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Famiglie straniere e tutela dei minori. Intorno al discorso sulla genitorialità

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 01:47 In Cultura,Migrazioni | No Comments

                              

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Torino (ph. Fabio Marabotto)

di Chiara Lanini                  

Affrontare il tema della genitorialità straniera nell’ambito del sistema di tutela minorile a partire dall’analisi del discorso vuol dire indagare le procedure semantiche che, istituendo un determinato ordine cognitivo, agiscono sulle relazioni sociali. Si intende qui per discorso il paradigma logico (logos) che, attraverso l’amministrazione del vero, impone una propria descrizione della realtà (Foucault, 1972). Esso esprime quindi una valenza politica, anche quando non è esplicitamente politico.

Il discorso sulla genitorialità è di particolare interesse da questo punto di vista, perché penetra la zona più intima e privata delle relazioni familiari ma anche quella pubblica, politica, istituzionale, giuridica; è patrimonio del senso, dei sentimenti e del sapere comuni ma anche dominio del linguaggio e del sapere esperto; attraversa le regioni della natura, per quello che concerne l’aspetto biologico della genitorialità, come quelle della cultura. È un discorso socialmente costruito, pubblico, fortemente mediatizzato. Un discorso, infine, che si presta ad essere analizzato attraverso la dimensione del potere, poiché di fatto il potere entra nelle questioni genitoriali e lo fa in modo evidente nel contesto della tutela minorile.

Il dispositivo di tutela dei minori, d’altra parte, è un sistema istituito intorno ad una sintassi articolata di premesse, princìpi, valori, significati che pongono le basi di un sapere e di una razionalità in riferimento ai quali la protezione viene agita. Un sistema che procede a partire dalle norme e dalla loro interpretazione, dalle sentenze, dall’articolato e vario insieme di argomentazioni che compongono il fascicolo giuridico del minore sottoposto al procedimento: i provvedimenti del Tutore Minorile ™, le relazioni dei servizi sociali, dei servizi educativi e scolastici, quelle dei periti tecnici di parte e di ufficio.

Il costrutto discorsivo della tutela è complesso come il sistema dei soggetti che lo ordiscono. Da questo punto di vista essi, oltreché attori, possono essere definiti autori, parola che rimanda al significato di autorità: è autore chi ha titolo per partecipare alla costruzione del discorso.

L’analisi critica del discorso (CDA) è un approccio interdisciplinare che vede nel linguaggio lo strumento di costruzione della realtà sociale e si occupa delle sue connessioni con il potere. Una delle possibili modalità di esercizio del potere è infatti quella di rappresentare la realtà e porre tale rappresentazione non come possibile, ma come vera.

h-3000-foucault_michel_larcheologie-du-savoir_1969_edition-originale_autographe_tirage-de-tete_2_60516Barthes (1981: 6-7) afferma che «l’oggetto in cui da che mondo e mondo si inscrive il potere è il linguaggio, ovvero, per essere più precisi, la sua espressione più obbligata, la lingua». Michael Foucault è uno dei primi indagatori della CDA. «Nella prospettiva post-struttualista, e di Foucault in particolare, il discorso viene concepito come una “costruzione della realtà”. Ne L’Archeologia del Sapere, nel 1969, Foucault presenta la sua interpretazione del linguaggio. […] Adottando una prospettiva rovesciata rispetto alla metodologia tradizionale di analisi, che ritiene che il linguaggio prenda forma a partire dagli oggetti ai quali si riferisce, Foucault ritiene che sia il linguaggio stesso a definire i propri oggetti, a renderli argomento della conoscenza» (Antelmi, 2009: 9-10). Secondo Anolli: «Le pratiche discorsive implicano una tendenza all’ordine poiché ogni categorizzazione si traduce in una prescrizione. Se si fa un’affermazione su un certo stato di cose, essa deve essere in quel modo e non in un altro. La regolarità delle cose, una volta enunciata, attribuisce alla parvenza di razionalità il valore di comando» (Anolli, 2006: 196).

La domanda che Foucault (1978:8) si pone è: «in che modo nelle società occidentali moderne la produzione di discorsi cui si è attribuito un valore di verità è legata ai vari meccanismi e istituzioni di potere?». Emerge una visione del potere inteso come forma capillare che pervade ogni tipo di interazione sociale. Una delle procedure fondamentali grazie alle quali l’ordine del discorso agisce è l’opposizione tra vero e falso, la volontà di verità, definita da Foucault «un prodigioso macchinario destinato ad escludere» (ivi:18).

