CIP
di Vito Teti [*]
1. La “restanza”: una parola antica e nuova per indicare la modalità dinamica del restare
Dal paese della mia fanciullezza non si faceva che andare. Le partenze somigliavano a un lutto, con i pianti, gli abbracci e le valigie e le persone e le cose che si stipavano in una delle prime utilitarie arrivate fin lì. Partivano grandi, donne e i miei piccoli compagni, e non sapevano bene dove andavano. Partivano e dicevano che presto sarebbero tornati, di badare alle loro case, di parlare ai muri e alle porte, in attesa del loro ritorno. Era una catastrofe, un terremoto devastante, anche se da bambino non me ne rendevo conto. Un mondo si frantumava in mille schegge e non si sarebbe mai più ricomposto.
Negli anni avrei fatto esperienza delle più epiche e incredibili storie di emigrazione. Annotavo storie, prendevo appunti, ascoltavo uomini e donne, erranti e restanti, iniziavo a contestualizzare le loro storie singole nel fenomeno migratorio che era collettivo e, nel tempo, imparavo a riconoscerle come parte costitutiva – al contempo struttura e flusso – di me stesso. All’origine delle mie ricerche e dei miei scritti sull’emigrazione, il viaggio, i paesi abbandonati, il pellegrinaggio, la melanconia, la nostalgia, è sempre decisivo un motivo affettivo, personale, autobiografico, legato al mio vissuto, alla mia memoria, ai miei oblii.
Nel 2011 scrissi, dopo tanti saggi sull’antropologia, sulla letteratura del viaggio e sull’emigrazione, Pietre di pane. Per un’antropologia del restare, un libro di racconti, memorie, storie di chi viveva a Toronto, ma continuava a restare in paese, o di chi era rimasto nel luogo di origine con il sogno, la nostalgia, la paura dell’altrove. Mi interrogavo non solo sull’inseparabilità del partire e del restare (è la lunga vicenda dell’Homo Sapiens), ma anche sulla sovrapponibilità, anche nella stessa persona, dell’esperienza e del sentimento del restare e del partire. Chi era rimasto e chi era partito, spesso era la stessa persona quasi sempre “a mezza parete”, nello stesso tempo rimasta e partita, incerta, sospesa.
In queste storie di viaggio e di fughe, dove collocavo le madri che attendevano il marito o i fratelli e figli in maniera attiva, affermando una nuova presenza dinnanzi alla catastrofe dell’emigrazione? Nel 1989 avevo intitolato Il paese e l’ombra (1989) una riflessione sull’emigrazione che avevo osservato, in cui emergeva che i due paesi, pure non potendosi più ricongiungere, non potevano mai separarsi definitivamente e che, per poter affermare una presenza, l’uno doveva percepirsi come l’ombra dell’altro. E, infatti, come potevo separare i due “paesi”, i paesi “doppi”, che nascevano dopo le calamità naturali o con l’emigrazione e spostamenti vicini e lontani? Come potevo contrapporre restare ad erranza specialmente in terre che avevano conosciuto una grande mobilità e dove le persone compivano lunghi e continui viaggi per ragioni di lavoro, commercio, religiose?
Ho pensato che il termine “restanza” (adoperato nella prefazione del libro), potesse diventare una “categoria” e un termine problematico, da adoperare con cautela, nel quale si riconoscessero “rimasti” e “partiti”, i “rimasti-partiti” e i “partiti-rimasti”. Era per me un mettermi ancora in cammino, un modo per cercare il punto di caduta in cui una polifonia di voci, un caleidoscopio di immagini, potessero ricomporsi e trasparire nella dimensione densa dell’idea del restare indissolubilmente legato al partire e al tornare.
Il termine “restanza” che adoperavo, non soltanto per indicare uno stato d’animo o una condizione personale e individuale, ma soprattutto per ripensare fenomeni collettivi in presenza di eventi che ti pongono dinnanzi alla scelta o alle necessità di restare o spostarsi, non è un neologismo ma è attestato già nel Trecento, nell’accezione di “ciò che avanza”, “rimanenza”, “resto”, o di “permanenza”, “soggiorno”, e di “sessione”, “riunione di un’assemblea”, di un “concilio” (cfr. Restanza, Grande Dizionario della Lingua Italiana – Accademia della Crusca).
Anche se in periodi recenti, sia pure in un ristretto ambito filosofico, psicoanalitico, poetico la restanza è vista nella sua dimensione dinamica, mobile, etico-politica arriva dal francese restance (sulla base di résistence), impiegato dal filosofo Jacques Derrida, che, nel suo confrontarsi con la disciplina della psicoanalisi, gli attribuisce il significato di «resistenza psicoanalitica» (in Résistances de la psychanalyse, 1999), cioè il fatto che la condizione che consente l’osservazione psicoanalitica è al contempo ciò che è condizionato dal sintomo che si vuol indagare. In questo senso, il significato della decostruzione derridiana diventa quello di una pratica che mette in questione e si interroga su questi paradossi. Secondo Derrida il discorso freudiano contiene in abbozzo i paradossi che abitano l’intera costruzione metafisica occidentale, e la psicoanalisi diviene il luogo strategico a partire dal quale ripensare tutta la tradizione della ragione analitica, anche nel suo rapporto con la dimensione etico-politica. È questo il significato della restance, traccia di quel paradosso che è capace di lanciare il pensiero psicoanalitico al di là delle limitazioni entro cui opera il dispositivo clinico-teorico, e quindi di renderla una pratica viva. Nel 1991, con una posizione che ricorda quella di Derrida, scrive Patrizia Valduga (1991) a proposito della restanza: «Non è un dimorare permanente per resistere a ciò che passa: la restanza è una scrittura che insieme si iscrive e si cancella. Ora, se nel cuore di questa resistenza c’è restanza, possiamo dire che la restanza si oppone alla solitudine e alla morte».
Ne Il senso dei luoghi (2004) e in Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (2017) mi occupavo della posizione di chi abbandonava, per ragioni le più diverse (calamità naturali, crisi climatica, emigrazione in cerca di lavoro), il proprio paese invece di chi restava e decideva di vivere nella terra di origine per fedeltà, per senso di appartenenza, per ricostruire in maniera attiva, con un atteggiamento propositivo. Dinnanzi ad eventi catastrofici, le risposte delle popolazioni sono state sempre contraddittorie, non condivise, portavano in direzioni diverse. Molte volte, le persone scampate a un terremoto o a una alluvione, che si erano spostate in un sito vicino, dopo pochi mesi o qualche anno tornavano nel sito d’origine. In molti casi (sia in epoca moderna che in tempi recenti), nonostante ingiunzione delle autorità a spostarsi o la dichiarazione di inabilità del sito colpito da calamità, le persone non si spostavano, restavano là dove erano nate e vissute.
L’Italia ha una lunga storia di «restanti» che non hanno voluto abbandonare i loro paesi o le loro città distrutti da alluvioni e terremoti. All’indomani dell’alluvione del 1951, quando molti paesi della Calabria furono distrutti, gli abitanti di Natile rifiutarono la ricostruzione in luoghi vicini sostenendo di voler restare dove erano nati, come attestava il nome del paese: «Nati-lì». Il terremoto dell’Aquila, i recenti terremoti che hanno sconvolto tutto l’Appenino tra Lazio, Marche, Molise, Umbria, le alluvioni in Calabria, Sicilia, Liguria, Romagna hanno mostrato che gli abitanti non vogliono lasciare il proprio luogo, la chiesa, la casa, la terra, le mucche, l’orto, magari quella vita di fatica e solitudine a cui avrebbero voluto sfuggire e che invece si accorgono di amare nel momento in cui la fuga diventa espulsione, allontanamento, cacciata.
C’è un attaccamento, un senso di appartenenza, al proprio luogo, a volte l’orgoglio per le proprie peculiarità culturali, che si traducono in desiderio di ricostruire, rigenerare, rendere di nuovo abitabile il proprio luogo luoghi. Il termine restanza, come registra nel 2017 la Treccani e l’Accademia della Crusca viene adoperato «con particolare riferimento alla condizione problematica del Sud d’Italia, la posizione di chi decide di restare, rinunciando a recidere il legame con la propria terra e comunità d’origine non per rassegnazione, ma con un atteggiamento propositivo» «di chi, nonostante le difficoltà e sulla spinta del desiderio, resta nella propria terra d’origine, con intenti propositivi e iniziative di rinnovamento. […] Emerge subito come qui il concetto di restanza sia correlato a quello di erranza e l’avventura del viaggiare sia intesa come complementare a quella del restare» (Setti 2023).
2. Diffusione e polisemicità del termine restanza
La storia del Sapiens è segnata da grandi spostamenti e migrazioni specie a seguito di crisi climatiche devastanti. La dialettica, le dinamiche, le lacerazioni, le indecisioni dolenti sul partire-restare segnano tutta la mitologia, la letteratura, la poesia orale, i canti popolari del Sud Italia, delle “aree interne” d’Italia e del Mediterraneo. Partire o restare? si chiedono poeti, scrittori, intellettuali, che si sentono nello stesso tempo radicati a un luogo e desiderosi di partire. C’è chi fa l’elogio del viaggiare e dello spostarsi e chi della vita tranquilla, stabile, nella casa che abita. Spesso, però, la scelta è un dilemma, una sofferenza, genera dubbi. Anche la poesia e i testi di tradizione orale (canti, racconti, proverbi, modi di dire) di varie regioni d’Italia e di Europa ci presentano l’incertezza, l’indecisione, il dilemma delle persone che non sanno se partire e restare. In un canto si dice: «Ho il cuore in mezzo a due pensieri e non so dei due quale “prendere”». Stiamo parlando di fenomeni individuali, spesso delle élites, di determinate categorie sociali che hanno la possibilità di scegliere.
