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Dov’è l’Europa?

yoko-tawadadi Ada Bellanova 

Nel racconto saggio Dove comincia l’Europa [1] di Yoko Tawada, la narratrice compie un lunghissimo viaggio prima in nave dal Giappone in Siberia, poi in treno sulla Transiberiana per giungere a Mosca. A spingerla è l’immagine della città che le hanno tramesso i genitori, innamorati dei libri e della letteratura, e che è nata in loro da Le tre sorelle di Cechov. A Mosca tutto è possibile nel racconto famigliare: per la madre al suo centro non c’è la piazza rossa ma una biblioteca dei sogni, con un romanzo inesauribile dal godimento senza fine; il padre ripete che solo lì potrà aprire la sua casa editrice. La città è meta agognata e irraggiungibile, proprio come per le tre sorelle: la città è porta d’Europa [2].

I confini che separano l’Europa dall’Asia in realtà sono fittizi e arbitrari e l’appartenenza all’una o all’altra è una costruzione culturale. L’ingresso, la sua forma non sono definiti. La risposta alla domanda «Dove comincia l’Europa?» non è chiara. Si può sostenere che dietro gli Urali tutto sia Europa, come fa la donna russa che viaggia nello stesso scompartimento della narratrice, avvalorando la testimonianza del cartello che indica il confine tanto atteso. Ma per qualcun altro, per esempio per il francese, anche lui in viaggio, la prospettiva è un’altra e un’altra la porta, e con divertimento egli dichiara che neppure Mosca è Europa [3]. La meta si allontana, i confini risultano incerti e complessi, legati agli sguardi.

Le parole di Yoko Tawada – giapponese, ma residente a Berlino ormai da anni, autrice sia nella sua lingua madre che in tedesco – in questo e negli altri testi raccolti nel volume edito da Mimesis mettono in luce la precarietà e l’inconsistenza dei modelli precostituiti relativamente al limite, al confine: la sua scrittura riflette sulla pluralità di storie da interpretare che costituiscono l’Europa, sulle relazioni da riannodare, sull’incrocio, sul difficile equilibrio tra frattura e legame tra Oriente e Occidente. L’immagine in copertina, di Valerio Adami, richiama la storia antica della giovane Europa rapita dal toro divino alla terra fenicia e condotta a Creta. Il mito, che spiegherebbe il nome del continente europeo, è una chiara espressione dell’incertezza dei confini e della continuità tra Oriente e Occidente.             

European Union FlagL’Europa delle piazze e un progetto non realizzato 

Il saggio di Yoko Tawada mi capita tra le mani in quest’epoca così densa di trasformazioni, che attende ridefinizioni, nuove identità dall’incertezza degli schieramenti, nuova autorevolezza nelle questioni internazionali. Il giornalista Michele Serra, qualche mese fa, lanciando dalla sua rubrica su «La Repubblica» l’idea di incontrarsi nelle piazze per sostenere il sogno e i valori dell’Europa, invitava i lettori a dire qualcosa di europeo [4]. Cos’è Europa per te, per voi? Dove sta l’Europa?

Non so a quanti di fronte a questa domanda venga in mente la penisola che – questa è ancora la prima definizione nella maggior parte dei manuali scolastici, non solo italiani – ha i suoi confini negli Urali, nel Mar Mediterraneo e nel mar Nero, nel Mar Glaciale Artico e nell’Atlantico. L’Europa è continente per la geografia classica, è realtà regionale specifica, chiaramente e rigorosamente delimitata in base a criteri fisici. Ma le cose non sono così semplici.

La reazione del francese nel racconto saggio di Yoko Tawada è significativa: Mosca per lui – solo per lui? – non è Europa. Eppure è al di qua degli Urali. L’Inghilterra ha smesso di essere Europa dopo la Brexit? E la Turchia può forse essere semplicemente definita come uno Stato a cavallo tra due continenti? Come sulle carte geografiche, una linea può separare nettamente la porzione asiatica da quella europea? E l’acqua, il mare, accetta in sé dei confini? Soprattutto il Mediterraneo, che è per definizione mare in mezzo alle terre, mare ponte, dove porta il segno del limite?