Si pone quindi la necessità di un’analisi critica volta a identificare e decostruire i meccanismi e i timori (logofobia) che sottendono tali forme di controllo, mettendone in luce il gioco e gli effetti. Per farlo è necessario «rimettere in questione la nostra volontà di verità» e liberare la circolazione del discorso, sulla base del principio che si definisce rovesciamento (ivi: 40).

Un altro contributo importante viene da Teun Adrianus van Dijk, che ha inteso la CDA come un particolare indirizzo per analizzare, comprendere ed affrontare i problemi sociali. Il suo approccio è di tipo prettamente socio-cognitivo.  «In particolare lo studioso olandese si propone di focalizzare il ruolo del discorso nella produzione e riproduzione dell’abuso del potere e delle varie forme di diseguaglianza sociale. Per Van Dijk esiste un intreccio profondo fra struttura del discorso e struttura della società: da un lato, le pratiche discorsive riflettono l’assetto sociale ma, dall’altro, contribuiscono in modo costitutivo a generare e a modificare l’assetto sociale stesso. […] Per comprendere l’importanza dell’analisi critica del discorso occorre tenere presente il triangolo discorso-conoscenza-società. Ogni discorso presenta un’interfaccia socio-cognitiva, poiché manifesta un certo modo di rappresentarsi gli eventi» (Anolli, 2006: 196). 

712ynjlofdlVan Dijk identifica tre diverse dimensioni della conoscenza: personale, di gruppo, culturale. Il repertorio culturale, proprio perché segno di appartenenza e distinzione di un gruppo, agisce come substrato implicito del discorso e viene dato per scontato. Agisce poi un sistema di credenze e di opinioni che diventano princìpi di base per rappresentare e spiegare gli eventi e i fenomeni e, di conseguenza, orientare e organizzare gli atteggiamenti e i comportamenti sociali (ivi: 197). Si tratta di una forma di controllo sociale di tipo cognitivo, esercitato da un gruppo o da un’organizzazione sulle azioni e sulle menti di un altro gruppo.

Esiste un rapporto fra le pratiche linguistiche, in particolare di categorizzazione, e le pratiche di esclusione, che produce una distribuzione non equa, tra i diversi gruppi sociali, della possibilità di dare senso alle cose. Van Dijk ritiene che un’analisi critica di tali proprietà, quindi dei sistemi di significazione, possa orientare una ricerca sugli aspetti politici, socio-culturali ed economici della dominazione. L’accesso al discorso, quindi, è uno fra i beni la cui fruizione è distribuita in modo diseguale (Caldas-Coulthard, 1996: 85). L’autore indica la necessità per la CDA di porre particolare attenzione alle macrostrutture semantiche (Van Dijk T., Kintsch W., 1983), che forniscono il significato d’insieme del discorso e rimandano a modelli mentali sottesi. Ciò che diviene importante è, allora, più il riferimento ai modelli mentali dei parlanti che non alle cose dette di per sé. L’indagine critica, quindi, non si limita al piano semantico e manifesto del testo ma comprende, anzi privilegia, i contenuti impliciti. Le forme di controllo non riguardano solo il discorso pubblico o quello mediatico ma tutti i discorsi, anche quelli del quotidiano, familiari o professionali, dove si può osservare uno sbilanciamento di potere a svantaggio di una parte che risulta più passiva nella comunicazione.

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Casale Monferrato (ph. Fabio Marabotto)

In ultimo Norman Fairclough, uno dei fondatori della CDA applicata alla socio-linguistica, le cui teorie sono state influenzate da Mikhail Bakhtin e M.A.K Halliday nel campo della linguistica e da autori come Antonio Gramsci, Louis Althusser, Michel Foucault nel campo sociologico, anche questo autore pone il discorso come nodo centrale rispetto al potere, inteso, riprendendo Gramsci, come qualcosa che agisce per via coercitiva ma anche attraverso il consenso circa un certo modo di rappresentare la vita sociale e i suoi oggetti. «L’ordine del discorso costituisce il versante linguistico dell’ordine sociale» (Anolli, 2006: 198.). Secondo Fairclough, dunque, i testi e i discorsi sono socialmente costitutivi: «Language use is always simultaneously constitutive of: social identities, social relations and systems of knowledge and beliefs» (Faircluogh, 1995a: 134)

Alla luce della cornice analitica delineata risulta interessante indagare la rappresentazione del genitore straniero che emerge nel contesto della tutela minorile poiché è questo il caso, poco trattato perlomeno in Italia, in cui una categoria minoritaria viene parlata, interpretata, analizzata e di conseguenza orientata nei comportamenti, più o meno coercitivamente, attraverso un sistema di significati i cui meccanismi di verità sono eteronormati, ovvero amministrati da un gruppo culturale altro, egemone. La domanda è: attraverso quale lente, ovvero quale repertorio culturale e quali schemi di significato questi genitori sono guardati, osservati, categorizzati e valutati? Chi definisce le caratteristiche e i parametri che costruiscono il modello di adeguatezza genitoriale (che la legge non può declinare nel dettaglio, vista la complessità dell’oggetto), delineandone i tratti e i comportamenti?