Nell’accezione in cui ho adoperato il termine (Teti 2011) la restanza, come fenomeno che riguarda gruppi, ceti sociali, popolazioni, comunità, paesi si lega e si definisce in relazione all’erranza e alla resistenza, tanto allo spostarsi quanto all’esperienza, o forse il desiderio di una condizione di “spaesamento”, di stupore come rifiuto di quella che viene vissuta come un’impossibile condizione, anche come rifiuto di un nuovo possibile “appaesamento” all’interno di schemi già sperimentati.
Tra l’uscita di Pietre d pane e de La restanza, sono trascorsi più di dieci anni, durante i quali questo concetto si densifica e comincia a emergere come tema narrativo, di rappresentazione e di impegno sociale e politico. Con una sfumatura semantica non del tutto sovrapponibile a quella da me teorizzata, sempre nel 2012 la restanza è citata nelle Considerazioni generali di Giuseppe De Rita sul 46° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese del Censis: una scelta che le ha garantito una circolazione non solo negli studi antropologici, ma anche in ambito sociale ed economico.
3. La restanza come tema narrativo e artistico
La restanza ha iniziato, nel secondo decennio di questo nuovo millennio, a emergere come tema narrativo, oltre che di impegno sociale e politico, e a diffondersi assumendo una sfumatura di resistenza e opposizione al modello dominante. Saggisti, scrittori, poeti, cineasti, artisti, attori, uomini di teatro, fotografi che fanno della “restanza” non solo l’argomento delle loro opere, ma anche una scelta di vita, una pratica quotidiana, una ragione civile e politica. Sarebbe impossibile anche fare un semplice elenco di autori, artisti, studiosi che fanno riferimento esplicito alla “restanza”, ma mi sembra opportuno, per il taglio che ho deciso di dare a questo scritto, ricordare che di restanza parla lo scrittore siciliano Roberto Alajmo nel suo romanzo Palermo è una cipolla (2012), collegando il termine ad altri consonanti come arrivanza e tornanza, che avranno largo impiego, in ricerche e pratiche degli negli anni successivi. Un richiamo al restare è presente, per es., nel romanzo vincitore del premio Strega 2018 di Marco Balzano. Tra gli scrittori e le scrittrici, una lucida scelta di restanza nell’entroterra abruzzese, con profonda consapevolezza dei rischi delle retoriche e dei problemi derivanti dalla strumentalizzazione dell’identità culturale, è quella compiuta da Donatella Di Pietrantonio: «ci disturba la falsa celebrazione delle nostre bellezze, il gran parlarci addosso della politica che vuole rivitalizzare i borghi ma intanto chiude gli ospedali di prossimità, taglia i servizi, non ripara le strade» (Di Pietrantonio 2021). Anche in una intervista a Giannicola D’Angelo (2024), dopo avere vinto il Premio Strega, Di Pietrantonio ha dichiarato «Restare inteso come restanza; rimanere là dove non è così facile così comodo. Significa fare una scelta attiva, ovvero quella di permanere su un territorio che presenta degli svantaggi».
La restanza presuppone pena, pietas, misericordia, dialogo con i defunti, critica dello status quo: siamo ben lontani da immagini edulcorate, retoriche, enfatiche, promozionali sul restare e ritroviamo questo punto di vista nei romanzi di Sonia Serazzi, Non c’è niente a Simbari Crichi (2020) e Il cielo comincia dal basso (2018). Percorso esistenziale e letterario diverso è quello di Maurizio Fiorino che tuttavia, nei suoi romanzi, cerca di conciliare il legame con le origini crotonesi e la scelta di andare altrove, in quella New York dove da giovane ha iniziato a fotografare e scrivere. Non è un caso che per il suo romanzo, Macello, un critico come Giammarco Di Biase parli di restanza. «Restare è una questione di forze che ti spingono e ti attraggono, significa “io non voglio e non posso andarmene” e assume un carattere elegiaco, affine a una condizione di cuore e di vita» (Di Biase 2021: 57). Anche la poesia ha contribuito a diffondere il termine o il concetto, per es. nelle opere di Nicola Grato (Le cassette di Aznavour, 2020), Alessandro Cannavale (L’agguato della tenerezza, 2023), Mario Bellizzi (La crisalide e la forma dei silenzi, 2021), Emiliano Cribari (Errante, 2022). La restanza ha sconfinato in produzioni di vario genere, dalla musica alla pittura, dalla fotografia (in tantissime mostre fotografiche in tutta Italia) al teatro, con notevole eco sui media e sulla rete, anche su restate di rilievo nazionale ed europeo.
Nel 2020 è uscito il libro di Savino Monterisi Cronache della restanza collegato al blog dello stesso autore che raccoglie pubblicazioni, iniziative, eventi dedicati all’antropologia del restare. Nel 2021 Alessandra Coppola ha presentato al Torino Film Festival il documentario La restanza, dedicato ad alcuni giovani salentini (di Castiglione d’Otranto) che rifiutano la fuga come soluzione ai problemi economici e, recuperando colture di grani antichi, hanno sviluppato una nuova economia in piccola scala. Castiglione è diventato così il ‘paese della restanza’. In un film leggero ma politico come Un modo a parte (2024) di Riccardo Milani, gli abitanti di un piccolo paese abruzzese si adoperano, ricorrendo a molteplici stratagemmi e combattendo gli ostacoli della politica e della burocrazia, per formare una pluriclasse ed evitare la chiusura della scuola. Fanno proprio, su suggerimento del maestro che viene da fuori, interpretato da Antonio Albanese, che cita il concetto di restanza e vincono la loro battaglia, anche se nella realtà le scuole continuano a essere chiuse e molti paesi si spopolano definitivamente.
4. La restanza come sentimento, individuale e collettivo, dell’appartenenza ai luoghi e dell’abitare
Sono costretto a diventare testimone di dialoghi e legami con persone che mi hanno scritto e contattato dopo l’uscita dei miei libri, ma è necessario ricordare come nominare la restanza (e rinvio alla bella riflessione che fa Enza Maria Macaluso nello scritto che appare in questo numero di Dialoghi Mediterranei) abbia significato, in un periodo di spaesamento e inquietudini, di chiusure e spostamenti in tutto il mondo (prima e dopo il Covid), per moltissime persone comprendere e definire un crogiolo di “sentimento” e di “emozioni” che li abitava e che non riuscivano a riconoscere e a risignificare. Un fatto che, per varie ragioni, mi ha colpito è stato che la parola e la categoria hanno trovato cittadinanza tanto nelle persone rimaste quanto in quelle che vivono in luoghi lontani da quelli di origine.
Sono state centinaia gli scritti, le mail che ho ricevuto, le riflessioni di persone, rimaste o emigrate, a mezza parete e sospese, che hanno accolto il termine restanza per indicare il loro stato d’animo, le loro controverse emozioni, le loro lacerazioni di figure inquiete, che mantengono un legame con il luogo d’origine, dovunque si trovino, il loro sentirsi qui altrove o incerte del loro restare e del loro tornare. Era come se questa parola “combinasse” e “amalgamasse” stati d’animo contraddittori, irrisolti, irrisolvibili e aiutasse a prendere consapevolezza di una “malattia” da cui era possibile “guarire”, anche inserendo la propria vicenda in una storia di lunga durata e in profondi mutamenti antropologici.
Sono state numerose le telefonate e le mail di persone che vivevano fuori dal mondo di origine, nelle quali mi raccontavano la loro storia e il loro disagio, uno spaesamento ovunque e dovunque, e a volte mi chiedevano consiglio se restare fuori o tornare, se restare o partire. Ascoltavo, cercavo di capire, di “partecipare”, di alimentare dialogo, naturalmente mi guardavo bene dal dare un qualsiasi consiglio su una scelta vitale ed esistenziale che provocava spesso tormento. Ho visto che c’è qualcuno che, con grande disinvoltura, proclama come un influencer o un moderno predicatore: “Tornate nei paesi” o “Andate via dai paesi”, quando il problema resta quello di capire il mondo dei paesi, che non è stato più osservato e studiato da decenni, e di impegnarsi per costruire consapevolezza e anche per rendere concreta la possibilità di restare, di partire, di tornare. Nominare la restanza aiutava a capire meglio, a meglio collocarsi nel mondo, forse anche ad elaborare comunque strategie di resistenza e valorizzazione della loro esperienze e anche a capire che la scelta tra restare o partire richiede responsabilità, interrogazione, forse consapevolezza, che il dilemma è insolubile, ma che è comunque possibile organizzare un nuovo senso della lontananza, dello spaesamento, dell’abitare, dell’esserci, di rapportarsi al luogo di origine, di uscire da un tormentato rapporto di odio-amore.
Quando un “sentire” e un “pensare” individuale incontrano sentimenti diffusi nel mondo circostante, da individuale diventa sociale e politico. La restanza (al di là delle scelte del singolo individuo), non è un “racconto autobiografico”, che riguarda persone privilegiate o disagiate. Chi pensa a un problema personale non si accorge che non si trova dinnanzi a pedine che vengono spostate per gioco sulla dama, ma si trova dinnanzi a una proposta problematica, scientificamente fondata, di cogliere un fenomeno sociale, quasi collettivo, politico che si va verificando in tutto il Paese, nei piccoli centri e nelle città, che conosce una grave crisi demografica e fenomeni di spopolamento dalle conseguenze disastrose.
