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Entomofagia. Una desuetudine alimentare
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2018 @ 00:28 In Cultura,Società | No Comments
di Davide Sirchia
«Sarà per voi in abominio anche ogni insetto alato, che cammina su quattro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che camminano su quattro piedi, potrete mangiare quelli che hanno due zampe sopra i piedi, per saltare sulla terra. Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acrìdi e ogni specie di grillo. Ogni altro insetto alato che ha quattro piedi lo terrete in abominio! Per i seguenti animali diventerete immondi: chiunque toccherà il loro cadavere sarà immondo fino alla sera e chiunque trasporterà i loro cadaveri si dovrà lavare le vesti e sarà immondo fino alla sera». Così si legge nel Levitico (20-25).
L’opinione pubblica italiana sta discutendo, in quest’ultimo periodo, della ricerca condotta dalla Fao che consiglia di introdurre e adottare l’uso degli insetti nella catena alimentare dell’uomo. Diverse società etniche, come ben noto, già si cibano di insetti secondo le loro norme tradizionali: è il caso della Cina e di alcuni Paesi asiatici, è il caso del Camerun e altri Stati africani, è il caso del sud America. Questa riflessione mira a prendere in esame la realtà italiana e in genere dei Paesi membri dell’Europa.
L’entomofagia, cioè il cibarsi di insetti edibili, è stata discussa dalla Commissione europea, che ha decretato, con il regolamento 22/83, che dal primo gennaio 2018 i cittadini possono chiedere al proprio Stato membro l’autorizzazione di commercializzare gli insetti a scopo alimentare, sciogliendo alcuni nodi giurisdizionali per il commercio dei cosiddetti novelfood. Le norme in Italia inerenti il commercio degli insetti edibili, rientrano nei regolamenti per la gestione di tutto ciò che è destinato per l’alimentazione umana. Lo stesso criterio utilizzato per la carne ed ortaggi, come il sistema dell’etichettatura e quindi la rintracciabilità alimentare ,dovrebbe regolamentare anche gli insetti da vendere al supermercato.
Ad oggi, per i consumatori sono a disposizione le etichette che, oltre ad indicare l’origine del prodotto alimentare, la data di preparazione dell’alimento e quella di scadenza, offrono informazioni sul produttore e sull’eventuale importatore. Questo genere di etichettatura dovrebbe anche essere prevista per gli insetti edibili, anche se le norme della sicurezza alimentare italiane includono gli insetti tra i cosiddetti “agenti infestanti”, sia essi blattoidei, ditteri, lepidotteri o imenotteri.
Sono numerosi gli opuscoli, distribuiti da diversi organi competenti territorialmente in materia di sanità, come le ASL locali, ove spesso i vari insetti sono descritti come agenti infestanti, e vi sono riportate le relative modalità per la loro eliminazione [1].
In Italia, si vive con terrore la presenza di insetti nei luoghi adibiti alla lavorazione e somministrazione degli alimenti. Se in un bar o ristorante dovessimo notare un insetto, di qualsiasi ordine, che si aggiri per il locale, la reazione sarebbe abbastanza condivisa. Il cibo che stiamo gustando probabilmente non verrà più consumato, perché si può pensare che quell’insetto sia stato anche nelle cucine e quindi a contatto con la nostra pietanza, destinata ad essere contaminata, provando verosimilmente un senso di brivido e di ribrezzo che comporterà l’abbandono del ristorante, senza ascoltare le spiegazioni o le scuse del gestore.
Queste reazioni istintive, quali l’inappetenza improvvisa, il brivido e la sensazione di ribrezzo, non essendo volontarie sono da ricercare, presumibilmente, nell’esperienza evolutiva dell’uomo. Sembra accertato che nel Paleolitico, l’uomo fosse solito praticare l’entomofagia. Tuttavia, nel corso di questa consolidata pratica da parte dell’uomo, potrebbe essere stata registrata nelle proprie conoscenze una sorta di pericolosità di alcune specie di insetti rivelatisi nocivi o perfino mortali per l’uomo stesso. Tra queste, ad esempio, le larve del lepidottero Hyphantriacunea (un tipo di falena) la cui puntura provoca un dolore pungente paragonabile ad un dolore provocato da uno sciame di api o di vespe, o ancora le cosiddette ‘formiche proiettile’ la cui puntura provoca un dolore acuto addirittura fissato come quarto grado nella scala Shmidt [2].
