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EDITORIALE

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 02:47 In Editoriali | No Comments

 

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Mazara del Vallo, settembre 2020 (ph. Sofia Calderone)

Nessuno come Primo Levi ha esplorato e illuminato la zona grigia, quella frontiera mobile che nel sistema concentrazionario separava i perseguitati dai persecutori e poteva far scivolare l’oppresso nell’abisso degli oppressori, poteva spingere alla prossimità e alla promiscuità più efferata vittime e carnefici. «Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana».  Vengono in mente queste parole di Primo Levi nella sfida di rendere intelligibile un fenomeno complesso, frastagliato e ambiguo come quello che definiamo negazionismo.

Nel contesto di una devastante pandemia che confonde e annichilisce anche le intelligenze più scaltrite, coniugandosi con una infodemia globale e una regressione emotiva che oscilla tra fatalismo e allarmismo, è facile che si rimescolino certezze e posizioni, sfibrate dal lungo e logorante stress dell’attesa messianica che tutto finisca, che tutto sia rapidamente gettato alle spalle nella illusione della “ripartenza”, un refrain proclamato, invocato, celebrato durante l’estate per ritrovarci oggi in autunno allo stesso punto di partenza. L’irruzione sempre più aggressiva di quel virus dichiarato «clinicamente morto» e mai in realtà scomparso rimette in crisi le nostre vite già sfilacciate e le nostre incerte coordinate mentali, ingigantisce le ombre dei nostri dubbi, delle nostre insicurezze. Ecco perché il negazionista non è un fantasma alieno né un mostro perverso, non è altro da noi, è l’espressione di un disagio che attraversa istinti e pensieri e ci riguarda tutti, senza distinzioni tra razionali e irragionevoli. Ecco perché il negazionismo non può essere liquidato come fenomeno marginale di una minoranza di sbruffoni o guasconi, di ingenui gregari o di astuti capi-popolo. C’è tutta una ampia e magmatica zona grigia, in cui all’accumularsi delle contraddizioni e allo sgretolarsi delle verità o delle speranze si accompagnano gli smottamenti e gli sconfinamenti, le resistenze e gli ammutinamenti, fino all’adesione a teorie o teoremi totalizzanti che assumono il virus come complotto o come nemesi, macchinazione o apocalisse.

Più del negazionismo, puro e duro, è il riduzionismo, ambiguo e mimetico – fatto di sciatterie e di dissimulazioni, di irriflessa negligenza o di complice trasgressione – la spia del vago malessere, del sordo malumore e della smarrita fiducia nelle istituzioni che conduce piano piano a rifiutare o sottovalutare l’uso della mascherina scambiato per un attentato alla sovranità personale, a confutare i numeri dei bollettini e a sospettare cospirazioni e speculazioni, a cercare e immaginare un’altra realtà più appagante e consolatoria, a credere al primato della libertà individuale sui diritti della salute pubblica. Pigrizie mentali e facili suggestioni ma anche povertà sociali e culturali sono alla base di convincimenti e comportamenti in tutta evidenza assurdi e insensati e tuttavia coerenti all’orizzonte di senso di una narrativa che riscalda i sentimenti e rassicura gli animi. Un mondo stratificato e disomogeneo, niente affatto compatto in un amalgama articolato in tante sfumature, nelle diverse pieghe di una subcultura che varia dal grottesco al dogmatico, dal settarismo al mitologico. Fino ad approdare alle più cieche attestazioni fideistiche che abbracciando il negazionismo più assoluto confermano la validità del teorema di Thomas: «Non importa che una cosa sia vera, è sufficiente che sia creduta vera perché produca effetti reali».

Da qui muove l’idea di proporre in questo numero di Dialoghi Mediterranei una riflessione su questo fenomeno così denso di implicazioni antropologiche, un dibattito che si svilupperà anche sul prossimo fascicolo di gennaio. Nel quadro complicato che le diverse voci contribuiscono a ricomporre c’è chi come Maria I. Macioti traccia una nitida descrizione dei diversi profili dei negazionisti, dai complottisti di QAnon ai fondamentalisti dell’ecologia, dagli antagonisti anarchici ai populisti al potere, affidando uno studio più approfondito allo «sguardo critico dei sociologi della religione»; chi come Antonio Ortoleva privilegia una lettura politica del fenomeno, a partire dall’analisi degli esempi offerti dai leader dei grandi Paesi; chi come Rosolino Buccheri, da filosofo della scienza, colloca prassi e concetti all’interno dei Modelli Mentali che presiedono inconsciamente ai processi della conoscenza, «instaurando convinzioni non necessariamente suffragate in modo rigoroso dalla realtà degli eventi vissuti» e arrivando perfino a «negare, come è noto, ‘verità’ scientifiche inoppugnabili come la sfericità della Terra o la conquista della luna».