Qualche isolato studioso che aveva immaginato che in gioco ci fosse una mia qualche inquietudine personale, sarà rimasto sorpreso nel leggere libri, articoli, memorie, profili da cui emerge che il termine ‘restanza’ ha composto insieme e dato un nome a una costellazione di sentimenti, emozioni, scelte, di giovani soprattutto, ma più in generale di persone che hanno deciso di partire, di restare, tornare, per contrastare lo spopolamento e di resistere, attraverso iniziative di rigenerazione, allo svuotamento che riguarda soprattutto le aree interne, di favorire e rendere praticabile le iniziative dei “tornanti” e di nuovi arrivati. Sarebbe interessante fare una mappa colorata e variegata dei gruppi, delle associazioni, dei musei, dei “cammini” che si chiamano “restanza”, “i cammini della restanza”, i musei della restanza o che fanno esplicitamente riferimento alla necessità e alla scelta del restare.
Questi movimenti culturali, artistici, “politici”, che affermano il diritto di restare, decostruiscono, nei fatti, tante concezioni esterne e interne, che si sono affermate negli ultimi tempi, neoromantiche ed estetizzanti dei paesi come luoghi mitici pacificati, puri, incontaminati. Sono la risposta anche a posizioni complementari, urbanocentriche, a volte a sfondo razzista, che considerano i paesi luoghi di arretratezza e di barbarie, di primitività, aree da svuotare e di cui accelerare la fine, magari trasferendo gli ultimi resistenti e tenaci abitanti in città o metropoli lontane e, magari, invivibili.
E difatti emergono posizioni narcotizzanti, che oscillano tra eutanasia ed accanimento terapeutico nei confronti di aree rarefatte. Comunque si voglia intendere il termine restanza (qualcuno commette l’errore di confondere il tema e l’oggetto della ricerca con la posizione di chi si occupa di una dato fenomeno), è impossibile, però, non registrare e non accorgersi di un variegato movimento di “restanti” e di “tornanti” che, nelle diverse parti d’Italia, fanno una scelta di vivere diversamente, vogliono affermare nuove relazioni e nuovi rapporti, si impegnano per arrestare lo spopolamento e per dare un nuovo senso a luoghi rarefatti, resi marginali, vuoti, desertificati invivibili da scelte politiche neoliberiste, economicistiche, classiste e urbanocentriche. È molto variegata e ricca la mappa di associazioni, gruppi, movimenti che, con diversa accezione, fanno riferimento a una “restanza” dalle forti connotazioni sociali, culturali, politiche, oltre che affettive e sentimentali. Lontani da mitizzazioni e da retoriche sempre in agguato, è necessario cercare di comprendere nuove figure sociali, giovani, donne, “restanti” e “tornanti” nelle aree interne e nei paesi del Sud, delle isole e del Nord, che sono animati da una forte tensione etica e politica, dalla voglia di “fare” e creare nuove economie e nuove comunità, nuove opportunità lavorative e di vita, anche per contrastare la chiusura e la morte dei luoghi.
La discussione che si è sviluppata sull’idea di un nuovo modo di restare ha costruito dialoghi in presenza, ha prodotto riflessioni sulla condizione di chi vive in aree del margine, ha contribuito a generare iniziative pratiche, concrete, attive, talvolta visionarie, per la rigenerazione dei luoghi.
5. Contro il rischio della restanza-market
Naturalmente, bisogna mettere in evidenza i rischi e i paradossi del “restare” (anche nella sua accezione dinamica, activa, sovversiva) o della restanza, di essere usati in maniera retroattiva, banalizzati, come scelta e pratica di retroguardia, di chiusura. Infondate e semplicistiche sono le posizioni di chi mette in contrapposizione restare e partire e non coglie l’inseparabilità dei due termini, non si rende conto che “restare è anche partire” e “partire è anche restare”. Altri compiono l’errore di confondere viaggiare, partire, migrare: c’è una bella differenza tra chi viaggia per “diletto” o come “turista distratto”, tra chi può muoversi tra luoghi diversi (avendo case in posti diversi) e chi parte per necessità o disperazione come gli immigrati che muoiono durante la loro traversata nel Mediterraneo.
Nelle definizioni più ingenue o alla moda, restare e restanza possono essere ridotti a un gadget, a un brand, a uno slogan, a una scritta sulla maglietta, alla marca di un prodotto alimentare. Se i cammini, le associazioni, i Festival della restanza vedono attivamente impegnati abitanti dei luoghi, giovani e associazioni, che accolgono nuovi saperi, creano e inventano nuovi mestieri e nuove forme dell’abitare, a volte il restare (come il partire e il tornare) – come prodotti di quel Folkmarket, che tanti e tanti anni fa aveva analizzato Luigi M. Lombardi Satriani – vengono ridotti a merce, a motivi di mercato, a suggestione per attrarre fondi e finanziamenti, a pratiche di “restauro” che snaturano, il paesaggio, gli abitati, i centri storici, l’ambiente.
Affiora a volte un uso banale, retorico, rituale del termine restanza. Strumentale, turisticizzato, adoperato da un’impresentabile élite politica. Ho segnalato questo rischio già nel mio libro. I retori della restanza “offendono” e vanificano l’azione di migliaia di ragazze e ragazzi che, quotidianamente, operano nei loro luoghi. Inventano, organizzano, producono, fanno cultura, creano comunità.
C’è un restare che è anche funzionale al controllo del territorio, ad ostacolare il mutamento, a impedire una nuova soggettività dei luoghi, con inaudita indifferenza per le desertificazioni e le fughe che provocano. E così la criminalità organizzata, la ’ndrangheta, assieme e dopo calamità come terremoto, malaria, alluvioni, frane, spostamenti di popoli, si presenta come l’ultima grande catastrofe che può generare sia un restare retroattivo sia un fuggire indotto e alimentato. Già per l’emigrazione al Nord, per il trasferimento e la ricostruzione dei paesi, per il fenomeno dei paesi doppi, la ’ndrangheta ha giocato un ruolo decisivo e ha visto nella ricostruzione un’opportunità per espandersi. Questo ruolo appare ancora più evidente in un periodo di grande spopolamento e di desertificazione. Chi vive nei “paesi dell’interno” e delle marine, nelle periferie urbane, sa di quanto dolore, di quale fatica, di quanti patimenti è il suo restare. Molti fuggono perché non sopportano più un’economia e una cultura basate sulle clientele, su logiche politiche di scambio, su mortificazioni che subiscono in luoghi in cui resterebbero volentieri, ma da cui si sentono “espulsi”.
6. Il diritto di restare e di migrare: paesi, città, periferie
Il termine restanza si è affermato in Italia, sia al Sud che al Nord, per una serie di ragioni storiche, geografiche, demografiche, sociali, prevalentemente con riferimento ai paesi delle aree interne, che conoscono un processo di spopolamento, alla resistenza alle delocalizzazioni forzate di paesi colpiti da calamità, a grandi esodi, che, soprattutto il Sud, conosce almeno dagli anni Cinquanta del Novecento, a una vera e propria desertificazione di vasti territori, sia per una natalità prossima allo zero sia per la fuga dei giovani che continuano ad emigrare. E comunque, come è errato contrapporre restare a migrare, e anche separare il destino di chi resta e di chi emigra, o immaginare che il “restare” escluda spostamenti, viaggi ed erranze
Come sostenevo nel libro La Restanza (2022: 87) la contrapposizione, o la netta distinzione, tra viandanti e restanti non solo è errata ma genera non pochi malintesi. Occorre espandere orizzonti e filtri interpretativi e non limitare la prospettiva antropologica della restanza alla vita di quegli angoli di mondo che sono i nostri piccoli e grandi paesi. Sarebbe fuorviante pensare che restare sia un problema dei piccoli centri, dei paesi e dei villaggi, delle piccole “isole” e non anche di grandi centri, di città, metropoli, persino megalopoli. Si “resta” anche nelle città, anche nei quartieri, si configurano mentalmente i propri spazi urbani e si contrappongono a quelli degli altri. In questo modo la restanza finisce per restituire i meandri, i sotterranei, i labirinti della città, ma anche le oscurità, le ombre, il doppio, il perturbante che abitano dentro l’uomo.
D’altra parte, restare ha a che fare con il senso di appartenenza, con l’idea dell’abitare, con un sentimento di radicamento, che spinge a non cambiare luogo di abitazione anche a persone che vivono in paesi a rischio, in zone in prossimità di vulcani, lungo corsi di fiumi, in aree di tifoni, terremoti, smottamenti. Stefano Portelli (2020) si è occupato del «diritto a restare», quello che negli Stati Uniti degli anni Ottanta era stato chiamato «the right to stay put», con riferimento agli abitanti «di un quartiere minacciato dalla pressione immobiliare, ai quali non è sufficiente sapere che le autorità competenti garantiranno loro un tetto sulla testa dopo averli sfrattati, o che i nuovi alloggi o terreni in cui verranno mandati saranno dentro il territorio urbano (garantendo quindi un certo “diritto alla città)”». Essi «hanno bisogno innanzitutto della certezza di poter rimanere dove si trovano, e che il prezzo per ottenere i servizi che spettano loro come cittadini e ancor prima come individui, non sia quello di essere obbligati a spostarsi».
Nel recente Il diritto di restare, dove, tra l’altro, compie un’attenta etnografia del diritto a restare che reclamano oggi gli abitanti dell’Idroscalo di Ostia, Portelli scrive:
«C’è un diritto a muoversi e un diritto a rimanere. Ogni persona ha bisogno a volte di muoversi, a volte di restare ferma, a seconda delle risorse disponibili, dei cambiamenti del clima, della forma del territorio e di molti altri fattori. Invece di distinguere tra comunità stanziali e comunità nomadi, migranti e nativi, turisti e villeggianti, viaggiatori e “nomadi digitali”, proviamo a immaginare un mondo senza frontiere: stasi e movimento sono parte della vita quotidiana di tutti. Ma ogni sistema produttivo esige un ordinamento spaziale definito» (Portelli, 2024: 11).