Queste conoscenze remote, che oggi si manifestano in comportamenti istintivi, possono essere la sola lettura del fenomeno? Se così dovesse essere, le teorie antropologiche affini al “buono da pensare e buono da mangiare” non avrebbero ragion d’esistere. La complessità dell’argomento è ancor più profondo. Alcuni antropologi, come ad esempio il materialista culturale Marvin Harris, hanno tentato di dimostrare come alla base delle scelte alimentari della gente vi siano delle motivazioni di tipo pratico; i benefici in termini nutritivi, ambientali e monetari danno adito, in maniera fondamentale, alla scelta per una specifica opzione alimentare.
L’intento di Harris, pertanto, può essere così chiarito:
L’aspetto economico sarebbe dunque alla base delle scelte alimentari, ma se così fosse, gli insetti, che sono abbondanti e senza particolari costi di allevamento, perché facilmente reperibili in natura, dovrebbero essere alla base dell’alimentazione umana in generale. Se si desidera provare a spiegare le preferenze e avversioni relative al cibo, seguendo le ipotesi di Lèvi-Strauss, questa spiegazione non dev’essere cercata nella qualità delle derrate alimentari, bensì nelle strutture mentali di un popolo. Per dirlo in maniera ancor più chiara e netta: un cibo ha ben poco a che fare col nutrimento. Noi non mangiamo ciò che mangiamo soltanto perché in qualche modo ci conviene, né perché ci fa bene, né perché è a portata di mano, né perché è buono. Il pensiero di Lèvi-Strauss si discosta in toto dalla tesi di Harris, in quanto, come sostiene l’antropologo francese, non dobbiamo ricercare le motivazioni negli aspetti economici ma nelle strutture logico-simboliche che sottostanno alla formazione delle disposizioni psico-cognitive con cui le diverse società elaborano i propri miti.
Non è nostra intenzione negare che il cibo esprima messaggi né che abbia significati simbolici. Ma che cosa vengono prima: i messaggi e i significati oppure le preferenze e le avversioni? Parafrasando e ampliando un po’ il campo di una nota affermazione di Claude Lévi-Strauss, possiamo ribadire che alcuni cibi sono «buoni da pensare» mentre altri sono «cattivi da pensare». Ma aggiungiamo che il fatto che siano buoni o cattivi da pensare non dipende dal fatto che sono buoni o cattivi da mangiare.
I cibi preferiti, buoni da mangiare, sono cibi che fanno pendere la bilancia dalla parte dei benefici pratici, rispetto ai costi di produzione, a differenza di quanto non avvenga nel caso dei cibi aborriti, cattivi da mangiare. Gli stessi onnivori possono avere delle buone ragioni per non mangiare tutto ciò che pur sarebbero in grado di digerire. Alcuni cibi non valgono lo sforzo necessario per produrli e prepararli; altri possono essere sostituiti con alimenti meno costosi e più nutrienti; altri ancora si possono consumare solo a condizione di rinunciare a derrate più vantaggiose.
Costi e benefici in termini alimentari entrano in maniera fondamentale nel bilancio: in genere, i cibi preferiti offrono di più in termini energetici, di proteine, di vitamine, di sali minerali che non i cibi evitati. Ma ci sono altri costi e benefici che possono rendere inintelligibile il valore strettamente nutritivo dei cibi e determinare essi stessi se questi siano buoni o cattivi da mangiare.
Alcuni cibi di elevato valore nutritivo sono evitati perché richiedono tempo e sforzi eccessivi per la loro produzione, oppure perché finiscono per danneggiare la terra o hanno effetti negativi sulla vita degli animali, sulle piante, su altri elementi ambientali.
Lévi-Strauss in Antropologia strutturale (1958) dedica un capitolo allo sviluppo della teoria del crudo, del cotto e del putrido in cui dimostra che i comportamenti alimentari sono frutto non solo di valutazioni economiche e nutrizionali ma, come riprende Montanari (2003: 58), «anche di scelte legate all’immaginario e ai simboli di cui siamo portatori e in qualche modo prigionieri» (ibidem).