Chi ha riempito le piazze rispondendo all’appello non aveva in mente l’Europa come area convenzionalmente determinata, ma piuttosto il progetto di unità e di pace già elaborato a Ventotene nel 1941-42, la convinzione del secondo dopoguerra che solo con un processo di unificazione e con la creazione di legami di reciprocità e corresponsabilità si sarebbe potuto evitare il riaffermarsi dei nazionalismi che avevano generato distruzione e morte. Eppure è evidente che gli esiti dell’Unione Europea non sono quelli a cui avevano pensato Rossi e Spinelli.

In Come dorme Europa? la protagonista e voce narrante, donna giapponese emigrata in Germania, ha modo di confrontarsi sulla storia dell’Unione Europea con una donna belga emigrata in Estremo Oriente. Le due si incontrano a Hong Kong, e l’europea, che pure dichiara di avere trovato la sua ragione di vita proprio nelle sue radici da quando vive all’estero, motivo per cui si dedica allo studio delle lingue europee minori, mostra uno sguardo sull’Europa estremamente critico. 

«Quel che contava era sempre l’energia. No, replicai, il primo impulso all’Unione Europea fu la stretta di mano fra la Germania e la Francia, il desiderio di non entrare più in guerra […] Ma gli esseri umani sono egoisti. Si associano solamente se possono arricchirsi insieme. E non certo per mantenere la pace. Perché la pace, quando esiste, è come l’aria: non si sente» [5]. 

61osavjseul-_sl1080_Nata dallo sviluppo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), poi trasformatasi in CEE (Comunità Economica Europea) e articolatasi nelle istituzioni della Commissione Europea, del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo, l’UE non è diventata Stati Uniti d’Europa come in molti avevano sperato. Sono ovviamente indiscutibili e importanti i risultati come l’abolizione dei dazi di frontiera, l’adozione di tariffe comuni per le importazioni, l’adozione dell’euro e vari provvedimenti di finanziamento, iniziative quali i programmi Erasmus. Ma l’unità politica non c’è e il problema della difesa è complesso, nell’incrinarsi dell’organizzazione NATO ovvero della relazione con gli Stati Uniti, mentre l’Europa fa fatica a emanciparsi dal pensiero atlantico e a trovare una sua identità. 

L’urgenza di un’altra narrazione 

Franco Cardini scrive che non c’è mai stata la volontà di formare un popolo europeo, di costruire cioè un senso civico e un legame con l’Europa per tutti, per esempio attraverso specifici programmi scolastici, orientando i manuali per studenti. 

«Se ciò fosse avvenuto a partire almeno dagli anni Cinquanta-Sessanta, oggi avremmo alcune centinaia di milioni di europei tra i venti e i sessant’anni seriamente educati a sentirsi figli di una stessa patria, membri di uno stesso popolo nonostante la molteplicità delle lingue e dei dialetti parlati e nonostante il peso di un passato fatto anche di lotte a sua volta parte di un patrimonio indelebile» [6]. 

È mancata e manca ancora la narrazione di una identità europea. A meno che non si voglia accettare come definizione d’Europa la contrapposizione agli altri, ai «nemici». Homi Bhabha [7] ha messo in luce come in generale le nazionalità occidentali siano costituite da «complesse strategie di identificazione culturale e di prassi discorsiva»: al centro della narrazione ci sono ora il concetto di popolo ora quello di nazione. La cultura e la politica sono sostanzialmente etnocentriche, si radicano nella contrapposizione tra Occidente e Oriente, si nutrono di discorsi su appartenenza, inclusione e esclusione. L’identità è dunque sempre definita come negazione dell’altro.

derridaCome reagire a questa modalità? Quali possibilità esistono? Jacques Derrida, in L’altro capo [8], contro la dittatura di un modello etnocentrico propone un’alternativa che riconosca la molteplicità di storie e culture che abitano l’Europa, un’identità che si distanzi dalla semplice unificazione economica e si costituisca piuttosto in un progetto politico nuovo in grado di guardare all’altro come un’occasione di crescita, per contrapposizione o per consenso, e capace di riparare alle deformazioni e alle forzature nelle relazioni tra culture diverse scaturite da imperialismi e colonialismi. Suggerisce cioè un modello di Europa aperta, capace di accettare la responsabilità della sua apertura e la gestione della frontiera, che non risiede tanto negli Urali o nel Mediterraneo ma piuttosto in ciò che essa non è, non è mai stata e non sarà mai. È su questa apertura che si possono porre le basi per una nuova nascita. 