Tali domande sono ancor più interessanti alla luce della posizione che la dimensione culturale occupa nella pratica genitoriale, dispositivo primario di trasmissione di norme, comportamenti e valori del gruppo di appartenenza, ovvero di socializzazione primaria. Queste sono alcune delle domande alle quali ho provato a dare risposta attraverso una serie di interviste ad operatori sociali impiegati nei servizi di tutela, realizzate nel corso del mio dottorato di ricerca, non ancora concluso.

Partiamo dalla rappresentazione che della famiglia straniera viene data, per cogliere il riferimento implicito in base al quale l’oggetto del discorso viene osservato. Dalle parole degli intervistati emerge l’immagine di una famiglia disgregata, perlopiù monogenitoriale (detenzione, migrazione, assenza totale di uno dei due genitori, spesso il padre). Anche quando sono presenti entrambi i genitori non sono di reciproco sostegno ma, anzi, in conflitto. La rete familiare è scarsa o poco supportiva. La crisi generale che colpisce la famiglia contemporanea pare amplificata.

Le condizioni economiche non sono buone né stabili. Il fattore povertà risulta meno incidente rispetto al passato, tuttavia pare che una posizione materiale accettabile corrisponda a situazioni di lavoro tali da non lasciare né tempo né energie per occuparsi dei figli. Affaticamento e frustrazione depauperano la capacità di fare fronte all’educazione, ai compiti scolastici, alla necessità di imporre dei limiti, con conseguenze rilevanti anche sul piano dell’abbandono scolastico.

mini_magick20180815-12947-1392iadLa descrizione dei genitori di origine straniera, quindi, mette prima di tutto in luce aspetti e criticità che con la genitorialità hanno a che fare come termini, strutturali, di contesto. Le competenze rilevate come particolarmente deficitarie sono relative alla capacità di pensiero e organizzazione in una prospettiva familiare. Si descrive come carente la facoltà a fare fronte alla complessità dei compiti genitoriali che dovrebbero dare risposta ai bisogni dei figli: scolastici, economici, affettivi, educativi. Manca una competenza di pianificazione che tenga conto delle esigenze proprie dell’età, della necessaria asimmetria, delle routine, ritmi, orari, regole adeguati alle fasi di crescita. Emerge una rappresentazione che mette in connessione le difficili condizioni di vita e la capacità personale di mediarle nell’ottica della funzione parentale, prefigurando un rapporto tra compiti attesi e strumenti disponibili del tutto deficitario. Di fatto quello che viene rappresentato è un genitore non abbastanza competente, che non ce la fa.

Tali carenze vengono attribuite ad incapacità ma anche, in diversi casi, ad una disposizione caratteriale, che declina sul piano morale. Il modello da cui si guarda è quello di un genitore disposto a tutto, a togliersi il pane dai denti, pur di realizzare il bene dei figli, un modello ideale, tratto dalla teoria popolare (Bruner, 1992) e dal senso comune. Si dubita quindi dell’autenticità dell’interesse del genitore nei confronti del figlio, interesse identificato d’altra parte come condizione minima per la collaborazione, intesa come buona disposizione verso l’autorità giudiziaria, gli educatori, i servizi, i progetti attivati. Il termine collaborativo è spessissimo utilizzato dagli operatori sociali, mediato dal linguaggio medico (compliance).

Emergono poi alcune caratteristiche che vengono esplicitamente correlate alla cultura di origine. Si ipotizza, ad esempio che “l’abbandono dei figli” sia un comportamento fisiologico, in particolare nella cultura sudamericana. Il lavoro (femminile) offrirebbe un perfetto alibi alle mamme ‘abbandoniche’. Tale affermazione lascia intendere che le motivazioni di tale risoluzione non siano legate ad una reale necessità quanto a un’abitudine culturale, che evidentemente determina un vantaggio, celato dietro il dovere di provvedere ai bisogni economici della famiglia o forse solo ai propri:

 «Nei sud americani c’è la cultura dell’abbandono dei figli. Il distacco è vissuto male ma è fisiologico alla cultura. Questo è vissuto male dal figlio ma bene dagli adulti che hanno un alibi sociale che non aiuta, quello del lavoro. La domanda dei figli è sempre perchè non sei qui con me? Le ecuadoriane risponderebbero perché devo lavorare» (int. a M. – educatrice di comunità).
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Milano (ph. Fabio Marabotto)

In riferimento alla dimensione dell’attaccamento viene chiamata in causa la contrapposizione fra natura, universale, e cultura, particolare. «Le domande dei figli sono universali – dice la stessa educatrice – ma le risposte sono diverse. Anche la risposta di una mamma dovrebbe essere universale». Si evidenzia qui il meccanismo discorsivo già visto poco sopra: si introduce una rappresentazione potentemente idealizzata, si potrebbe dire mitizzata, della figura materna, in quanto, poiché universale, fuori dalla storia. Anche in questo caso tale modello trova riscontro nella teoria popolare e nel senso comune.

Un’altra strategia retorica utilizzata per fissare il ruolo materno in una prospettiva universale è quella di assumerlo nella categoria dell’istinto naturale, animale, rispetto al quale la cultura promuove un’azione di soffocamento: «Non so se ci sia un substrato culturale che soffoca l’aspetto istintivo materno, quasi animalesco» (int. a L. – educatrice di comunità).

Il modello familiare naturale che emerge nella rappresentazione delle famiglie di cultura sudamericana è la famiglia allargata, distante da quello che si presenta nel contesto attuale: nucleare, spesso mono-genitoriale, che vede perlopiù la madre come genitore unico. È interessante correlare questa rappresentazione all’idea precedentemente espressa dell’abbandono dei figli come tratto altrettanto cultural-tipico. Probabilmente l’attitudine all’abbandono di cui si parlava può essere riferita ad un modello di genitorialità diffusa nel sistema parentale, presente soprattutto laddove il processo migratorio abbia coinvolto prevalentemente la parte femminile, come nel caso della rotta dal centro-sud America a Genova dagli anni 2000 in poi (Lagomarsino, 2006).

Per quello che riguarda il contesto di area arabo-musulmana, viene rappresentata invece un’organizzazione gerarchizzata delle relazioni familiari e dei ruoli di genere, attribuita a fattori di ordine religioso. Tale organizzazione, ideologicamente determinata, è descritta come estremamente rigida, non curante degli aspetti e dei legami affettivi. In questo caso i genitori vengono presentati come più affezionati ai propri valori religiosi che ai figli, specie se femmine. Come abbiamo osservato, seppur in riferimento ad altre variabili, si descrivono genitori che antepongono altri beni, altri bisogni e altri interessi a quelli dei figli e del legame genitoriale.

 «Le famiglie musulmane fanno finta che siano morte, cancellate dalla loro anagrafe. Le ripudiano perché hanno difficoltà ad immaginarsele in una cultura differente, anche se loro non fanno una scelta religiosa, vogliono solo fare parte di questi gruppi di adolescenti che vanno in discoteca, con i pantaloni corti, al mare in due pezzi, è un discorso più di identità che di religione. Il ruolo della donna, un passo indietro» (int. a G. -coordinatrice di comunità).

Anche per ciò che riguarda i modelli pedagogici l’attenzione degli intervistati è concentrata sulla valutazione del reale interesse del genitore nei confronti del figlio e delle sue attività, ad esempio quella scolastica. I genitori sono descritti come portatori di scarso coinvolgimento ma di alte pretese. Non pare presente un pensiero relativo al fatto che l’abitudine alla partecipazione dei genitori alla vita scolastica dei figli sia, anche in Italia, un fenomeno relativamente recente che ha, peraltro, assunto negli ultimi tempi forme e modalità di espressione ritenute non sempre utili e funzionali. Anche in questo caso il riferimento implicito è quello al genitore attento, abbastanza onnipresente, iper-competente e supportivo, dedicato in via prioritaria agli interessi dei figli, molto vicino a quella parentalità intensiva che caratterizza la cultura genitoriale occidentale di classe e cultura media, tanto praticata quanto discussa (Lee, Bristow, Faircloth, Macvarish, 2014).

 «I nostri figli sono viziati ma il genitore italiano si interessa, va a parlare con gli insegnanti. I ragazzi stranieri sono meno viziati ma anche meno seguiti, i genitori non si interessano all’andamento scolastico. I figli devono andare a scuola ma senza che i genitori se ne interessino» (int. a S. – educatrice domiciliare).