Nel volume Il crudo e il cotto (2008), Lévi-Strauss afferma che le qualità sensibili, come fresco e putrido, possiedono una logica: sono segni che costituiscono sistemi simbolici e rilevano la struttura della società. Quindi se per noi italiani certi insetti danno il senso di putrido, dello sporco e trasmettono una percezione di minaccia alla nostra salute e benessere, neanche l’uso del fuoco, che l’autore nel volume descrive come elemento che congiunge natura e socializzazione, può modificare la percezione che abbiamo dell’insetto da ingerire. Probabilmente, queste percezioni e sensazioni le proveremmo finché l’insetto mantiene la sua forma anatomica integra, ma per estensione di idee, se si replica il meccanismo psicologico che avviene per altri animali che fanno parte della nostra alimentazione, dove non possiamo più riconoscere l’anatomia originaria, perché manipolato, trasformato, sezionato, probabilmente le sensazioni sopra descritte potrebbero non esserci.
Se la scelta di un alimento dipende – come affermano vari antropologi dell’alimentazione – dai costi produttivi e dai benefici nutritivi, gli insetti che ultimamente stanno studiando gli entomologi e gli scienziati dell’alimentazione umana, risultano vincenti sia sui costi di produzione che sui benefici nutritivi, in quanto – come detto – sono facilmente allevabili e ricchi di proprietà nutritive come le proteine. La domanda sul perché l’uso di questo alimento non sia diffuso tradizionalmente a tutti i gruppi umani, come i cereali o altri alimenti, probabilmente è da ricercare in altro settore di studio.
Le fonti storiche rivelano come, in Europa, la diffusione dell’entomofagia sin dai tempi denominati classici si sia mantenuta fino a qualche secolo fa. Per la ricostruzione storica, in questo breve articolo utilizzeremo principalmente le ricerche dell’entomologo Bodenheimer (1951). Nel Neolitico, intorno al 10 mila a. C., quando ebbe inizio l’allevamento, in Eurasia erano presenti 13 delle 14 tipologie di animali addomesticabili (il lama risiedeva nelle Americhe). Gli euroasiatici neolitici disponevano di grandi mammiferi terrestri, erbivori e onnivori. Questi fornivano non solo una considerevole quantità di carne, ma anche calore, latte, pellicce, lana e mezzi di trasporto. Quindi l’identificazione dell’allevamento dei grandi mammiferi con un vero e proprio beneficio economico è, verosimilmente, da collocare in questa fase storica. Così il consumo di insetti, per quanto diffuso nel Paleolitico e presente nel Neolitico, diventa progressivamente un fenomeno riservato a pochi.
Questa abitudine all’entomofagia non si perse completamente nelle popolazioni euroasiatiche, tant’è che in Grecia Aristotele (384-322 a.C.) scrisse nel suo Historia Animalium:« La larva della cicala ha un sapore migliore all’ultimo stadio dell’evoluzione larvale, ovvero quando diventa una ninfa» e riportò inoltre che «gli adulti femmina sono migliori dopo la copula perché pieni di uova», testimoniando quanto l’entomofagia, come pratica, fosse ancora in uso nella sua contemporaneità. Greci e Romani hanno copiosamente scritto sul consumo degli insetti non solo nelle loro terre, ma anche in altre a loro conosciute. Erodoto, storico greco, attesta che nel IV secolo a. C. la tribù dei nomadi dell’Asia centrale chiamati i Budini [3] sono « le uniche persone da queste parti che mangiano i parassiti» (Burr 1939: 211). Secondo il naturalista francese Malcom Burr, la parola usata da Erodoto significa “mangiatori di pidocchi” e lo studioso francese, in accordo con l’esploratore e geologo russo Paul Nazaroff, identifica nel gruppo etnico dei Kirghiz [4] dei discendenti dei Budini erodoitei.
Lo scienziato ed entomologo, Frederick William Hope (1797-1862), racconta in suo studio come Erodoto, nella sua Historia, annoveri tra i popoli entomofagi, i Nasamoni [5], i quali: «cacciano le locuste, che dopo essersi asciugate al sole riducono in polvere e mangiano mescolate al latte» (citato da Hope 1842: 129).
