scrittore racconta il proprio sentimento di inadeguatezza, di straniamento a causa della non conoscenza della lingua francese. A Dakar come a Rabat la paura, infatti, è quella di «essere marchiato come un forestiero incapace». Così, davanti alle scie dei surfisti tra le onde del mare l’artista riflette: «Vedo cosa i fiumi – il Nilo nel suo corso al di là del Mediterraneo, il Niger quando unisce Timbuktu a Lokoja – possono insegnare con la loro massa fluida. Le onde ricadono una sull’altra, come un dialetto si modula sull’altro. Tutti i fiumi sono plurilingue». Un sentimento, questo, che spesso colpisce i forestieri in una città sconosciuta sebbene se ne conosca la lingua o, almeno in parte, la cultura. Straniamento, malinconia sono in effetti sentimenti che si ripetono nelle pagine e che derivano probabilmente dal desiderio di totale abbandono da parte dell’autore, abilissimo nel mescolare scrittura e fotografia, lirica e descrizione, presente e passato. Un uomo non ancora trentenne alla ricerca della propria casa, una casa che, nell’intervista rilasciata a Caitlin Chandler alla fine dell’agosto 2019 e disponibile nella traduzione italiana, non è New York, sebbene sia proprio qui che l’autore risieda: «Specialmente perché non sono americano, riconosco sempre che può succedere qualunque cosa – il tuo visto potrebbe essere rifiutato – potresti non ottenere mai la residenza permanente o diventare un cittadino».

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Dall’archivio familiare dell’autore

Questo straniamento non è poi così dissimile dal sentimento percepito ancora una volta da Julius in Città aperta. Il protagonista, infatti, comincia ad errare per la città di New York con occhi da straniero e, allo stesso modo, incontra persone, riconosce luoghi e ascolta storie che diventano parte di lui e che contribuiscono a costruire la propria identità: «mi faceva sempre uno strano effetto vedere la folla che si precipitava verso i sotterranei della metropolitana, e avevo la sensazione che la razza umana fosse attirata in quelle catacombe mobili da un irrazionale istinto di morte. In superficie, ero con migliaia di altre persone chiuse nella loro solitudine, ma là sotto, in mezzo a sconosciuti, a spintonarci a vicenda per un po’ di spazio e di aria rivivendo ignorati, la solitudine era ancora più intensa» (Cole 2013: 9). Iduma trasmette poco della propria storia e solo nelle ultime pagine come se in un certo senso la scrittura intima facesse riaffiorare pian piano la nostalgia, la malinconia che a volte prendono forma di dolore. Iduma ricorda così la degenza del padre in ospedale dopo l’operazione chirurgica, la tragica scomparsa dello zio, quello stesso zio dal quale ha ereditato inconsapevolmente il suo nome, le diverse morti del nonno, dall’anima irrequieta.

Julius e Iduma da un lato, dunque, New York, simbolo della modernità, della contemporaneità e dall’altro un continente ricco quanto sconosciuto, l’Africa, «un continente troppo grande per poterlo descrivere […] a parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste», sostiene, a tal proposito, Kapuscinski nell’introduzione di Ebano (Kapuscinski, 2000). Che sia la città per antonomasia dell’Occidente o che sia una più o meno conosciuta città dell’Africa il sentimento di spaesamento può essere il medesimo di fronte ad una ricerca di se stesso e della costruzione del sé.

Un connubio, quello tra passeggiare e ed estraniamento, che potrebbe ricordare anche le pagine di Pessoa: «cammino per una strada e vedo sul viso dei passanti non la loro vera espressione, ma l’espressione che avrebbero nei miei riguardi se conoscessero la mia vita e me, se lasciassi trasparire dai miei gesti la ridicola e timida anormalità della mia anima» (Pessoa 2014: 94-96). Lungi dall’essere subordinato alla letteratura, il viaggio appare quindi intimamente e antropologicamente connesso alla scrittura. È proprio questa, infatti, che annulla la distanza, presupposto stesso del viaggio (Fasano, 2005).

Diversi anni prima dell’esperienza di Iduma, Terzani nella notte del 31 dicembre del 1992 prendeva una decisione importantissima per la sua vita non solo di giornalista, ma anche di uomo: «presi formalmente l’impegno con me stesso di non cedere, per nessuna ragione, a nessun costo, alla tentazione di volare. Avrei viaggiato il mondo con ogni mezzo possibile purché non fosse un aereo, un elicottero, un aliante o un deltaplano» (Terzani 2006: 11). Tale decisione è stata frutto di un incontro con un indovino cinese ad Hong Kong. Questi, infatti, nella primavera del 1976 ammoniva il giornalista a non prendere aerei nel 1993 onde evitare la morte. La scelta per quanto illogica ha determinato un radicale cambiamento nella prospettiva del viaggatore: «Muovendomi fra Asia e Europa in treno, in nave, in macchina, a volte a piedi, il ritmo delle mie giornate è completamente cambiato, le distanze hanno ripreso il loro valore e ho ritrovato nel viaggiare il vecchio gusto di scoperta e di avventura» (ivi: 12).