E cosi gli Stati nazionali possono decidere la permanenza di alcuni cittadini o bloccare gli arrivi alle frontiere. Possono favorire e determinare il movimento, espellendo, cacciando, allontanando, per interessi economici, per ridisegnare la città, migliaia e migliaia di persone o possono bloccare alle frontiere persone e popoli imprigionandoli al loro interno, detenendoli in carceri, in centri come quelli dell’Albania. Per non parlare poi dei trasferimenti urbani che avvengono con le tragedie delle guerre di conquista e che vedono milioni di esuli in tutto il mondo (Palestina, Siria, Sudan, Ucraina, Congo) e anche dei tanti progetti di sviluppo che spingono le persone a spostarsi all’interno dello stesso Paese o della stessa città (Ivi:13).
Restare non è una pratica di chi vive in piccoli luoghi, nelle piccole patrie, nei paesi di poche migliaia o centinaia di abitanti: restare è il problema dell’abitare, dell’essere in un posto, consapevolmente e responsabilmente, in una città, in una metropoli, in una banlieue. Certo sono diverse le modalità del restare nei diversi contesti e agglomerati. Diverso è restare oggi nei paesi degli Appennini che si spopolano, vuoti, solitari. Diverso è l’essere interno o esterno a un paese. Un doppio negativo e complementare nei confronti dei paesi a rischio abbandono. Per molti il paese è un negativo da rimuovere, un problema da risolvere al più presto. Meglio una sorta di etnocidio e di eutanasia nei confronti di luoghi che non ce la fanno più a vivere, sono moribondi, hanno bisogno di cure e di assistenza, con pochi abitanti apatici e per di più pieni di difetti, litigiosi, conflittuali, inoperosi. Altri vendono il paese a logiche turistiche deteriori e li cedono a un esotismo di maniera per cui il paese diventa Eden, luogo puro e incontaminato, paradiso delle case ad un euro, che si popola d’estate di centinaia di stranieri che non si conoscono, non formano comunità. Questo è un inutile accanimento terapeutico ad opera di chi non pensa al paese, ma al suo sentirsi vivo nel vuoto e con l’irresponsabilità di invitare ad abitare i paesi come luoghi di salvezza, dove invece magari muori perché non ci sono scuole, ospedali, farmacie, strade. Chi abita, non di passaggio, non in maniera occasionale, distratta in un paese, sa quanta fatica, amarezza, dolore comporta vivere il vuoto. Nessuna ebbrezza, ma rischio precipizio.
Come accade in caso di calamità naturali, quando accanto a chi decide di restare troviamo quelli che vogliono partire, anche in questi casi drammatici, la scelta restare-fuggire non è semplice, comporta lacerazioni o divisioni. Ci sono persone che resistono, combattono, muoiono nelle città bombardate perché non vogliono andare via dai luoghi in cui sono nati, ci sono persone che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla sete, dal caldo per cercare di salvare la loro vita e quelli dei loro cari. Esistono espulsioni subdole come quelle degli abitanti dei centri storici che vengono destinati ai turisti o da demolizioni per costruire centri commerciali, palazzi, edifici lussuosi, alberghi. La gente è costretta ad andare via in cambio di qualche risarcimento o perché avverte che il loro luogo è destinato a morire. Le città di provincia calabresi hanno visto l’espulsione di abitanti, la distruzione di quartieri, e il trasferimento in altre località (quanto è accaduto con i campi rom o con il centro storico a Cosenza è emblematico). Spesso la criminalità organizzata si occupa di espellere persone, acquistare potere, gestire territori, allontanare proprietari.
Una forte resistenza a spostarsi e il diritto a restare sono stati, del resto, affermati in Italia dalle comunità colpite da alluvioni e da terremoti dagli anni Cinquanta del Novecento fino agli ultimi grandi sismi che hanno colpito L’Aquila, l’Abruzzo, il Molise. Soltanto una visione parziale ha potuto costruire il luogo comune del diritto a ‘restare’ come caratteristica esclusiva dei paesi soggetti a spopolamento. La Conferenza episcopale e diversi esponenti della Chiesa si sono recentemente pronunciati sulla libertà di migrare e sul diritto di restare. Papa Francesco ha scelto di dedicare al tema la 109a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 24 settembre 2023. Liberi di scegliere se migrare o restare recita il messaggio diffuso, con l’esplicita «intenzione di promuovere una rinnovata riflessione su un diritto non ancora codificato a livello internazionale […] il diritto a poter rimanere nella propria terra […] precedente, più profondo e più ampio del diritto ad emigrare», perché riguarda «la possibilità di essere partecipi del bene comune, il diritto a vivere in dignità e l’accesso allo sviluppo sostenibile […] attraverso un esercizio reale di corresponsabilità».
7. Spaesamento di chi resta e di chi parte
C’è molto da riflettere sul senso del restare, dell’abitare, del rapporto con i luoghi, se è vero che tutta l’etnologia mondiale e la storia del pensiero antropologico sono legati alla scoperta, alla conoscenza, al rapporto con popolazioni, gruppi, “etnie” che “restavano” nei loro territori o che si muovevano in occasioni del tutto eccezionale, anche con difficoltà, con paura, “angoscia territoriale”, terrore di perdersi. Ed anche popolazioni nomadi (come quelle australiane descritte da Chatwin) per indicare i luoghi noti del loro nomadismo adoperavano un termine equivalente a “paese”.
È, in maniera complementare, davvero, un grave errore – storico, teorico, metodologico – contrapporre città a campagna, grande metropoli a paesi vicini, ed è alquanto evidente che la stessa “città” nasce ponendosi il problema del restare, dell’abitare, del vivere di un numero di persone notevolmente maggiore di quello che accolgono villaggi, paesi, comunità, tribù. Nell’Ottocento e poi nel Novecento, fino ad arrivare ai nostri giorni, si afferma un’antropologia urbana, che studia i quartieri, le piazze, i movimenti, gli spostamenti delle persone che abitano in città da cui non si spostano che raramente. I grandi autori dell’Ottocento e del Novecento (Baudelaire, Joice, Proust, Benjamin e l’elenco sarebbe, davvero, lungo) collocano al centro delle loro narrazioni figure che si sentono inquiete, altrove, straniere, in esilio nella città in cui abitano e si muovono.
Ho avuto modo di ricordare (Teti 2018a) che quelli che restano potenziano il senso del viaggiare, e diventano approdo per quanti ritornano: forse perché viaggiare e restare, viaggiare e tornare, sono pratiche inseparabili, trovano senso l’una nell’altra. Rimasti e partiti debbono dare vita a una dialettica che parla di integrazione, d’incontro, di vite separate e di riconciliazione. Restare, allora, diventa una pratica scomoda, una scelta oppositiva, un’inedita forma di spaesamento. Un’eresia. Una resistenza. Un impegno civile. Comporta per chi ha scelto di restare l’elaborazione di un pensiero critico, l’impegno e la responsabilità nel contrastare quanti non hanno cura e interesse per i luoghi. Il restare è legato all’esperienza dolorosa e autentica dell’essere sempre fuori luogo, di essere spaesato proprio nel luogo in cui si è nati e si abita.
Non esiste, forse, spaesamento, sradicamento più radicale di chi vive esiliato in patria, di chi è “dispatriato” (Meneghello 2000) e combatte una lotta quotidiana, fatta di piccoli gesti per salvaguardare e proteggere i luoghi che potrebbero essergli sottratti non da chi arriva da fuori, ma da chi vi abita dentro come un’anima morta. Il villaggio e la comunità da raggiungere non stanno indietro nel tempo, ma vanno raggiunti qui e ora, costruiti giorno per giorno. Anche con scarti, schegge, frammenti – nei margini, nelle periferie – del passato (riconosciuto e risarcito) in un luogo così vicino e così lontano. Restare significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. Implica il desiderio e la volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie, senza concedere spazio ad autocompiacimento ed autoesaltazione, ma neppure ad afflizione e disperazione. Non sono possibili pratiche di accoglienza e di ospitalità là dove non ci sono persone capaci di restare e in grado di agire e progettare, di stabilire legami e rapporti con il mondo dell’esodo e con luoghi lontani.
Uso sempre con cautela – benché abbia dedicato a essa molti lavori – la parola nostalgia, perché troppo gravida di significati. Il termine nasce per indicare il dolore legato alla partenza, allo sradicamento, all’esilio. Oggi per me il concetto di nostalgia è correlativo a quello di restanza. Per paradosso, infatti, la nostalgia sembra sia diventato ora il sentimento di chi resta, di chi si sente straniero in patria e la restanza sembra produrre nóstos, dolore, desiderio di altrove nei “rimasti”. Così come nostalgia dà un nome al dolore per il luogo perduto – il medico Johannes Hofer, che nel 1688 coniò il termine, la considerava il male patito dai soldati di ventura svizzeri per la lontananza da casa (v. Prete 2018) – , al pari restanza nomina lo stesso disagio esistenziale (e insieme la stessa risorsa) che è non solo di chi parte rimanendo legato al proprio luogo, ma anche di chi è restato e ha visto il proprio luogo dissolversi lentamente.
Non è un caso che lo spaesamento, lo smarrimento, l’angoscia di molti gruppi umani sono legati alla constatazione che il mondo in cui si resta, apparentemente inalterato, diventa irriconoscibile per le grandi trasformazioni. Non siamo noi ad allontanarci dal nostro luogo, è come se il luogo si allontanasse da noi trasformandosi, diventando un altro, familiare eppure diverso: in una parola, perturbante. Pur restando apparentemente immobile e immutato, l’ambiente che ci circonda è stato violato, distrutto, abbandonato. In realtà, mi ha fatto molto pensare che della “restanza” sia stata preso in considerazione il rapporto delle persone con i luoghi, di partenza o di arrivo, e non con il “tempo”, con uno “spazio-tempo” che meglio può fare capire cosa comporti restare, partire, migrare. Quel che resta (Teti 2017a; 2017b; 2022) è soprattutto quello che del passato rimane, resta, sopravvive alle persone che stanno ferme o si mettono in viaggio. “Quel che resta” ha a che fare con la nostra storia, le nostre origini, la memoria, la caducità delle cose, l’inarrestabile passare del tempo e, come tale, è un’eredità, un peso, una risorsa, che debbono accogliere, espellere, eliminare, elaborare, rigenerare quelli che restano e quelli che migrano.