Proseguendo cronologicamente le letture dei testi classici del Sud Europa, possiamo soffermarci su Aristofane, poeta greco del IV secolo, che in riferimento al consumo di insetti in Grecia, cita i venditori di gallinacei “a quattro ali” sul mercato (citato da Keller 1913: 455). Secondo Bodenheimer (1951: 42) questi animali erano cavallette [6] che, visto il loro prezzo particolarmente economico venivano consumate prevalentemente dalle classi più povere. Potremmo dedurre che nell’avanzare dei secoli dell’età classica del Sud Europa, avviene un cambiamento nell’uso alimentare degli insetti, almeno in Grecia, in quanto mentre gli abitanti della classe inferiore mangiavano cavallette, quelli più abienti apparentemente preferivano mangiare le cicale [7]. Bodenheimer riferisce che Aristotele accenna al fatto che le larve della cicala non erano un alimento raro in Attica (Atene):
Nel I secolo d.C. una dichiarazione del filosofo greco Plutarco indica che molti greci credevano che le cicale non dovessero essere mangiate: «Considerate e vedete la rondine non essere odioso e empio perché si nutre di carne e uccide e divora le cicale, che sono sacre e musicali» (Bodenheimer 1951: 40).
Plinio il Vecchio, primo autore di storia naturale romana del I secolo d.C., afferma che le cicale erano mangiate in Oriente [8]. Plinio riporta anche (Holt 1885: 38-39; Burr 1939: 221; Bodenheimer 1951:42) che i latini, a lui coevi, consideravano come prelibatezza il Cossus [9] che, per aumentare il sapore di questo coleottero, era fatto ingrassarecon farina e vino. C’è stata molta confusione sull’identità del Cossus, che, a quanto afferma Plinio si nutre di quercia.
Il naturalista inglese Charles F. Cowan, alla fine dell’800 discusse del Cossus come segue:
Bodenheimer elenca diverse specie che sono state presentate da vari autori come il Cossus di Plinio, e conclude che quasi certamente era la larva di Cerambyxheros, piccolo coleottero diffuso in tutto il territorio europeo.
Diodoro [10], storico greco del II secolo d.C., riferì della pratica della acridofagia [11] diffisa in Etiopia, appellando gli abitanti di quel luogo “mangiatori di cavallette”, descrivendoli di piccola statura, magra costituzione e dotati di indole spregiudicata. Caratteristiche che a suo avviso erano una diretta conseguenza della particolare alimentazione.
Bodenheimer cita molti altri scrittori del passato acridofagi che a quanto pare si basavano molto su questo racconto di Diodoro. Ateneo di Naucrati, grammatico greco del 200 d.C., ha scritto ampiamente su numerosi aspetti della vita quotidiana contemporanea greca, compresa la cucina e menziona le cicale come delicatezze nei banchetti, in uso per stimolare l’appetito [12].
Claudius Aelianus [13], naturalista e sofista latino del III secolo, riferisce contrariato di aver visto persone vendere piccoli pacchi di cicale come cibo. Lo stesso autore riporta, inoltre, che il re dell’India servì come dessert per i suoi ospiti greci un piatto di larve da palme arrostite [14], che l’entomologo Holt crede di avere identificato nella Calandra palmarum. Secondo quanto riportato dallo stesso entomologo, il popolo indiano, a differenza dei greci, considerava queste larve una grande prelibatezza.
Fino a questo punto storico, possiamo notare come la preparazione di alimenti con uso di insetti si riduce sempre più, da un impiego abbastanza diffuso degli ultimi secoli a.C., ad uno sempre più limitato e contenuto nei secoli successivi, per arrivare, già a partire dal III sec d.C., alle prime testimonianze di insoddisfazione rispetto a questi alimenti. La nuova era entomologica, secondo l’entomologo Bodenheimer, inizia con l’apparizione nel 1602 di De Animalibus Insectis Libri Septem di Aldrovandi [15]. Ulisse Aldro- vandi, entomologo italiano, menziona vari insetti come cibo, citando da fonti precedenti il consumo di cavallette e cicale. Cita nel suo scritto sia il consumo di api da parte degli abitanti di Cumaná [16], che quello del baco da seta fritto in Italia e, dalle sue esperienze di viaggio, riporta il consumo di formiche in alcune parti dell’India e delle isole genovesi.
