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Esegesi biblica e potere politico. L’eredità di Mosè

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2019 @ 01:42 In Letture,Religioni | No Comments

copertinadi Roberto Cascio

La riflessione intorno al rapporto tra religione, violenza e politica ha conosciuto negli ultimi anni una notevole intensificazione, tanto da far uscire il dibattito fuori dalle stanze del mondo accademico e giungere così ad un pubblico ben più ampio, coinvolto (e sconvolto) suo malgrado dall’acuirsi del radicalismo e fondamentalismo religioso. Approfondendo il tema, emerge come gran parte delle religioni (con particolare riferimento a quelle abramitiche) cerchino di sviluppare il paradigma del politico e dell’autorità, in maniera ben più decisa di quanto forse il mondo accademico sia disposto ad ammettere. È in effetti non difficile da mostrare come, sotto la pur nobile motivazione dell’apertura verso il pluralismo religioso, troppo spesso si tenti, quasi maldestramente, di “tacciare” o di relegare in secondo piano il lato politico presente nelle religioni.

Una conseguenza di questo tipo di approccio è che le ricerche di studiosi e cultori della tematica religiosa appaiono quasi vincolate al dover dimostrare il valore positivo, tollerante e pluralista delle religioni quando in realtà non mancano di certo elementi in contrasto con la cosiddetta “modernità”. La paura di uscire fuori da uno schema interpretativo di riferimento ritenuto accettabile porta quindi in alcuni casi a una ricerca già indirizzata, attenta a non finire nel campo minato dell’interpretazione dei testi sacri. Il prezzo da pagare è però decisamente alto: una lettura parziale (quando non faziosa) dei testi che impedisce un vero dialogo con il testo. Dialogo che invece cerca con caparbietà e attenzione alle fonti lo studioso Micah Goodman, autore di L’ultimo discorso di Mosè, recentemente tradotto in italiano per la casa editrice Giuntina.

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Philippe de Champaigne, Mosè riceve le Tavole, 1645

Quale approccio al testo sacro?

Sarà bene in limine tracciare il profilo che identifica il lettore fondamentalista, anarchico e perplesso che Goodman descrive nella seconda parte del suo libro. Questi tre tipi di lettore sono così suddivisi dal ricercatore americano:

a) il lettore fondamentalista; colui che sottomette i suoi valori a quelli del testo sacro, evitando così qualsiasi contraddizione: «La sua coscienza e la sua volontà sono irrilevanti. La volontà di Dio, riflessa nel testo, ha un valore assoluto». È semplice qui collegarsi al tipo di lettura e interpretazione dei testi che compiono coloro che lottano e invocano una religione radicale: la lettura fondamentalista si riduce infatti molto spesso in una lettura letterale, che ritiene superfluo lo sforzo di interpretazione;

 b) il lettore anarchico; colui che imprime al testo uno sforzo interpretativo al fine di renderlo accettabile ai suoi valori e alla sua sensibilità. Così come il fondamentalista, anche l’anarchico ha come scopo ultimo quello di mostrare che non vi è conflitto di valori tra il testo e la propria morale; ma se l’armonia nella lettura fondamentale avviene per una sottomissione volontaria della propria coscienza, nella lettura anarchica questa è ottenuta, ma al caro prezzo di forzare il testo e piegarlo alle proprie esigenze: «Il lettore anarchico (…) cerca di mostrare che l’abisso esiste ma solo in apparenza. Il testo contiene valori sublimi che sono, casualmente, identici ai suoi». Anarchia che è riscontrabile molto probabilmente anche tra coloro che, come detto precedentemente, in nome di un fine lodevole e giusto (esaltare la tolleranza e il pluralismo religioso), spesso danno al testo un’interpretazione dettata più dall’esigenza di confermare la propria tesi, piuttosto che dall’oggettivo studio delle pagine;

c) il lettore perplesso, nelle parole di Goodman, è invece «quello che non si estrania dal testo, ma che rifiuta di transigere sui suoi valori morali per accordarsi al testo. (…) Questa persona è in grado di sopportare il paradosso talora sconcertante, tra coscienza e fede». Questo tipo di lettore, a costo di scontrarsi con paradossi che possono anche minare la propria fede, riesce tuttavia ad andare a fondo nella lettura, non cercando una facile quanto fittizia armonia tra la propria coscienza e i valori del testo sacro. Allo stesso modo del lettore, lo studioso dovrà affrontare il testo con la consapevolezza di poter incontrare incongruenze con le proprie convinzioni morali. Da buon lettore perplesso, Goodman darà ampio risalto alle sue riflessioni sul Deuteronomio, non tralasciando di sottolineare quando i valori etici proposti dal testo sacro sembrano irricevibili alla nostra morale comune.