Di una moderna declinazione nostalgica (in cui i mutamenti determinati dagli uomini fermi sono a volte più significativi e laceranti delle trasformazioni provocate di chi parte) parla il termine solastalgia, con una crasi fra il termine inglese solace (consolazione, conforto) e nostalgia, che arriva dalla pratica clinica e psicologica, ed è stato coniato dal filosofo australiano Glenn Albrecht (2019). L’autore definisce questo stato come il dolore causato dalla continua perdita di conforto e dal senso di desolazione dovuto allo stato attuale della propria casa e del paesaggio. Il paesaggio familiare è ancora lì, davanti a noi, ma a causa dei mutamenti subiti non è più fonte di conforto e genera invece un senso di desolazione e di smarrimento. Può essere riferito a fattori sia naturali, come il cambiamento climatico o i terremoti, sia artificiali (guerre, sfruttamento del territorio).
Spaesati siamo quando viviamo nel luogo in cui abitiamo e che ci sembra di non riconoscere, perché è cambiato e non collima più con la nostra memoria. Spaesato può essere sia chi è partito sia chi è restato, e poche cose fanno più paura e tristezza d’essere spaesati nel proprio paese, erranti a casa propria. E così anche la nostalgia viene, come è accaduto in altri periodi dell’Ottocento e del Novecento, “politicizzata” e assume una valenza antagonista, rivoluzionaria, senza alcuna tentazione retrotopica.
8. La politicizzazione della restanza
Come restare è il diritto che rivendicano intere popolazioni e questo diritto, complementare a quello del migrare, si oppone all’ordine dei potenti del mondo, alle loro scelte politiche, economiche, così la restanza ha ormai una certa diffusione in ambienti culturali democratici e radicali e ha finito con l’assumere il significato di resistenza, opposizione al modello dominante, all’omologazione, alla globalizzazione.
Negli ultimi anni la restanza, così come la nostalgia di chi resta, si afferma come maggiore insistenza nella sua accezione politica, che invita a riflettere, a costruire nuova coscienza al cospetto di tutti i grandi temi che le dinamiche del tempo dell’Antropocene ci pongono di fronte. Un esempio importante è la testimonianza dello scrittore siculo-americano Michele Eggy Segretario che mette a confronto i paesaggi acustici della diaspora e le ideologie politiche che hanno contribuito a definirli. In Remaining in tune: arrivals, departures, and acoustic networks in depopulated Sicily, basa la sua ricerca sulle reti acustiche che, negli ultimi anni, sono state stabilite tra le aree spopolate del Meridione e gli Stati Uniti. In un periodo contrassegnato dalle migrazioni, la necessità, il desiderio e la volontà di generare un nuovo senso di appartenenza non sono solo fondamentali per chi parte, ma anche essenziali per coloro che scelgono di rimanere, cercando di ridefinire la loro identità e connessione alle radici scomparse. Le reti acustiche generate da questi due gruppi rappresentano un paesaggio sonoro condiviso che colma il divario tra partenza e permanenza e che, secondo Segretario, non riflette solo emozioni, ricordi e aspirazioni condivise, ma permette anche a chi è partito di mantenere legami con le proprie origini, offrendo a chi è rimasto una strategia rigenerativa per ripensare sia il luogo in cui vivono sia la loro stessa identità.
Esiste una sorta di ecomemoria, che racconta come i suoni, le voci, i rumori ambientali facciano parte del vissuto di chi resta e di chi parte. Già gli autori romantici, filosofi, poeti, pittori, musicisti avevano colto che la nostalgia non era tanto legata alla perdita del luogo di origine, ma al passare del tempo passato, che non è mai possibile riguadagnare. La musica, i suoni, il cibo, gli odori, il paesaggio hanno una funzione mnemonica che a volte porta a un nuovo appaesamento, a volte a una dispersione radicale dell’individuo.
La traduzione inglese dell’edizione canadese (Guernica) di Pietre di pane, Stones into Bread (Teti 2018b) ha contribuito alla diffusione del termine italiano restanza nei Paesi anglosassoni, nella sua accezione più politica. Nel caso di Blaenau Ffestiniog, una cittadina del Galles ubicata nella contea nordoccidentale di Gwynedd – in passato importante centro dell’estrazione dell’ardesia, interessata da varie fasi di urbanizzazione, investita poi da un inarrestabile declino economico che ne ha causato il progressivo spopolamento – alcuni studiosi del Regno Unito (Cunnington Wynn, Froud e Karel 2022) vi hanno colto uno spunto per una rivalutazione dei valori collettivi di attaccamento a un luogo, un’occasione per rovesciare il punto di vista delle generalmente fallimentari politiche di ‘sviluppo’ delle zone marginali, nonché una possibilità per assegnare invece loro un valore specifico, propositivo, di conservazione attiva dei luoghi. Da un punto di vista socioeconomico, gli autori argomentano come la restanza possa costituire una base concettuale per ripensare in modo costruttivo forme virtuose di riuso adattivo del territorio.
Una tesi discussa presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Ghent (Belgio) ha preso in considerazione similitudini e differenze di tre distinte declinazioni del concetto di restanza, intesa come risposta alternativa all’abbandono causato dalle scarse opportunità di lavoro in aree del Meridione, con una significativa economia agricola che vede un largo impiego di manodopera migrante sostanzialmente in condizioni di moderna schiavitù. I casi analizzati, secondo l’autore, sono accomunati dalla concezione di una diversa relazione con il territorio, da ripensare in senso collettivo e sostenibile, nonché dalla rivendicazione di condizioni di lavoro eque e sostenibili. I movimenti locali che si ispirano al concetto di restanza devono necessariamente affrontare la sfida della solidarietà con i lavoratori migranti, mettendo in discussione la narrazione e le politiche attuali. Michele Eggy Segretario mi scrive che nei suoi corsi sono ormai numerosi gli studenti provenienti da Cina, India e altri Paesi orientali che adottano il termine restanza anche con riferimento alla loro esperienza, al loro vissuto, al loro confuso desiderio di vivere in un nuovo luogo e di tornare nella terra di origine, con la quale non tagliano mai il legame.
È un fenomeno in crescita la nascita di gruppi, associazioni, festival, artisti, registi, musicisti, fotografi che non fanno riferimento a retoriche e slogan di un “restare” apatico e passivo, ma si richiamano a una restanza intesa come pratica per migliorare e cambiare i luoghi, affermare una tendenza a stabilire relazioni, scambi e aperture con altre esperienze e con il mondo esterno. Per quanto molti giovani e molte associazioni o gruppi, che considerano – con buone argomentazioni – la restanza (o la scelta di tornare) una sorta di spinta e di movimento fondamentali per la possibile ripresa di una nuova ‘questione meridionale’, vivano e operino ai margini, in piccoli centri, va sottolineato come questo termine stia ormai assumendo un respiro globale e riguarda tutti coloro che nei paesi, nelle città, nelle periferie del mondo sono alla ricerca attiva e dinamica di un nuovo senso dell’abitare e di proteggere i luoghi, di prendersi cura e avere riguardo del posto in cui, per nascita, per scelta, per necessità, si trovano a vivere.
Come scrive Enza Maria Macaluso, l’impatto di questa parola sul dibattito pubblico, scientifico e sociale è stato profondo. «Oggi la restanza è entrata nel lessico delle politiche territoriali, della ricerca, dei movimenti locali, delle pratiche artistiche e dei progetti di rigenerazione culturale, fino a diventare un vero e proprio simbolo narrativo di una nuova stagione di attenzione verso le aree interne».
Solo per limitarmi ad alcune esperienze siciliane, ricordo che, con esplicito riferimento a una mia affermazione («Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi»), Costanza Villari porta avanti il progetto «CU RESTA ARRINASCI» che prevede la creazione di una residenza teatrale a Cerami (in provincia di Enna), con la presenza di nomi importanti della cultura, della musica e del teatro. Il progetto di riscatto delle aree interne siciliane nasce da un’iniziativa dell’Associazione Acers e dalle idee del bravissimo artista Mario Incudine, che ha presentato, per l’occasione, un suo nuovo videoclip. Mario Incudine pensa che l’antidoto allo spopolamento siano le bellezze paesaggistiche, la cultura, l’arte, l’abbandono definitivo delle immagini del siciliano mafioso, il coinvolgimento di Enti, scuole, giovani, un concetto d’identità che fa rima con comunità. Esplicitamente politica è la posizione dell’Associazione «Nun si parti». Anna Taibi, una giovane studentessa dell’Università di Palermo, particolarmente attiva in questi movimenti, mi ha scritto qualche tempo fa:
«Per quanto riguarda “Nun si parti”, quello che posso dirti è che è un’associazione di giovani da tutta la Sicilia che si impegnano a promuovere iniziative per contrastare l’emigrazione forzata; il nome chiarisce da subito alcuni riferimenti culturali che stanno alla base dell’associazione, come presupposto e come ambizione: “Nun si parti” era infatti il nome del movimento di giovani che andavano contro la leva militare obbligatoria nel 1944, mettendo in piedi una forma di boicottaggio dal basso a una guerra calata dall’alto che nulla aveva a che vedere con le necessità dei siciliani a cui si chiedevano il sacrificio e il sangue. Abbiamo promosso diverse iniziative, ma per citarne due di diverso tipo: dal punto di vista della mobilitazione, il 4 ottobre 2024 si è svolta la prima manifestazione del XXI secolo contro l’emigrazione forzata dalla Sicilia, con un corteo di migliaia di studenti che ha invaso le vie del centro storico di Palermo; dal punto di vista della sensibilizzazione, invece, la realtà si è fatta interprete della necessità di affrontare il problema del caro voli, che ha alle spalle fondamentalmente la forte speculazione delle multinazionali sulla piaga dell’emigrazione. Se, infatti, partire dalla Sicilia possa costare qualche decina di euro, tornare ne costa sempre almeno un centinaio; a seguito di una campagna di sensibilizzazione sul tema, la presidenza della Regione Siciliana ha finalmente cominciato a prendere posizione, e da lì è iniziata la famosa diatriba con Ryanair, la compagnia di volo irlandese che ricatta la Sicilia di tagliarla fuori dal mondo se non concede privilegi fiscali all’azienda. Come si comprende, c’è uno sforzo da parte di questa realtà di inchiodare le istituzioni alle loro responsabilità nei confronti dei siciliani».