Per sottolineare la pervasività delle narrazioni – del tutto separate dai dati fattuali – Giuseppe Sorce assimila il negazionismo ad un vero e proprio virus, «qualcosa che non vedi, che quando ti entra dentro non te ne accorgi, che può dare vita ad un morbo asintomatico o mortale». Lauso Zagato tenta un confronto con le narrazioni pubbliche del negazionismo storico, cogliendo inquietanti analogie e concludendo che «è in corso, all’ombra della pandemia, un riassestamento del potere su scala internazionale che avrà vincenti e perdenti sul piano economico e politico». Linda Armano opportunamente opera una pregiudiziale distinzione tra revisionismo e negazionismo, mentre Valeria Dell’Orzo, nel passare in rassegna le contraddizioni interne a questo universo di congetture autistiche o paranoiche, vi identifica «il controsenso di una libertà che si nutre del liberticidio che professa». Neri Pollastri propone una puntuale disanima pratico-filosofica della crisi sanitaria come cartina di tornasole della crisi del pensiero tout court, ovvero di «una cultura senza pensiero», di fatto «la Caporetto del pensiero razionale». Lella Di Marco invita invece a guardare alla pandemia come ad un fenomeno biopsicosociale, spostando l’attenzione e la cura dalla malattia al malato, nella consapevolezza che il vettore patogeno è anche e soprattutto un agente che scompagina non solo l’ordine della vita e della società ma anche la tenuta psicologica degli individui più deboli. Riccardo Talamo infine definisce quel negare che equivale ad an-negare la ragione come «una sorta di débâcle collettiva in un teatro del grottesco in cui Archimede è costretto a spiegare a Homer Simpson la convenienza di rimanere con la testa fuori dall’acqua».

Molteplici e stimolanti punti di vista, dunque, su un fenomeno la cui ambigua complessità si offre a diverse letture e interpretazioni, qui riassunte in modo del tutto approssimativo. Nel frattempo la cronaca di un presente che corre più rapido e vorticoso della nostra stessa capacità di viverlo e di comprenderlo si incarica di aggiungere altre sollecitazioni, altre riflessioni. Il negazionismo trova nelle piazze violente, armate di spranghe e di bombe carta, nuove e vecchie alleanze: i guappi della camorra e della mafia, i camerati e il fascistume, i malavitosi e i professionisti del terrore, i teppisti, gli ultras del tifo e gli antagonisti di tutti contro tutto, perfettamente infiltrati e mimetizzati nella disperazione dei precari e dei senza lavoro, nella tensione sociale incubata sotto pelle, nel ribellismo degli scontenti e dei frustrati che pensano di difendere la propria sopravvivenza economica contestando la “dittatura sanitaria” nella stessa trincea sovversiva. Ma non meno negazionisti sono quelli che – lontani dal rumore delle piazze arrabbiate – hanno preferito affollare domenica scorsa le funivie di Cervinia, ne hanno assaltato le piste, disprezzando ogni regola e violando ogni divieto.

C’è da chiedersi cosa stiamo diventando come Paese, a fronte di una pandemia che eccita gli egoismi, esalta i particolarismi, tende a balcanizzare la nostra stessa fragile democrazia, dilaniata dalla guerra tra regioni e delle regioni contro lo Stato, tra scienziati schierati in fazioni, tra giovani asintomatici che non comprendono le ragioni dei rischi sociali e gli anziani che ne sono le vittime, tra immuni e vulnerabili, tra i garantiti e i senza tetto, tra chi teme il contagio e chi lo rimuove, lo irride, lo nega. Pietro Clemente parla «di anarchia dei poteri, di protagonismo soggettivo dei ‘governatori’, di incapacità di dialogo e di fare rete, di ‘anarchismo feudale’ si sarebbe detto in passato». E aggiunge: «Come il PIL rende opaca la vita reale delle persone così l’approccio all’economia pensato come se i soggetti fossero solo individui senza relazioni, non avessero nonni o nipoti né età, nasconde il vero stato del mondo». 