Il mito di Europa e altre storie antiche

Un mito può continuare a essere vitale se qualcuno dei suoi aspetti è ancora in grado di comunicare un messaggio a chi entra in relazione con esso. La storia di Europa, la figlia del re di Tiro Agenore, che, immaginata probabilmente in un tempo antichissimo e che, in quanto tale, può testimoniare sul piano storico i legami greci con la civiltà fenicia e con quella minoica, è popolare grazie alle Metamorfosi di Ovidio (II 846-875): una vicenda di trasformazione, dalla principessa vergine alla regina e madre di re, dalla nativa di un paese alla migrante forzata. Rapita da Zeus, che le si presenta sotto le sembianze di splendido toro, la ragazza fenicia diventa partner sessuale del dio, e poi fonda la nuova stirpe dei sovrani di Creta.

Delle numerose trasformazioni di questo mito trovo nota in un testo di Alberto Manguel, Europe, le mythe come métaphore, lezione inaugurale pronunciata al Collège de France il 30 settembre 2021 [9]: Europa è la bellezza femminile che seduce – persino un dio! – o, per una lettura femminista, è la donna violata, ma, soprattutto, la principessa seduta sul resto del mondo è rappresentazione della sovranità europea e rinvia alla sottomissione degli altri popoli, ma può anche incarnare l’influenza afroasiatica sulla civiltà greca e occidentale oppure è l’immigrata, la straniera.

Questo mito può ancora raccontarci qualcosa oggi se ancora resta il debito del colonialismo e il flusso di rifugiati e migranti economici non accenna a fermarsi? Può contribuire a una nuova narrazione dell’Europa? Paolo Rumiz è convinto di sì.

il-filo-infinitoIdealmente collegato a Il filo infinito [10] che nella forza dei monasteri benedettini, veri presidi di resistenza alla devastazione e all’abbandono dall’Atlantico al Danubio, rintraccia un modello per la salvezza del sogno europeo, Canto per Europa [11] racconta in versi il viaggio per mare di quattro singolari Argonauti, lo stesso Rumiz in compagnia di Petros, greco d’origine e gallese d’adozione, Ulvi turco di madre tedesca e Sam, francese askenazita, un gruppo rappresentativo dei confini d’Europa, da Nord a Sud, da Est a Ovest. La barca con la quale solcano il Mediterraneo si chiama Moya, e ha una polena con occhi dipinti, come le imbarcazioni antiche, proprio come la nave Argo. Durante una sosta sulle coste del Libano una ragazza siriana, in fuga dalla guerra, si precipita a bordo e indica al piccolo equipaggio il mare aperto. Da qui in poi il libro racconta il viaggio di ritorno in Italia, con soste su tutte le coste mediterranee, per dare salvezza da un passato doloroso alla giovane clandestina. La quale ha un nome decisamente evocativo: Evropa (poi Europa).

Il viaggio ripropone allora proprio il mito di Europa, la bella principessa fenicia che Zeus, mutato in toro bianco, rapì e portò a Creta. La realtà delle mappe e dei portolani si intreccia ad una narrazione epica e poetica in cui confluiscono riferimenti e modalità omeriche, dantesche, bibliche, ma anche cenni a antichi scrittori arabi, moderni scrittori greci e – come poteva mancare? – alla mitologia e alla letteratura greca. 