Le altre realtà in Sicilia su questo tema nascono, invece, come festival: una particolarmente attiva è «Questa è la mia terra e io la difendo», che ha inaugurato la sua attività nella provincia di Agrigento con un festival a Campobello di Licata nel 2023, e che nel corso del tempo ha costituito anche un centro studi dedicato a Giuseppe Gatì, un ragazzo campobellese che, prima di morire tragicamente, ha curato per anni un blog dove affermava il suo desiderio di fare qualcosa per contrastare l’emigrazione dei suoi coetanei dalla nostra amata terra; il festival e poi il centro studi nascono infatti in suo ricordo.
Altri due festivals che si sono svolti quest’anno hanno visto ancora una volta protagonista la Sicilia occidentale: a Piana degli Albanesi l’associazione Flet ha organizzato il FletFest, mentre a S. Stefano Quisquina il gruppo giovanile «Facciamoci sentire» ha organizzato il festival «Far finta di essere sani»: entrambe queste esperienze hanno posto l’accento sul tema dell’emigrazione forzata, sottolineando le conseguenze che il fenomeno ha sullo spopolamento delle aree interne e dei piccoli paesi in generale, con la conseguente perdita delle tradizioni popolari e della loro identità culturale.
9. Restanza/resistenza
Restanza, resistenza e opposizione al neoliberismo sono elementi che si intrecciano: è chiaro come l’emigrazione abbia a che fare con la centralizzazione e l’inurbamento, con il diktat centripeto della globalizzazione. Non “un’opposizione al progresso” è quindi quella allo spopolamento della Sicilia, ma certamente un’opposizione a un modello economico che taglia fuori tutto ciò che non sta al centro e che spinge verso il centro tutto ciò che non vuole restare fuori.
Per molti ragazzi e ragazze bisogna spingere il cuore oltre l’ostacolo e avere il coraggio, la fantasia, l’energia, come scrivono Cersosimo e Licursi, di «politicizzare la restanza», di diventare soggetti attivi soprattutto nelle aree rarefatte, spesso de-antropizzate, con una struttura demografica squilibrata verso gli anziani, «con forti deficit istituzionali e di beni pubblici locali, con carenze gravi di imprese e di lavoratori qualificati, con debolezze infrastrutturali diffuse, prodotte da anni di disinteresse nazionale o di tagli alla spesa pubblica, con potere contrattuale politico e istituzionale residuale». Così Cersosimo, De Rose, Licursi (2023) che precisano: «Politicizzare la restanza, vuol dire innanzitutto riconoscere i cittadini che hanno scelto di restare, i loro bisogni, i loro desideri, la loro voglia di continuare a vivere in luoghi appartati, diversamente appaganti, di praticare forme di vita più “naturali” e meno esposte ai rischi del nostro tempo ipertecnologico e ipernormativo» (Cersosimo, De Rose, Licursi 2023: 136). Una scelta coraggiosa e dolorosa quella di assumere una prospettiva emica, cercare di comprendere dall’interno e non come un turista di passaggio, entrare in contatto con le persone e affermare il loro diritto a restare. Questa politicizzazione della restanza (da non enfatizzare e tutta da inventare) potrebbe creare le condizioni perché i restanti si possano spostare, partire, accogliere gli altri.
Si sta affermando anche una politicizzazione dei ritorni, di chi ritorna per scelta e volontà di contrastare l’abbandono e lo sfacelo della regione. Durante il lockdown e dopo, molti giovani hanno fatto la scelta di tornare dai luoghi in cui vivevano e lavoravano nella terra di origine. In molti manifestavano e maturavano l’intenzione di non partire, di “restare” con l’ambizione di rigenerare e ripopolare luoghi quasi abbandonati o spopolati, che, però, non considerano più marginali e periferici, e dove invece scorgono risorse e potenzialità produttive, turistiche, culturali.
Così si afferma un nuovo modo di guardare dai margini e dalle periferie, un’insoddisfazione per la vita in città (spesso faticosa e insostenibile economicamente), il desiderio di ricongiungersi con i propri familiari, la voglia di mettersi in gioco e di creare nuove economie e nuove culture, di avviare iniziative agricole, artigianali, ma anche nuovi mestieri e nuove professioni, nei luoghi d’origine, dove ancora hanno una casa, dei familiari, dei terreni che vogliono mettere a coltura. Il sorgere di nuove comunità di restanti è un modo di resistere al processo di desertificazione ambientale, ma anche socio-culturale, che rischia di essere una sentenza di morte per molte aree del Meridione.
Una restanza non del singolo, ma di gruppi, che afferma e rivendica diritti: alla salute, alla scuola, alla cultura, alla viabilità, a centri sociali e culturali. Una politica della restanza, diventa un nuovo modo di guardare il Sud, di affermare, appunto, una nuova questione meridionale, di stabilire legami, convergenze, iniziative tra aree fragili e sofferenti del Sud e di un Nord lontano da tentazioni autonomiste o separatiste, tra paesi e città, campagne e aree metropolitane. Il 28 aprile 2025, ho ricevuto questa mail: «Buona sera Prof. Teti, sono Davide Filippelli, un Suo lettore e grande estimatore. Vorrei informarla che lo scorso 25 aprile, a Bocchigliero, nel cuore della Sila Greca, io ed un gruppo di amici abbiamo costruito un movimento, chiamato 1000 Papaveri Rossi, per la rinascita delle aree interne. Ho sentito il dovere di scriverle perché Lei è, idealmente, “il Padre Costituente” di questo movimento. Le sue idee sono state la nostra fonte di ispirazione. La ringrazio per l’attenzione e le porgo un cordiale saluto. Le lascio il link facebook della nostra pagina: 1000 Papaveri Rossi».
L’impostazione, il programma, la posizione è radicale, concreta:
«Il 1° maggio celebriamo il funerale di Bocchigliero: paese vittima dello spopolamento. Una comunità con meno di mille anime sull’Altopiano della Sila. L’area più colpita dalla regressione demografica in Calabria: la regione più povera d’Europa. Contestualmente, nel centro montano “ultraperiferico” verrà presentato alla comunità il movimento MILLE PAPAVERI ROSSI, per la rinascita delle aree interne. Un movimento senza appartenenze politiche, aperto a tutti, che intende realizzare una rete tra cittadini, allo scopo di promuovere nuovi modelli di sviluppo socioeconomico e per rivendicare con forza i diritti delle comunità che vivono nelle aree interne. Vogliamo far sapere a chi ci rappresenta che siamo disgustati dalla politica: perché incapace di rispondere ai bisogni delle nostre comunità; perché usa il consenso per finalità proprie; perché ci tratta come schede elettorali, da tirare fuori dal cassetto solo ed esclusivamente ad ogni tornata elettorale. Dalla piazza del popolo di Bocchigliero daremo inizio alla raccolta delle tessere elettorali e delle licenze commerciali, da recapitare poi nelle mani del Presidente della Repubblica. La raccolta verrà estesa in seguito anche nei comuni della Sila Greca e dell’area Jonica. Abbiamo una richiesta ben precisa da rivolgere alla politica: IL LAVORO. Non invochiamo elemosine o sussidi, ma investimenti pubblici che abbiano una visione strategica e lungimirante per i nostri territori. Riteniamo che in Calabria sia indispensabile avviare un piano straordinario di assunzioni nel settore forestale, per la tutela dei suoi 670.968 ettari di bosco. L’attività svolta in passato dagli operai forestali è stata essenziale per la cura e la difesa delle aree boscate. Alla fine degli anni ’70 la Calabria contava 80 mila operai forestali, oggi meno di 4 mila, con un’età media di 62 anni. La loro mancanza pesa come un macigno sulle comunità: l’abbandono ha reso il bosco fragile; il territorio si sgretola a causa del dissesto idrogeologico; mancano quei redditi capaci di tenere in vita le economie locali. La montagna è la più grande infrastruttura verde del Paese in cui è custodito un immenso patrimonio naturale, la cui salvaguardia oggi grava esclusivamente sulle comunità. I boschi possiedono quelle materie prime, non delocalizzabili, che possono assumere, oggi come in passato, un ruolo strategico per lo sviluppo del nostro Paese, ma necessitano un impegno pubblico di carattere finanziario e legislativo che non può essere rimandato. Chiediamo a gran voce che la valorizzazione delle potenzialità specifiche della montagna venga riconosciuta come una delle priorità del Paese. Un’emergenza nazionale da gestire con risorse e strumenti normativi adeguati. Da piazza del popolo a Bocchigliero vogliamo dare avvio ad una nuova stagione di battaglie civili che abbia come protagonisti i cittadini delle aree interne. Diamo inizio alla mobilitazione, per costruire un’alternativa al declino. Il nostro destino non può considerarsi già segnato».