Dialoghi Mediterranei resta attenta a quanto sta accadendo nelle nostre vite, stressate dall’imperversare di questa piccola molecola replicante che non è certo il frutto avvelenato del melting-pot, come qualcuno paventa, ma è piuttosto l’ospite indesiderato che abbiamo invitato e accolto mentre eravamo impegnati a sconvolgere gli equilibri del pianeta, a distorcere e violentare gli ecosistemi della convivenza in un sistema-mondo sempre più interconnesso. Si legga in questo numero il denso contributo di Vincenzo Guarrasi, Pandemia, migrazioni e riscaldamento globale, per avvicinarci alla comprensione della straordinaria “nodalità” che tiene insieme i luoghi e li identifica. Da qui la necessità di contrastare ogni «perniciosa equivalenza tra contatto umano e contagio. Sul piano sociale e culturale esso potrebbe nella mente di molte persone determinare un pericoloso arretramento sul fronte delle interazioni umane e delle relazioni interculturali». Da qui l’auspicio che il distanziamento fisico non finisca col trasformarsi davvero in distanziamento sociale e la pandemia possa invece essere «convertita in una grande opportunità di ripensamento valoriale».

Lo stesso auspicio – qualcosa di più di un auspicio – è coltivato nell’intenso e lungimirante lavoro che da quattro anni Pietro Clemente conduce nelle pagine del suo “Il centro in periferia”, una riflessione sui piccoli paesi minacciati o già dissanguati dall’inarrestabile spopolamento e oggi possibili luoghi di sperimentazione di nuovi modi di vivere e di abitare. Sembra, in verità, maturare e diffondersi una nuova sensibilità su questi temi, un’attrazione per la vita dei borghi, per la misura umana degli spazi e dei ritmi, una attenzione accentuata in concomitanza con la difficile convivenza con il covid in città. Anche dalle esperienze di certe periferie urbane – scrive Francesco Erbani – si possono ricavare lezioni: «Dalle aree più disagiate, in cui la sofferenza è acuta, arriva l’idea che si possano immaginare forme di vita, modi di abitare, occasioni di lavoro, intraprese culturali che diventino non tanto modelli, ma certo occasioni ripetibili su larga scala in tutto l’organismo urbano».

Come sempre, anche in questo numero, Dialoghi Mediterranei continua a tessere dialoghi interdisciplinari, a indicare percorsi trasversali, divagazioni, attraversamenti e sconfinamenti tra saperi che urgenze accademiche, convenzioni retoriche e pratiche obsolete tendono a tenere separati. «Sapere è cercare connessioni tra cose diverse», ha insegnato Giambattista Vico e noi siamo alla ricerca dei nessi, dei fili sottili che tengono insieme gli intrami e gli stami delle scienze che dell’uomo studiano i diversi aspetti e all’uomo comunque riconducono, siano essi la letteratura, la linguistica, le arti, la geografia, la filosofia, la storiografia e l’antropologia. Statuti disciplinari formali, rappresentazioni arbitrarie e costruzioni culturali, nessuna delle quali da sola può essere considerata dal punto di vista euristico onnipotente e autosufficiente. Non ci sono forse riconoscibili connessioni tra il Mediterraneo di Boccaccio di cui scrive Roberta Morosini e quello descritto da Maria Di Giacinto a proposito del Museo Eoliano dell’Emigrazione di Salina, o quello raccontato in declinazione femminile da Franca Bellucci tra poesia e romanzo, o quello ancora posto al centro dei diversi contributi su migrazioni, campi profughi e minori stranieri?