Se Iduma ci offre un’immagine di un mondo senza confini, Terzani guarda «al mondo come ad un intreccio complicato di paesi divisi da bracci di mare che vanno attraversati, da fiumi che vanno superati, da frontiere per ognuna delle quali occorre un visto» (ibidem). Il viaggio di Iduma ci fa scoprire, dunque, quell’umanità che non puoi fare a meno di guardare direbbe Terzani: «sugli aerei presto si impara a non guardare, a non ascoltare: la gente che si incontra è sempre la stessa; le conversazioni che si hanno sono scontate. In trent’anni di voli – scrive Terzani – mi pare di non ricordarmi di nessuno» (ivi: 13).

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Dawit L. Petros, The Stranger’s Notebook, 2016 (riprodotta dall’autore)

Il lettore, al contrario, ha la possibilità di seguire Iduma, ora viaggiatore, ora scrittore, ora fotografo, di immaginare gli incontri e le fotografie descritte, i personaggi citati. Non a caso nella prefazione del testo il giovane fotografo viene definito artista visivo, il cui senso probabilmente è racchiuso dalle parole del vecchio cieco che lo scrittore incontra in un mercato di un paese non bene precisato: «L’occhio è la lampada del corpo [….] La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se è offuscato, il tuo corpo sarà avvolto dalle tenebre. Se dunque la luce che è in te è fatta di buio, le tenebre offuscheranno tutto».

Nel testo poi non poteva certo rimanere assente il tema dell’immigrazione, un tema caldo e sempre attuale che viene, tuttavia, sfiorato con una pacata delicatezza: «Il percorso che stavo seguendo io – attraverso il Mali, il Senegal, e poi la Mauritania – era punteggiato di storie di donne, uomini e bambini in viaggio verso l’Europa». All’immagine suggestiva di un atlante senza confini, si contrappongono i muri della burocrazia. Questi, tuttavia, racconta Iduma, non sembravano un impedimento agli uomini che «ogni volta che incontravano quei muri si fermavano e si riorganizzavano. Trovavano sempre nuovi modi per aggirare l’onnipresente guardia civile spagnola, per continuare ad avanzare verso l’idea di una vita migliore». Così, quando Iduma incontra l’«uomo appoggiato a un palo» con uno zaino simile al suo, ma più logoro,  realizza che se il suo viaggio aveva come obiettivo quello di scrivere un testo che avesse come tema la vita sulle sponde del fiume Senegal, i viaggi di quell’uomo «erano un obbligo ben più duro di una scelta», un viaggio fatto di respingimenti e di ritorni. Una frase semplice e urlata da un uomo che bene sintetizza il tema senza passare per frasi sentite e risentite, per luoghi comuni: «il mare è l’unica strada». In tal senso, bruciare le navi sarebbe un gesto del tutto vano.

Alla frase poi si aggiunge un’immagine, quella di una barca disegnata da un costruttore di barche speciale, ovvero il nipote dell’autore: «Immagina che la tua barca porterà molti passeggeri, che si muoverà piano, oscillando nel sole del pomeriggio. Colorala di un ruggine scuro, caldo. Nel blu del Mediterraneo, sulla distesa bianca del nulla da un orizzonte all’altro, verrà avvistata dai soccorritori. Ecco, ora sei un costruttore di barche». Alla sensazione di un viaggio senza confini o limiti geografici si contrappone, dunque, il muro di confini fisici, burocratici, politici e anche sociali che distingue il viaggio verso un futuro migliore o verso la semplice speranza di un futuro migliore.

Il viaggio di Iduma, al contrario, è una sorta di viaggio di ritorno: «La mia scusa per tornare, dico ai miei amici, era incontrare la famiglia di mia madre. Il mio cognome deriva dal nonno materno, e per pensare all’identità mi sembrava necessario investigare in direzioni matrilineari oltre che agnatizie».

Proprio qui, infatti, mentre visita la tomba di una parente l’autore prende consapevolezza del potere dello sguardo di un sconosciuto, un potere in grado di dare un nome perfino ad una tomba priva di iscrizione, ma che è situata su una strada visibile a tutti: «In quel momento, rimango inchiodato a fissare la tomba grigia ricoperta di fango vicino a un sentiero stretto. Questa prossimità alla strada, mi rendo conto ora mentre lo scrivo, le dà un nome. Chiunque passi di lì vede quella tomba. Il suo ricordo è custodito nello sguardo di uno sconosciuto».

È attraverso la scrittura che il giovane viaggiatore giunge al termine del percorso acquisendo in prima persona e trasmettendo al lettore il potere dello sguardo di uno sconosciuto che anche di fronte all’immobilità della morte, consente continuità e movimento, caratteri distintivi dell’essere nello stesso tempo scrittore, fotografo, viaggiatore e uomo. Ci scopriamo così alla fine tutti un po’ sconosciuti!

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Riferimenti bibliografici
T. Cole, Città aperta, Einaudi, Torino 2013.
P. Fasano, Letteratura e viaggio, Laterza, Roma Bari, 2005.
R. Kapuscinski, Ebano, Feltrinelli, Milano 2000.
F. Pessoa, Libro dell’inquietudine, Mondadori, Milano 2014.
T. Terzani, Un indovino mi disse, TEA, Milano 2006
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  Virginia Lima, laureata in Beni Demoetnoantropologici e specializzata in Antropologia culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha orientato parte dei suoi interessi scientifici verso l’antropologia del mondo antico, approfondendo la funzione culturale del prodigium inteso non solo come momentanea rottura dell’ordine cosmico ma anche come strumento della memoria culturale del popolo romano.

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