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N. Poussin, Mosè, la raccolta della manna, 1649

Ciò che Mosè ha detto. Le due rivoluzioni del profeta

Partendo da ciò che Mosè ha effettivamente pronunciato al suo popolo nel Deuteronomio, Goodman rivela la componente politica rivoluzionaria presente nelle parole del patriarca ebraico: «Il discorso di Mosè presentava due idee nuove e fondamentali: la prima, costituita dalla de-enfatizzazione del Tempio, e la seconda è il limite posto al potere della monarchia». Il Deuteronomio (letteralmente “seconda legge”) si presenta in effetti come il discorso di commiato di Mosè al suo popolo: è un discorso rivoluzionario in quanto, pur non tradendo la legge precedente, ne accentua o ne omette dei caratteri nell’ottica di preparare il popolo ad un futuro senza la sua guida, senza la necessità di un leader religioso che imponga il suo volere e con un’etica finalmente matura e capace di resistere tra le avversità che incontrerà nella sua storia:

«Mosè ripete, in modo selettivo, quelle parti della Torà che è necessario che il popolo osservi allo scopo di rimanere nella terra. Il Deuteronomio indica quali leggi sono fondamentali per la fase successiva della sua storia, e quali non lo sono. In quanto tale, l’ultimo libro della Torà è il primo commento su di essa, scritto dall’uomo che per primo l’aveva ricevuta».

La prima rivoluzione, di carattere religioso, emerge difatti proprio dalle omissioni compiute da Mosè: il profeta, in effetti, lungo tutto il Deuteronomio, dedica poche parole al Tabernacolo e ai rituali religiosi che precedentemente erano invece stati oggetto di profonde analisi e precisazioni. Da queste considerazioni, Goodman muove per affermare che Mosè abbia voluto ridurre l’importanza del rito in favore dell’etica, sia omettendo molte delle pratiche rituali [1], sia relegando nel Tabernacolo ogni tipo di pratica religiosa. Il profeta insiste infatti nell’idea che Dio deve essere adorato nel Tabernacolo, anche se non è nel Tabernacolo, che diviene quindi l’unico luogo religioso consentito, azione che permette di scindere lo spazio pubblico da quello religioso: è uno sforzo rivoluzionario la cui forza è possibile comprendere anche ai nostri giorni. Riassumendo con le stesse parole di Goodman:

«Mosè stabilisce due cambiamenti importanti. Il primo è la proibizione del culto rituale all’esterno del tempio. Il secondo è l’ammissione che Dio non è presente nel Tempio. Il primo esalta il Tempio concedendogli il monopolio sul rituale. Il secondo limita il ruolo del Tempio allontanando Dio da esso e attribuendo minore importanza al rito che in esso si svolge».

La rivoluzione religiosa potrà quindi dirsi compiuta quando il popolo, consapevole della superiorità dell’etica sul rituale, assegnerà allo studio della Torà la modalità peculiare attraverso cui lo stesso popolo ebraico potrà mantenersi saldo e fedele alla Scrittura, nel corso della sua storia. La seconda rivoluzione promossa da Mosè è invece di stampo strettamente politico, dacché riguarda essenzialmente la riduzione del potere monarchico e i limiti che questa deve avere nei confronti del popolo. Anche in questo caso sono le omissioni che lasciano emergere l’idea del patriarca ebraico:

«Nella Torà al popolo non viene comandato di obbedire al re. Non viene detto loro che obbedire al re è un modo di obbedire a Dio. Al contrario, ai re della Bibbia, come ai loro sudditi, viene ordinato di sottomettersi alla Torà (…). La politica del Deuteronomio è senza precedenti».

Leggendo direttamente dal Deuteronomio, è evidente come il tentativo di Mosè sia proprio quello di porre un freno alle aspirazioni monarchiche e allo strapotere che avrebbe potuto esercitare: «Metterai sopra di te un re che il Signore tuo Dio sceglierà. Da in mezzo ai tuoi fratelli porrai il re che regnerà su di te, non potrai porre sopra di te un uomo straniero che non è tuo fratello». Il re non è quindi un’entità semidivina o una persona che possa vantare un legame privilegiato con la divinità. Non si può comprendere la portata rivoluzionaria di questi versetti se non allargando il nostro orizzonte al contesto in cui si trovò il popolo ebraico del tempo: nel Vicino Oriente, le popolazioni più forti e potenti avevano al proprio vertice un re avvolto dalla leggenda e di natura praticamente divina (si pensi ad esempio ai faraoni dell’Antico Egitto).