In merito alle presumibili manifestazioni di sgradevoli sintomi che i commensali potrebbero denunciare, De Réaumur afferma che «si può mangiare come molti dei nostri bruchi vegetali come si desidera senza temere il minimo danno, gonfiore o infiammazione». De Réaumur segue con una discussione sull’entomofagia in generale:
Foucher D’Obsonville, nel 1783, scrive Saggi filosofici sulle abitudini di vari strani animali, opera nella quale racconta che le locuste vengono mangiate con gusto dalla maggior parte degli africani, alcuni asiatici e soprattutto gli arabi. Bodenheimer riassume l’asserzione come segue:
Immanuel Kant, nella sua Geografia fisica (1905:236), dedicò un paragrafo alle locuste commestibili, che è dato come segue:
Cuvier (1769-1832), naturalista francese, nel suo Regno degli animali (Insecta II: 205), menziona un precedente e riferisce che i bambini del sud della Francia amano molto le cosce carnose delle cavallette.
Ha anche osservato che, secondo le segnalazioni dei viaggiatori, le cavallette conservate in salamoia e con le ali rimosse sono un articolo di commercio. F.W. Hope (1797-1862) ha contribuito con una carta preziosa, di cui alcune parti sono incorporate in questo volume. Dopo aver citato molti degli antichi documenti relativi all’uso di insetti da cibo, sia in Europa che altrove, Hope annota:
Frederick Freeman nel 1858, in The History of Cape Cod, riferisce:
L’entomologo e geologo Malcolm Burr (1878-1954), membro della Royal Society entomologica di Londra, discute dell’uso degli insetti come cibo e medicine. Così scrive:
Reay Tannahill, in Il cibo nella storia del 1973, cita una serie di esempi degli usi di insetti come cibo, e per quanto riguarda l’arrivo di Colombo nei Caraibi, Tannahill osserva:
A seguito di una ristampa nel 1991del libro di Vincent Holt, Perché non mangiano insetti del 1885, per interesse del BritishMuseum (sezione di Storia naturale), Vane Wright, curatore della pubblicazione, rivede il volume e conclude: «Perché non mangiare insetti in effetti?» affermando:
Notando che le culture dell’Europa occidentale, e le nazioni che ne derivano, sono le uniche che non utilizzano nella propria dieta alimentare gli insetti, Vane-Wright scrive:
Una volta stabilite le preferenze alimentari, queste risultano essere altamente resistenti al cambiamento. L’operazione in atto degli studiosi della novelfood quale quella di menzionare gli insetti consumati in Africa, Asia e nell’emisfero occidentale dovrebbe servire a far sì che noi occidentali attraverso la conoscenza indotta ne accettiamo il consumo? Potrebbero tali insetti diventare accettabili per i palati occidentali?
L’analisi del probabile inserimento dell’entomofagia in Occidente deve tener conto anche della imprevedibilità della fornitura degli insetti selvatici utilizzati in altre società umane per l’alimentazione delle società urbane occidentali; se pur molti insetti sono localmente o periodicamente abbondanti, bisogna “inventare” delle tecniche di allevamento avanzate per far fronte alle richieste delle città. L’antropologo entomologo Vane-Wright, in riferimento allo scritto di Holt, osserva che,
Vane-Wright conclude che gli insetti hanno una cattiva reputazione immeritatamente, in quanto solo poche specie risulterebbero nocive all’uomo. Questo pensiero si è esteso a tutti gli insetti. Il ricercatore fa notare come nella loro varietà più infinita, gli insetti potrebbero ancora essere la nostra salvezza. Le varie società europee, come abbiamo delineato in precedenza, hanno un substrato in comune, un legame storico di condizionamento quale la cultura greca e la latina.
Il buono da pensare e quindi il buono da mangiare, probabilmente è anche frutto dell’esperienza diretta e dell’accettazione in società della nuova pietanza. Così come la cucina “fusion”, che con la proposta di piatti a base di pesce crudo, aveva inizialmente suscitato indifferenza e disgusto, e che, progressivamente, si è andata affermando nella cucina occidentale, mano a mano che maturava il tempo necessario all’accettazione comunitaria delle nuove pietanze, anche l’entomofagia, con il trascorrere del tempo necessario ad una ‘metabolizzazione’ della scioccante proposta degli ingredienti di base, potrebbe trovare una sorta di affermazione nella nostra cultura alimentare.
La necessità primaria, per un ottimale inserimento alla vendita di insetti per scopi alimentari umani, è che ci sia una severa regolamentazione dell’importazione e dell’allevamento della materia prima, che garantisca in modo inequivocabile la qualità dei prodotti acquistati, circostanza che a mio avviso può agevolare la decostruzione di ogni pregiudizio o preconcetto concernente questo genere di alimento.
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