Il ricco materiale raccolto porta a dedurre che il modello implicito di genitore sufficientemente buono (Winnicot, 1990), emergente nel discorso prodotto dagli operatori della tutela intervistati, sia quello di un genitore innanzitutto competente. Una competenza che si esprime sul piano organizzativo, necessaria a gestire l’altissima complessità che l’amministrazione dei vari livelli della vita familiare comporta, che deve necessariamente essere inversamente proporzionale alle risorse umane, economiche, di tempo e di rete scarsissime e di una struttura familiare sempre meno stabile.

51vjycssyxl-_ac_ul600_sr378600_L’attaccamento, non del tutto sovrapponibile al legame affettivo (sul quale, invece, non emergono particolari dubbi nelle interviste), viene inteso come dimostrazione di interesse, impegno, responsabilità e capacità di anteporre gli interessi dei figli ai propri, interessi nei quali paiono rientrare anche gli impegni lavorativi, in riferimento soprattutto alle madri. In sostanza sembra essere associabile alla dimensione del sacrificio.

I princìpi pedagogici devono essere orientati al riconoscimento e al sostegno delle libere aspirazioni e dei desideri dei figli, anche se divergenti rispetto ai valori e alle condotte prescritte dalla cultura o dalla religione di appartenenza. Le modalità educative non devono essere impostate in senso correzionale, ma supportare l’impegno formativo, come strumento di mobilità sociale, e riconoscere al tempo dell’infanzia e dell’adolescenza uno statuto protetto rispetto, ad esempio, alle necessità di tipo produttivo.

In ultimo è molto interessante l’emergere di un’idea di tutela più orientata alla promozione che alla protezione. Si noti a tal proposito che nessuno degli intervistati ha fatto riferimento a condotte genitoriali gravemente pregiudizievoli, ma per lo più a criticità di ordine educativo o relazionale. Vero è anche che la mia ricerca ha deliberatamente escluso i casi di tutela ove siano presenti procedimenti o condanne penali a carico dei genitori nei confronti dei figli.

«Tutela è crescita e felicità…Possibilità di diventare ciò che si vuole. Spesso questa possibilità è preclusa. Vuol dire avere le stesse possibilità che hanno gli altri. Lo studio è l’unica possibilità di riscatto che hanno. Certo, anche tutela dai rischi, ma il rischio maggiore è quello di avere una storia già scritta. Sottrarli ad un destino già segnato, quello della loro famiglia. La tutela guarda più al futuro che al passato» (int. a N. – educatrice di comunità).

Questa parte descrive in modo molto chiaro l’educazione per come dovrebbe essere, il modello pedagogico ideale: uno degli intervistati sottolinea che l’idea di educazione evocata e praticata nei servizi non rappresenta la normalità ma ciò che sarebbe giusto lo fosse. Tale definizione descrive perfettamente la centralità assoluta del minore in quanto soggetto e non oggetto di diritto, promosso nelle proprie aspirazioni, nella capacità di pensiero, nella scelta e nella costruzione, autonoma ma supportata, di un progetto di vita in sintonia con i propri desideri, i propri talenti, nel rispetto dei propri legami, storia, identità e radici. Valori altissimi, che richiamano e ricordano la Convenzione di New York. Questa parte, del resto, è molto coerente con i contenuti della L. 149/2001, nella parte che descrive i compiti genitoriali e le finalità ultime verso le quali ci si aspetta siano orientati.

C’è da chiedersi, però, a quali condizioni tutto questo sia davvero possibile e per chi. C’è il rischio che una tale rappresentazione del ruolo educativo e genitoriale, nobilissima aspirazione sul piano culturale nonché giuridico, ma d’altra parte espressione di un paradigma culturale e valoriale culturalmente e socialmente determinato, se diventa metro di valutazione, possa scavare un solco sempre più profondo fra chi gode di condizioni di vita e di capitali (Bourdieu, 2015) che permettono di mettere tali aspirazioni al centro del proprio progetto familiare e gli altri.

Si profila infatti l’idea del riscatto rispetto ad una storia già scritta, ad un destino segnato, quello dei propri genitori, il copione scritto nelle pagine del proprio passato. La tutela guarda al futuro. In questo senso l’idea della socializzazione primaria vacilla.

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Chiara Lanini, pedagogista, operatrice sociale, dottoranda di ricerca in Scienze Sociali presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, curriculum Migrazioni e Processi Interculturali. Nel 2016 ha conseguito il Master universitario (Milano-Bicocca) di ambito disciplinare pedagogico e filosofico sulle “Culture simboliche per le professioni dell’arte dell’educazione e della cura”. Dal 1995 ad oggi lavora in ambito educativo, è attualmente cultrice della materia presso la cattedra di Sociologia della Famiglia e di Sociologia dell’educazione.

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