Il re è un fratello tra gli altri, vive insieme al suo popolo e da questo ne trae l’autorità per imporsi come monarca. Mosè insiste poi nella sua riflessione ponendo tre limiti che possono essere facilmente rintracciati nel Deuteronomio:

«Ma egli [= il monarca] non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi un gran numero di cavalli (1) perché il Signore vi disse: ‘Non tornerete mai più per quella via!’ Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il cuore non si smarrisca (2); neppure abbia grande quantità di argento e d’oro (3)» (Dt, 17: 16-17).

Goodman, con un attento lavoro di esegesi del testo, analizza questi tre avvertimenti divini che possono essere schematizzati nella seguenti maniera: limitato numero di cavalli (1) –> limite al potere militare (per cavalli vanno intesi i carri di guerra); limitato numero di mogli (2) –> limite al potere diplomatico (molte mogli permettono di stringere diverse alleanze con altre nazioni); limitato numero di argento e oro (3) –> limite alla ricchezza (per non esaurire le risorse della nazione).

L’idea rivoluzionaria di una monarchia limitata è «il grande contributo del Deuteronomio al discorso politico e alla cultura occidentale». Il re, oltre ad essere eletto tra i suoi “fratelli”, deve seguire gli avvertimenti della Torà per poter restare a capo del suo popolo; è la Torà la vera protagonista del Deuteronomio: su di essa il popolo dovrà convergere nei suoi momenti più difficili per la sua stessa sopravvivenza.

Definite le due rivoluzioni, rimane tuttavia uno spazio di riflessione riguardo la fonte da cui queste provengono; un’idea ben più grande e imponente è in effetti alla base delle rivoluzioni politiche e religiose: l’idea dell’unicità di Dio.

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Mosè di Michelangerlo, 1513

Un nuovo concetto di Dio: unicità e monoteismo

Entrambe le rivoluzioni prima definite acquistano il loro senso completo quando se ne comprende la base ideologica da cui queste discendono: il monoteismo e unicità di Dio. Anche in questo caso, la portata rivoluzionaria del concetto di unicità è comprensibile considerando il contesto di profondo paganesimo che caratterizzava il Vicino Oriente. Da un punto di vista teologico e filosofico, il monoteismo si oppone drasticamente al paganesimo, ovvero ad una religione che non riesce a scindere Dio dalla natura: «Se, nel mondo pagano, gli dèi erano considerati dai loro fedeli come parte dell’ordine naturale, il monoteismo postula l’esistenza di un Dio al di sopra e oltre la natura». Separare Dio dalla natura [2] significa quindi negare il paganesimo e il concetto di religione a questo correlato.

La religione pagana, difatti, implica un Dio da evocare, quasi da risvegliare nella sua potenza, attraverso rituali e pratiche religiose da seguire pedissequamente. È una religione legata alla magia, che permetterebbe all’uomo di ottenere da Dio favori e fortune grazie al mero rituale. È in antitesi a questo paganesimo il monoteismo, anche per il rifiuto di un concetto di religione come insieme di rituali: Dio è unico e l’uomo non può esercitare nessun tipo di autorità su di Lui. Il rituale è inutile se non è seguito da una vera devozione spirituale, obiettivo ultimo della rivoluzione religiosa di Mosè.

Continuando a seguire il ragionamento proposto da Goodman s’impone inoltre un altro importante tema che vale la pena approfondire: il rapporto tra autorità e idolatria. Dalle precedenti riflessioni è difatti emerso come l’uomo non possa avanzare alcuna autorità nei confronti di Dio: questo si traduce, dal punto di vista della riflessione politica, in una radicale limitazione del potere dei re verso i loro popoli. Il monarca deve sottomettersi alla Torà e, di conseguenza, riconoscersi come uomo debole e limitato; tale sottomissione volontaria è l’unica possibilità per sfuggire al grave peccato della superbia, che conduce direttamente all’idolatria. Riassumendo brevemente queste riflessioni,

«L’amore di Dio non può essere espresso soltanto con lo studio della parola di Dio. Viene anche espresso attraverso un’azione di autodisciplina, ovvero evitare di venerare altri dei. Rifiutando l’idolatria, l’uomo accetta la sua mancanza di controllo sulla realtà, nonché le sue debolezze e i suoi limiti (…). Mosè descrive una religione che non è magica, e una politica che non è dispotica. La religione di Mosè non dà ai suoi seguaci una sensazione di controllo, e la sua politica non comporta la sottomissione, e, in quanto tali, sono entrambe rivoluzionarie»
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Shalom Hartman Institute

Ciò che il popolo ha udito: Giobbe, Salomone e il sionismo moderno

La condotta etica, e non il rituale, è dunque la corretta maniera di intendere e vivere la religione. Mosè insiste nel Deuteronomio sull’importanza della Torà e del ricordare le prove più difficili che il popolo ebraico ha dovuto affrontare prima di poter entrare nella terra promessa. Il rispetto verso lo straniero, il rifiuto di ogni idolatria, il riconoscersi completamente dipendenti da Dio costituiscono i pilastri etici con cui pensar di poter costruire una società differente, avulsa da ogni tipo di abuso e pronta ad accogliere le sfide che il futuro le riserba.