«Dove ti sei nascosta, Europa? […] Tu, sedimento di millenni, lingue, religioni, incubi, speranze e convulsioni, dai quali è nata, come per miracolo, l’Idea? Forze oscure attentano al sogno. La parola “pace” è diventata impronunciabile. Fingiamo di non essere in guerra per conto terzi ormai da anni, e che le armi che appaltiamo siano pulite, non uccidano bambini. Per secoli abbiamo rivendicato come universale il nostro diritto a emigrare e, ora che il flusso si è invertito, deleghiamo a milizie spietate la difesa delle frontiere esterne contro i più deboli, salvo aprirle per alcuni e non ad altri in nome della convenienza. Colonizzati da un pensiero unico atlantico, esitiamo a rivendicare la nostra diversità mediterranea» [12]. 

Queste sono le considerazioni da cui nasce Canto per Europa. A Bruxelles non esiste un organismo incaricato di coltivare e difendere l’immagine dell’Europa ma «nessuna comunione di popoli può reggere in assenza di un epos delle origini» [13]; e comunque, le regole e i programmi non sono sufficienti, è necessario guardare al mito. Per proteggere il sogno europeo dalla violenza, dalle dittature, dalla corruzione dei nazionalismi, occorre per Rumiz attivare una nuova narrativa «partendo da una storia più antica e radicale di quella dei padri fondatori» [14]. Questa storia più antica e radicale è proprio il mito della principessa migrante che parla di un legame indissolubile tra Europa e Asia, tra Europa e Mediterraneo. Il racconto è capace di mettere in discussione l’identità propagandata fanaticamente dai populismi e fondata sulla negazione dell’altro, può mostrare che il confine è molto più fluido di come lo si afferma.

Vicenda di sofferenza, di migrazione forzata – nel racconto ovidiano Europa è terrorizzata mentre il toro Zeus la trascina lontano dalla sua terra –, il mito è specchio delle cronache del Mediterraneo ma, mentre l’Unione europea veglia sui confini per salvaguardare una identità di per sé problematica, la narrazione svela che proprio quei confini, quella terra sono il sogno di chi viene respinto. 

«Ora capisco, amici. Questa terra è il miraggio di chi non la possiede, di chi traversa il mare con fatica. Forse il sogno di chi viene respinto, non di chi l’abita, sazio, da secoli. Da oggi sia chiamata come lei» [15].

Sono le parole di Petros, uno dei personaggi del libro di Rumiz.

Tiziano, Il ratto dell' Europa , 1559

Tiziano, Il ratto dell’ Europa, 1559

Ma il mito di Europa dice anche di una rinascita: la migrante per forza nella nuova terra dove è stata trascinata si rimette in piedi, trasforma il desiderio di stupro di Zeus in una fondazione, una affermazione. Come dice Manguel, il mito è la traduzione di un No in un Sì [16]. E c’è in questo una grande forza simbolica di valorizzazione dell’apertura: l’Europa è il luogo – spazio reale o complesso di valori – dove Europa donna, essere umano, si salva.

Non è forse quello che accade anche nel più sfruttato mito di Enea? L’eroe troiano che fonda Roma – è legittimo parlare di radici romane per l’Europa? – è un profugo, addirittura scappa da una patria in fiamme, e nel successo della sua vicenda migratoria, che è scontato perché voluto dagli dèi ma per niente indolore, trova il proprio riscatto.

Dov’è l’Europa?

Dov’è allora l’Europa? Che risposta si può dare a questa domanda? «A nessuno si può dire, ma Europa non esiste» [17], così Yoko Tawada mette in evidenza la precarietà e l’inconsistenza dei modelli precostituiti, ma altrove scrive anche che l’Europa è figura della perdita idealizzata [18]. Un concetto astratto, dunque?

Michele Serra nel discorso alla manifestazione di Roma «Una piazza per l’Europa» ha detto: 

«I nostri veri nemici siamo noi stessi quando dimentichiamo la nostra fortuna. Per quelli che attraversano il Mediterraneo per venire qui, e per quelli che sventolano questa bandiera a Est, l’Europa non è un concetto astratto. È la salvezza. Ricordiamocelo, quando li ricacciamo in mare. E ricordiamocelo, quando pensiamo che la resistenza degli ucraini sia solo una scocciatura che ci impedisce di riposare tranquilli» [19]. 