Altre connessioni il lettore potrà trovare sfogliando le pagine di questo cospicuo numero che ospita  ancora una volta una significativa antologia di immagini illustrate dagli stessi fotografi (Baiamonte, Clemente, Giaramidaro, Grosso, Pitrone, Zicari): un cimento tra scatti e scrittura, il generoso esercizio di un inedito progetto metafotografico che Dialoghi Mediterranei persegue con sistematicità. Di fotografia si occupa anche Sergio Todesco e il suo ragionare su Il riso e il discorso sacro popolare si incrocia epifanicamente con le riflessioni di Ahmed Somai sull’umorismo arabo, che a loro volta si intrecciano con i giochi di parole e i loro imprevedibili giri etimologici ricostruiti da Giuliano Mion.  Di scrittura all’università si occupa Fabio Dei in un attento e documentato studio che invita a ripensare a fondo i rapporti tra didattica, scuola, società, democrazia. E un altro antropologo, Salvatore D’Onofrio, ritorna su un tema assai dibattuto nel contesto dell’attuale globalizzazione, quello su identità e differenze culturali, concludendo che «l’unico modo scientifico per capire di che cosa sia fatta l’identità, multipla oltre che mobile, consiste nello scoprire le leggi d’ordine sottese alla di­versità osservabile di credenze e istituzioni». D’Onofrio ha fatto parte della Scuola antropologica siciliana guidata da Antonino Buttitta, la cui storia Mario Giacomarra ricostruisce in un appassionato racconto che la definisce «frutto di un’attività scientifica e culturale molteplice, fatta com’è stata di ricerche, studi e riflessioni incentrate su campi diversi e in origine distinti ma che hanno finito con il coniugarsi l’un l’altro e con l’arricchirsi a vicenda».

Questo fascicolo n. 46, l’ultimo di questo anno ferale – che contiene come sempre interessanti letture di libri, di film, di opere d’arte, di feste nonché interviste, anticipazioni, progetti, ricerche e tanto altro (mi piace segnalare fra tanti l’ampio e argomentato scritto di Giuseppe Fontanelli sulla madre di Salvatore Carnevale) – va in rete in mezzo alla confusa contingenza pandemica, all’indomani dei nuovi provvedimenti restrittivi, tra le proteste che si trasformano in guerriglie e preparano polveriere, i passamontagna al posto delle mascherine e le paure alimentate dalle ineffabili fake news che indicano l’invisibile burattinaio della dittatura sanitaria nel «Governo Mondiale che ha emesso l’ordine di seppellire i morti senza autopsia, e nell’ombra vuole vaccinare e installare un chip per uccidere le masse e per controllare la popolazione». Niente di più di un delirio di isterie e di idiozie, se non fossero voci e parole d’ordine che plagiano e mobilitano un esercito sbandato di adepti. Dentro queste nebbie che avvolgono e appannano pensieri e sguardi dell’opinione pubblica, sono destinate a disperdersi e ad essere dimenticate le sorti dei diciotto pescatori di Mazara del Vallo che da due mesi sono tenuti in ostaggio in quel pezzo di Cirenaica controllato da Haftar che ancora chiamiamo Libia. Un sequestro che precipita nelle tensioni di più guerre per procura consumate in un Mediterraneo teatro di torbide manovre politiche, di alleanze criminali intercontinentali e di sfide sempre più drammatiche.

Ci vorrebbe un’Europa più unita e più attenta perché possa assumere un ruolo di autorevole mediazione in queste vicende. «Un’Europa dei popoli» – invoca Piero Di Giorgi nella Lettera aperta indirizzata alla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, una Federazione che vada al di là dell’Unione, recuperando lo spirito originario dello statuto di fondazione. Se ci fosse quello spirito i migranti che arrivano a Lampedusa sarebbero davvero sbarcati nel continente che si vanta di essere patria della civiltà dei diritti, e non sarebbero merce da barattare, da trattenere in centri di detenzione o da respingere nei lager. Se ci fosse quello spirito quelle acque internazionali non sarebbero mai state sequestrate dai libici e con esse i pescatori che vivono del loro lavoro. Non si è sottolineato abbastanza che a bordo erano impegnati insieme nella pesca, e insieme condividono adesso il sequestro, italiani, tunisini e senegalesi, una comunità interetnica che nel gettare le reti nello stesso mare dalla stessa imbarcazione replica in fondo, senza averne forse consapevolezza né memoria, i gesti di un’antica alleanza, gli invisibili segni e disegni di una lunga storia mediterranea. Quella via stretta, denominata canale di Sicilia o di Tunisi a secondo della riva da cui si guarda, è sempre stata snodo centrale di un sistema reticolare complesso, di uno spazio itinerante che, nonostante tutto, rimuove confini e sbarramenti, sposta orizzonti e frontiere. Anche al prezzo di naufragi, tragedie, conflitti, sequestri. Dovremmo ricordarlo alle cancellerie europee, e nel nome di questa storia non dovremmo dimenticare il destino dei nostri pescatori in quella terra d’Africa senza pace.

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020

 

 

 

 

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