Tuttavia, le speranze di Mosè conosceranno alterne sorti lungo la storia ebraica. Come detto in precedenza, il dialogo presuppone una controparte disposta ad ascoltare; il discorso di Mosè, nel suo essere rivoluzionario, ha quindi conosciuto vicende alterne che vedono in Giosuè e Salomone due figure estremamente rappresentative.

Se Giosuè rappresenta l’ideale continuazione di Mosè dacché ne accetta indicazioni e limitazioni, la vicenda storica di Salomone rappresenta invece, agli occhi di Goodman, un vero e proprio “enigma”. Durante il regno di Salomone, il popolo ebraico raggiunge la sua apoteosi grazie soprattutto alla saggezza del suo governante. L’apoteosi coincide però con il punto iniziale della rovinosa caduta che investirà l’ultimo periodo della monarchia di Salomone: «Il re Salomone amò molte donne straniere (…) Salomone fece ciò che è male agli occhi del Signore e non si dedicò interamente al Signore come aveva fatto suo padre David». Gli avvertimenti di Mosè furono quindi calpestati dalla monarchia di Salomone e condussero la società ebraica al collasso. Come amaramente conclude Goodman,

 «l’ultimo discorso di Mosè, almeno da una prospettiva politica, è un discorso che non fu realmente udito (…). Mosè immaginava una vita religiosa che non fosse completamente definita dal culto del Tempio, e una vita politica che non fosse completamente imbrigliata negli orpelli della monarchia. (…) La sua proposta può essere stata accettata in teoria, ma venne trascurata nella pratica. Dopo alcune centinaia di anni divenne evidente che il popolo non era in grado di realizzare la sua visione. Una religione e una politica, che non fossero mezzi per esercitare il controllo, rimasero un sogno biblico irrealizzato».

Il sogno rivoluzionario di Mosè è dunque destinato a diventare esclusiva materia per teologi e storici della religione? La coraggiosa postfazione di Goodman sembra voler procedere in senso contrario al destino “polveroso” che attende l’ultimo discorso di Mosè. Il ricercatore della Shalom Hartman Institute lancia difatti la sfida al sionismo moderno attraverso un parallelo ardito quanto affascinante tra il popolo che ebbe a capo il profeta Mosè e le popolazioni che dal 1948 cambiarono il destino della terra di Palestina. In entrambi questi momenti storici, il popolo ebraico è passato da una posizione di debolezza a una di forza, evento che può sconvolgere e cambiare radicalmente un popolo non abituato a una posizione di potere.

Per sfuggire a questo pericolo, il sionismo moderno deve ritornare a porre la Torà, e soprattutto il Deuteronomio, al centro del dibattito, (evitando di insistere sulla retorica della terra di Israele appartenente “da sempre” al popolo ebraico [3]) facendo in modo che il discorso di Mosè possa infine ritornare ad essere un dialogo con un popolo pronto ad ascoltare. «Agli israeliani di oggi è affidato il compito – scrive infine Goodman – di creare uno Stato ebraico che non ripeta gli errori della nazione biblica (…). E l’impresa sionistica, che è ancora in corso, cerca di riuscire là dove la Bibbia ha fallito. Il sionismo, quindi, è la seconda occasione della Bibbia».

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
 Note
[1] Tale posizione trova un interessante parallelo nell’epistola ai Romani di Paolo: «Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14:14-17).
[2] L’incipit stesso della Genesi narra della creazione della natura da parte di Dio, esistendo quest’ultimo già da sempre.
[3] Il dramma del conflitto israeliano-palestinese, per la sua complessità nonché attualità, non può essere affrontato in questa sede. Per una introduzione alla problematica, di grande valore è l’opera di E. Rogan, Gli arabi, Bompiani, 2016.

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Roberto Cascio, laurea Magistrale in Scienze Filosofiche conseguita presso l’Università degli Studi di Palermo, con una tesi dal titolo “Le Pietre Miliari di Sayyid Qutb. L’Islam tra fondamento e fondamentalismo”. Ha collaborato con la rivista Mediterranean Society Sights e il suo campo di ricerca è l’islamismo radicale nei paesi arabi, con particolare riferimento all’Egitto.

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