Un progetto, una proposta, una filosofia che anticipano e contrastano le recenti posizioni
del governo. Il Psnai prevede che «un numero non trascurabile» di comunità interne con «una struttura demografica compromessa […] non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita» (Psnai, 2025: 45-6). Ma il governo e la politica, debbono risolvere i problemi o programmare: l’inevitabilità, l’irreversibilità dello spopolamento, che appaiono una sorta di nuova maledizione e creano sfiducia nei giovani che resistono e sembrano lasciare pochi margini alla speranza? Contro questa impostazione si sono levate alte le proteste e l’indignazione di intellettuali, movimenti, associazioni che hanno parlato di eutanasia dei paesi e hanno ricordato invece come le numerosissime esperienze di rigenerazione territoriale che, dalle Alpi agli Appennini, hanno visto la rinascita di paesi dati per morti e che, con fatica e fantasia, in nuove azioni politiche hanno mostrato che nessuna profezia apocalittica deve necessariamente avverarsi. Enza Maria Macaluso, nella sua ricerca nei paesi dei Monti Sicani (Macaluso 2024-2025), arriva alla conclusione che restanza «non solo decostruisce le rappresentazioni dominanti, ma apre nuove prospettive per ripensare e ridefinire questi spazi, immaginando e costruendo nuove geografie del possibile in cui le aree interne rappresentano laboratori territoriali, luoghi in cui la vita delle comunità continua a produrre forme e significati legati alla dimensione della pratica sociale». Lo stesso concetto di “aree interne”, che ha una storia recente, può essere decostruito e problematizzato con riferimento alla storia, all’antropologia, alle rappresentazioni di luoghi che, un tempo, non erano marginali e periferiche (c’è un giudizio di valore che spunta le armi a possibili cambiamenti) ma avevano una loro “centralità”, un’economia, una socialità, che oggi andrebbero riconosciute e risignificate.
Con riferimento a Riace e alla eccezionale esperienza portata avanti, tra successi, ostacoli, sconfitte, risultati positivi, Wim Wenders intervenuto al municipio di Berlino, l’11 novembre 2009, scrive: «Ho visto un paese capace di risolvere, attraverso l’accoglienza, non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema: quello di continuare a esistere, di non morire a causa dello spopolamento e dell’immigrazione. E ho voluto raccontare questa storia in un film, che ha come attori i veri protagonisti. La vera utopia non è la caduta del Muro, ma quello che è stato realizzato in Calabria. Riace in testa». Una esperienza, davvero rivoluzionaria e utopica, ostacolata e che sembrava finita, adesso continua a vivere anche come modello e proposta contro lo spopolamento. Proprio a Riace è nato un nuovo gruppo Restanza, formato da giovani rimasti, da ragazzi che vivono fuori ma ritornano, da stranieri che si sono trasferiti a Riace o che tornano spesso, che organizza un Festival, si occupa di ambiente, crisi climatica, biodiversità, dei prodotti e delle cucine tradizionali, ed ha come obiettivo quello di arrestare il declino, di fare tornare gli emigrati, di accogliere immigrati.
Martedì 5 agosto 2025, a Riace, si è tenuta una cerimonia dal profondo valore simbolico e umano: la firma del gemellaggio tra il Comune di Riace e la città di Gaza. Mimmo Lucano ha sottoscritto il gemellaggio in qualità di sindaco; per Gaza, impossibilitata a partecipare ufficialmente a causa della sua drammatica situazione umanitaria e politica, ha firmato una cittadina palestinese la cui storia incarna il dolore, la resistenza e il coraggio del popolo palestinese. In un post del sindaco si legge: «Il gemellaggio tra Riace e Gaza nasce come un legame tra comunità che condividono, seppur in forme diverse, la fatica e la bellezza di restare umani. È un grido che attraversa i confini e le macerie, un messaggio di pace che si oppone al silenzio e all’indifferenza. Con questa firma, Riace rinnova il suo impegno: essere terra di solidarietà attiva, di fraternità concreta, di speranza possibile».
Antonino Bocchinfuso, Mario Soldaini, Leonardo Tosti hanno curato un dolente, bello, necessario libro di poesie di poeti palestinesi. Il volume Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza (Fazi, 2025), con prefazione di Ilan Pappé, con interventi di Susan Abulhawa e Chris Hedges, è stato e viene presentato, con grande partecipazione di giovani e adulti, in tutta Italia ed ha contribuito enormemente a fare conoscere alle persone la drammatica vicenda di Gaza. Antonio Bocchinfuso, uno dei tre curatori, che si è impegnato in una capillare promozione-presentazione del libro, specialmente al Sud, mi ha scritto qualche giorno fa (mese di luglio):
«C’è un termine arabo, presente anche nelle nostre poesie, sumud, che noi di solito traduciamo con resistenza e resilienza, caparbietà, fermezza o perseveranza, ma nessuna di queste traduzioni ne esaurisce il significato. Indica un atteggiamento tipico del popolo palestinese, che da decenni subisce qualsiasi sopruso e inventa sempre nuove strategie per resistere, sopportare, restare radicato. Presentando il libro in Salento ed in Calabria abbiamo azzardato che una delle tante possibili ed insufficienti accezioni con cui tradurlo potrebbe proprio essere restanza. Appena ti abbiamo nominato e parlato di restanza il pubblico ha reagito con entusiasmo. Sono commosso dal fatto che anche i paesini della Calabria possano aiutarci a capire la resistenza palestinese. Un abbraccio!».
Può piacere o meno il termine restanza, che comunque va esaminato e decostruito con argomenti teorici e politici rigorosi, e non con banali contrapposizioni tra restare e partire, tra stanzialità e fuga, ma è impossibile non considerarlo nei diversi contesti locali e globali. Gli abitanti delle isole del Pacifico, gli indios dell’Amazzonia, le popolazioni dell’Ucraina, il popolo di Gaza, gli abitanti dei paesi che si spopolano, gli “ultimi” delle periferie urbane e delle banlieue non sono quelli che restano e resistono alla globalizzazione, alle invasioni, ai tentativi di espulsione e cancellazione, ai genocidi e agli etnocidi, praticati quotidianamente nel mondo?
Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
[*] La bibliografia del capitolo, pure significativa, è da considerarsi minima e non esaustiva, e inoltre non sempre vengono riportati nella bibliografia generale i riferimenti alle opere letterarie e di narrativa contenuti nel testo [i curatori]. Mi sono limitato a citare e a segnalare in Bibliografia soltanto lavori a cui ho fatto riferimento, diretto o indiretto, nel testo, ma, anche se non citati, anche per ragioni di spazio, esiste una vasta e significativa letteratura di antropologi, storici, etnografi, geografi, territorialisti, economisti sul viaggio, l’emigrazione, l’immigrazione, i paesi, la montagna, le aree interne che bisognerebbe tenere in grande conto. Non ho potuto citare nemmeno opere fotografiche, artistiche, teatrali, filmiche (documentari e lungometraggi) – anche mostre, musei, spazi espositivi – che fanno esplicito riferimento alla restanza nelle accezioni in cui è stata ripensata in queste pagini. Sono tante e tanti gli scrittori, i poeti, gli antropologi, gli artisti, i registi di cinema e di teatro, i fotografi con in quali intrattengo intensi rapporti di collaborazione e anche dialoghi intensi.
Il testo qui pubblicato riprende e sviluppa, in maniera più distesa, alcune considerazioni pubblicate in Futuri Urbani. Crisi e nuovi volti delle città (Angeli 2025) a cura di Maria Francesca d’Agostino e Francesco Raniolo, che ringrazio per la loro disponibilità.
Sento di dovere ringraziare Antonino Cusumano, direttore di “Dialoghi Mediterranei”, dove peraltro c’è grande attenzione alle tematiche di cui mi sono occupato e dove ho scritto più volte. Un affettuoso ringraziamento a Pietro Clemente che non ha mai cessato di occuparsi di antropologia dei paesi e che svolge su questa rivista (ne “Il centro in periferia”) un lavoro prezioso e necessario per chi pensa ancora che i luoghi, i paesi, le città vadano studiati, con serietà e in profondità, ma abbiano anche bisogno di cura, riguardo, vicinanza, anche immaginando scenari futuri e mettendosi in gioco con coraggiose prese di posizione e proposte concrete e politiche. La restanza se non è ricerca di senso, sentimento dell’abitare e dell’esserci, cambiamento e cura dei luoghi, viaggio, cammino, resistenza: come dice Enza Maria Macaluso restanza è una parola-seme che alimenta una costante tensione creativa e attiva, capace di trasformare le sfide locali in percorsi che guardano al futuro. La restanza (diversamente lette e praticata) è una parola che non accetta che tutto sia già accaduto, che lo spopolamento sia inevitabile, che i luoghi debbano, necessariamente, morire, ma investe sulla speranza che tutto è imprevedibile, niente è compiuto, e che il futuro è già il presente, quello che pensiamo e facciamo qui ed oggi.
Riferimenti bibliografici
Aime, M., A. Remotti Francesco, Il mondo che avrete. Virus, Antropocene, rivoluzione, Utet, Torino 2020;
Abruzzese, S., CasaperCasa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2018.
Roberto Alajmo, Il sole è come un sorriso e alla fine ti sconfigge, «la Repubblica», 2 giugno 2011.
Alajmo, R., Palermo è una cipolla, Laterza, Bari, 2012.
Battistini, F., Resilienza più resistenza Praticamente «restanza», «La lettura», inserto del «Corriere della Sera», 6 ottobre 2019: 18-19
Bindi L., Bandiere, antenne, campanili. Comunità immaginate nello specchio dei media, Roma, Meltemi 2005.