L’Europa è la fortuna dimenticata da chi la vive quotidianamente, insieme di diritti, possibilità economiche e culturali risultato di lotte e processi complessi. Ma è anche la salvezza, una meta costituita proprio da quei diritti e da quelle possibilità a cui aspirare, occasione di riscatto, opportunità per passare da un No a un Sì.

dei-e-uomini-nella-cittaAlla domanda di Michele Serra «Raccontate qualcosa di europeo» a me viene da rispondere con un auspicio che recupera un’altra storia dal passato. È una storia che ho sentito raccontare da Maurizio Bettini e che più di una volta lui ha inserito nei suoi libri [20], come parte di un’eredità che va assolutamente conservata. La fonte è Plutarco. Si racconta che Romolo e Remo (Romolo 9), per fondare una nuova città, avessero offerto accoglienza – asylum – a tutti, senza distinzione di nascita e provenienza. Dopo la contesa tra fratelli e la morte di Remo, il futuro re, seguendo le indicazioni degli auguri etruschi necessarie alla fondazione, scavò una fossa; dentro vi si gettarono i prodotti della cultura (ciò che è bello secondo i costumi) e i prodotti della natura (ciò che è necessario secondo natura); a questi si aggiunsero zolle di terra dei luoghi di provenienza degli uomini accolti e tutte vennero mescolate. Attorno a questo centro venne tracciato il perimetro della città (Romolo 11).

Qual è il significato di questo racconto? La nuova città è anche una civiltà nuova, che sembra avere alcune basi culturali e economiche ma, nell’atto simbolico del rimescolamento delle zolle, afferma il suo essere fusione di individui dalle origini diverse. In questo modo il mito che narra la nascita della città mette in evidenza l’apertura che contraddistingue la cultura romana nei confronti dello straniero ma dice anche che in essa ogni individuo ha la possibilità di essere se stesso e altro, ha l’identità che gli viene da quella zolla gettata nella fossa, ma ha anche un’identità nuova.

C’è in questo racconto una forza straordinaria che lo rende ancora vitale e utile a rispondere alla domanda che mi sono posta. L’idea di Europa può risiedere proprio nella mescolanza, nella Babele di voci che la popolano – e la popoleranno –, ma senza dimenticare «ciò che è bello secondo i costumi», ovvero i diritti e i valori conquistati, e neppure «ciò che è necessario secondo natura», ovvero ciò che è utile non alla sopravvivenza ma alla dignità della vita. La sua identità dovrebbe essere piuttosto identificazione, risultato di un delicato equilibrio tra famigliare e nuovo, con una continua e interattiva operazione su persone, idee, fenomeni. Perché chi è già «dentro» non si senta escluso e perché chi aspira all’Europa vi si possa sentire a casa.