Bindi, L., Restare. Comunità locali, regimi patrimoniali e processi partecipativi, in E. Cejudo Garcia e F. Navarro Valverde (a cura di), Despoblación y transformaciones sociodemográficas de los territorios rurales. Los casos de España, Italia y Francia, «Perspectives on Rural Development », 3, 2019: 273-292.
Brenner, N., Schmid, C. 2017, Mettendo in discussione l’“epoca urbana”, in “Archivio di studi urbani e regionali, 48(120):13-48.
Calzolaio, V., Cos’è il diritto di restare e perché ne sentiamo parlare, Live, Università di Padova, 27 agosto 2023 (https://ilbolive.unipd.it/it/news/cose-diritto-restare- perchè-ne-sentiamo-parlare)
Calzolaio, V., Pievani, T., Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene cosí, Einaudi, Torino 2016.
Cersosimo, D., Donzelli, C. (a cura di), Manifesto per riabitare l’Italia, Donzelli, Roma, 2020.
Cersosimo, D., Licursi, S., a cura di, Lento pede. Vivere nell’Italia estrema, Roma, Donzelli, 2023.
Clemente, P., Paesi, paesi, paesi, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 61, maggio 2023.
Cunnington Wynn, Restanza in Blaenau: New Foundational Politics, “People and Place. Politics and Policy Foundational economy, identity, welsh language”, July 18 2022.
Cunnington Wynn L., Froud J., K. Williams K., What matters: a north Wales community in the early months of the COVID-19 lockdown, 2020
https://foundationaleconomy.com/wp-content/uploads/2020/08/cwmnibro-report-covid19-a4.pdf
Chatwin, B., Che ci faccio qui?, Adelphi, Milano 1990.
Cunnington Wynn, Julie Froud, Karel Williams, A Way Ahead? Empowering restanza in a slate valley, Foundational Economy Research Ltd, March 1 2022.
De Rita, G., Considerazioni generali sul 46° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese del Censis, 2011.
De Rossi, A. (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Donzelli, Roma 2018.
Derrida, J., Résistances de la psycanalise, Galilée, Paris 1996.
Di Pietrantonio, D., Il mio amore per i borghi e per chi ha scelto di restare, “la Repubblica”, 22 marzo 2021.
Eriksen T.H., Engaging Anthropology. The case for a public presence, London, Bloomsbury Academic 2006.
Favole A., Vie di fuga. Otto passi per uscire dalla propria cultura, UTET, Milano 2018.
Favole, A., La restanza. Presidiare i luoghi d’origine non è stanca rassegnazione, “La lettura”, inserto “Corriere della sera”, 24 apr. 2022.
Galimberti, U., L’etica del viandante, Feltrinelli, Milano 2023.
Gaudioso, D., Shrinking areas as dynamic spaces of care and resilience, «Welcoming Spaces», February 2 2021 (https://www.welcomingspaces.eu/shrinking-areas-as-dynamic-spaces- of-care-and-resilience).
Glenn, Solastalgia and the New Mourning, in Mourning Nature: Hope at the Heart of Ecological Loss & Grief, ed. By A. C. Willox, K. Landman, McGill-Queen’s University Press, Kingston 2017.
Graeber, D., Wengrow, D., L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano 2022.
Hannerz U., Diversity is Our Business, «American Anthropologist», 112(4), 2010: 539-551 (trad. it. “La diversità è il nostro mestiere”, in U. Hannerz, Il mondo dell’antropologia, capitolo III, Prefazione di G. D’Agostino, V. Matera, Bologna, il Mulino 2012.
Hofer, J., Dissertatio medica de nostalgia, oder Heimwehe (1688), in Prete A. (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina, Milano 2018: 35-50.
Jacur, Giorgio Romanin, Esplorare la restanza. Dialogo con Marco Balzano, «Il lavoro culturale», 27 settembre 2018.
La Cecla, F., Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 1988.
Latour B., La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Milano, Meltemi 2020.
Latour, B. Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, Torino, Einaudi, 2022.
Lefebvre, H., Il diritto alla città, Padova, Marsilio 1970.
Lefebvre, H., La produzione dello spazio, Milano, Moizzi 1976.
Librandi, F., Verso un’antropologia del non ancora. Lo spopolamento e la speranza, in D. Cersosimo e S. Licursi (a cura di), Lento Pede cit: 147-169.
Lombardi Satriani, L. M., Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura. Guaraldi, Firenze, 1973.
Lombardi Satriani, L. M., Un villaggio nella memoria, Gangemi, Roma, 1984.
Macaluso, E. M., Dire e/è Fare Comunità nelle Aree Interne, Verso una definizione collettiva emergente per la comunità di Prizzi (PA) nel territorio dei Monti Sicani, Programma di ricerca IDEA-AZIONE, a. a. 2024-2025.
Membretti, A, Leone, S., Lucatelli, S., Storti, D., Urso, G. (a cura di), Voglia di restare. Indagine sui giovani nell’Italia dei paesi, Donzelli, Roma 2023.
Meneghello, Luigi, Il dispatrio, Rizzoli, Milano 2000.
Piacentini, P., Passo dopo passo, Pacini editore, Ospedaletto (PI) 2023.
Picone Generoso, L’Irpinia e la sfida della restanza, «viagramsci», 7 settembre 2018 (https:// viagramsci.com/2018/09/07/riflessione-sulla-restanza).
Pizza, G., Margini dei “borghi d’Italia”. (Un antropologo dal Sudest), in Le smart cities al tempo della resilienza, a cura di G.F. Ferrari, Milano 2021: 169-88.
Portelli, S. Il diritto di restare. Espulsioni e radicamento tra Roma e Ostia, Roma, Carocci 2024.
Puricella, A., Il pane, le rose e la restanza di Castiglione, «La Repubblica.it», 15 luglio 2018.
Revelli, M., Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia, Einaudi, Torino 2016.
Rodler R. (a cura di), Comunicare la cultura umanistica, Torino, UTET 2024.
Segretario, M., Listening to the Italian diaspora. Self-cognition, soundscapes and acoustic networks, «Voci», 2022, 19: 142-60.
Setti, R. Restanza, «Italiano digitale», 2023, 24, 1:133-38 https://id.accademiadellacrusca.org/articoli/restanza/23937.
Smorto, G., A Sud del Sud. Viaggio dentro la Calabria tra diavoli e resistenti, Zolfo, Milano 2021.
Talese, Gay, Teti, Vito, Fiorino Maurizio, Partenze e restanza, «La Lettura», inserto del «Corriere della Sera», 11 settembre 2022: 14-15.
Tantillo, F., L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne, Laterza, Roma-Bari 2023.
Tarpino, A., Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi, Torino 2012.
Tarpino, A., Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi, Torino 2016.
Teti, V., Il paese e l’ombra (Periferia, Cosenza, 1989)
Teti, V., Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet, Macerata, 2011, n. ed., ivi, 2024.
Teti, V., Mia città di rovine, in Pino De Angelis, Giampiero Duronio, Mauro Mattia e Salvatore Piermarini (a cura di), L’Aquila. Magnitudo zero, Quodlibet, Macerata 2012: 14-24;
Teti, V., Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2015.
Teti, V., Il terremoto, la ricostruzione e l’anima dei luoghi, «Doppiozero.it», 6 settembre 2016.
Teti, V., Luoghi e identità la dialettica partire-restare, «Rivista di studi italiani», XXXIV, 2016, 1: 64-85.
Teti, V., Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, Donzelli, Roma 2017.
Teti, V., Stones into Bread, traduzione e cura di Francesco Loriggio e Damiano Pietropaolo Guernica, world editions, Toronto 2018.
Teti V., Riabitare i paesi. Un “manifesto” per i borghi in abbandono e in via di spopolamento, «Dialoghi Mediterranei», 35, 1° gennaio 2019 (http://www. istitutoeuroarabo.it/DM/riabitare-i-paesi-un-manifesto-peri- borghi-in-abbandono-e-in-via-di-spopolamento).
Teti, V., Ritorni al Sud al tempo del Covid, «Scienze del territorio», Living the territories at CoViD time, ed. by A. Marson, A. Tarpino, Firenze University Press, Firenze 2020: 63-71.
Teti, V., Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, Marietti 1820, Bologna 2020.
Teti, V., Cavallerizzo. San Giorgio, il drago e la talpa, «Il primo amore», Terrestri, vol. X, ottobre 2020: 183-214.
Teti, V., La restanza, Einaudi, Torino 2022.
Teti, V., Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma 2024 (I ed. 2004).
Teti, V., Il risveglio del drago. Cavallerizzo, tra abbandono e ricostruzione, Donzelli, Roma, 2024.
Teti, V., Forme e politiche del restare, Maria Francesca d’Agostino e Francesco Raniolo, (a cura di), Futuri Urbani. Crisi e nuovi volti delle città, Franco Angeli, Milano, 2025: 76-93.
Valduga, P., Ho solo una risposta. La scrittura, «Corriere della sera», 10 marzo 1991.
______________________________________________________________
Vito Teti, docente ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, dove dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, è autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si segnalano: Emigrazione, alimentazione e culture popolari; Emigrazione e religiosità popolare nei due volumi di Storia dell’emigrazione italiana (2000; 2001); Storia dell’acqua (2003); Il senso dei luoghi (2004); Storia del peperoncino. Un protagonista delle culture mediterranee (2007); La melanconia del vampiro (2007); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2011); Maledetto Sud (2013); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandono e ritorno (2017), Il vampiro e la melanconia (2018), Pathos (assieme a Salvatore Piermarini), 2019). Ha appena pubblicato Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di Coronavirus, Donzelli, 2020; Nostalgia (Marietti, 2020). Autore di documentari etnografici, mostre fotografiche, racconti, memoir, fa parte di Comitati Scientifici di riviste italiane e straniere.
______________________________________________________________