Un gruppo di miei studenti alcuni anni fa dopo il diploma scelse di andare a Bruxelles. Credevano tutti nella mescolanza e nel plurilinguismo, avevano fiducia negli ideali di pace, nella salvaguardia dei diritti. Bruxelles era per loro un simbolo. Gli attentati del 2016 ebbero su di loro un impatto emotivo fortissimo ma nessuno scelse di tornare. Tra di loro c’era un ragazzo di origine etiope, italiano per adozione. Più tardi ho scoperto che a Bruxelles quel ragazzo ha trovato se stesso, non solo la sua identità europea ma anche la sua «zolla» etiope, una comunità in cui le sue radici possono specchiarsi e ritrovarsi. Ecco, questo per me è qualcosa di europeo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025 
Note
[1]   Tawada Y., Dove comincia l’Europa, in Id., Dove comincia l’Europa e altri scritti, trad.a  cura di. L.Perrone Capano e A. Valtolina, Mimesis, Milano 2021: 6-25.
[2]     Ivi :18.
[3]     Ivi: 21.
[4]    Serra M., Dite qualcosa di europeo, «La Repubblica», 22 febbraio 2021.https://www.repubblica.it/rubriche/l-amaca/2025/02/21/news/l_amaca_del_22_febbraio_2025-424020010/
[5]     Tawada Y., Come dorme l’Europa, in Id. Dove comincia l’Europa e altri scritti, cit.: 32-56, qui :50
[6]     Cardini F., Europa, le radici e la storia, «La Ricerca» n.12, 2017: 10-19, : 11.
[7]     Bhabha H., DissemiNazione: tempo, narrativa e limiti della nazione moderna, in Id. (a cura di), Nazioni e narrazioni, trad. it.a cura di A Perri, Meltemi, Roma 1997: 469-514, qui: 470.
[8]     Derrida J., L’altro capo. Memorie, risposte e responsabilità, in Id., Oggi l’Europa. L’altro capo seguito da La democrazia aggiornata, trad. it.e a cura di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991: 9-67, qui :18.
[9]     Manguel A., Europe: le mythe comme métaphore, Collège de France, 2022, https://doi.org/10.4000/books.cdf.13189.
[10]   Rumiz P., Il filo infinito, Feltrinelli, Milano 2019.
[11]   Id., Canto per Europa, Feltrinelli, Milano 2021.
[12]  Id., Quella notte un naufragio, in Id., Canto per Europa, cit.: 310-319, qui :310.
[13]   Ivi :311.
[14]   Ibidem.
[15]   Id., Canto per Europa, cit. : 168.
[16]   Manguel A., Europe: le mythe comme métaphore, cit.
[17]   Tawada Y., A nessuno si può dire, ma Europa non esiste, in Id. Dove comincia l’Europa e altri scritti, cit.: 26-31, qui :26.
[18]   Ivi :29.
[19]   Serra M., Siamo in tanti perché siamo un popolo. Diversi ma europei, «La Repubblica», 15 marzo 2021. https://www.repubblica.it/politica/dossier/una-piazza-per-l-europa/2025/03/15/news/michele_serra_discorso_manifestazione_europa-424065198/
[20]   Ad esempio Bettini M., Dèi e uomini nella città. Antropologia, religione e cultura nella Roma antica, Roma, Carocci 2015: 22-24; Id., Homo sum. Essere umani nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019, in particolare: 113-125. 
Riferimenti bibliografici
Bettini M., Dèi e uomini nella città. Antropologia, religione e cultura nella Roma antica, Roma, Carocci 2015
Id., Homo sum. Essere umani nel mondo antico, Einaudi, Torino 2019.
Bhabha H., DissemiNazione: tempo, narrativa e limiti della nazione moderna, in Id. (a cura di), Nazioni e narrazioni, trad. it. a cura di A Perri, Meltemi, Roma 1997: 469-514.
Cardini F., Europa, le radici e la storia, «La Ricerca» n.12, 2017: 10-19.
Derrida J., L’altro capo. Memorie, risposte e responsabilità, in Id., Oggi l’Europa. L’altro capo seguito da La democrazia aggiornata, trad. it. e a cura di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991: 9-67.
Manguel A., Europe: le mythe comme métaphore, Collège de France, 2022, https://doi.org/10.4000/books.cdf.13189.
Rumiz P., Il filo infinito, Feltrinelli, Milano 2019.
Id., Canto per Europa, Feltrinelli, Milano, 2021.
Serra M., Dite qualcosa di europeo, «La Repubblica», 22 febbraio 2021. https://www.repubblica.it/rubriche/l-amaca/2025/02/21/news/l_amaca_del_22_febbraio_2025-424020010/
Id., Siamo in tanti perché siamo un popolo. Diversi ma europei, «La Repubblica», 15 marzo 2021. https://www.repubblica.it/politica/dossier/una-piazza-per-l-europa/2025/03/15/news/michele_serra_discorso_manifestazione_europa-424065198/
Tawada Y., Dove comincia l’Europa e altri scritti, trad. it. a cura di L. Perrone Capano e A. Valtolina, Mimesis, Milano 2021.
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Ada Bellanova, insegna lettere nei licei. Dopo essersi occupata della presenza dei classici greci e latini nel moderno e contemporaneo, in particolare nell’opera di J. L. Borges, è approdata da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Si interessa di permanenza del mondo antico nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. 

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