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Dormire nella casa di Dio. Esperienze di incubatio in contesti festivi meridionali
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 01:53 In Cultura,Religioni | No Comments
di Sergio Todesco
«Se le porte della percezione fossero spalancate, ogni cosa apparirebbe come essa in realtà è, infinita» (William Blake, The Marriage of Heaven and Hell)
Il sogno è stato da sempre visto come una delle modalità attraverso cui sperimentare un ampliamento dei canali percettivi. I sogni attingono infatti al coacervo indigesto delle storie e delle esperienze umane, per consentire a chi li fa di gettare scandagli (cauti e confusi, ma preziosi) sul contenuto di tale calderone esistenziale, collettore di tutti i vissuti, materiali e immateriali, dell’animale uomo. Senonché, nel corso della lunga avventura umana si è spesso ritenuto che a rendere possibile e fruttuosa l’esperienza onirica fosse necessario l’apporto di una presenza altra, che in-abitando il sognante gli agevolasse la decrittazione dell’esperienza stessa.
L’ospitalità di uno ‘straniero’ comporta sempre l’adozione di regole, se non si vuol correre il rischio che essa non sortisca l’effetto voluto, ossia la progressiva integrazione di ospitante e ospitato. Anche nelle ‘ospitalità’ da possessione esistono regole, precisamente quelle messe a punto dalla cultura popolare e volte a impedire che l’essere “abitati” da una realtà straniera non si traduca in un indiscriminato deréglèment de tous les sens. Questo deréglèment ha da essere infatti, come ci insegna Arthur Rimbaud, raisonné, deve cioè essere sottoposto a regole culturali che dal fatto individuale della possessione sortiscano un beneficio per l’intera comunità. Le regole impongono che tra posseduto e invasore, tra ospitante e ospitato, si attivino dinamiche di negoziazione attraverso le quali entrambi siano indotti a ridefinire i contorni delle rispettive identità.
Anche gli stati onirici, così come essi venivano percepiti dagli antichi, altro non erano in fondo che possessioni “benigne”, stati passivi di coscienza in grado di dischiudere la possibilità che una presenza altra potesse farsi avanti e, al caso, anche attivare meccanismi di tipo terapeutico. In linea di principio, una visione antropologica moderna lontana dalle tentazioni etnocentriche non può che sforzarsi di studiare, analizzare e interpretare in modo nuovo i problemi delle sindromi di possessione, consapevole della necessità di strumenti interpretativi differenziati, rispettosi delle diverse culture all’interno delle quali il ‘posseduto’ è venuto costruendo la propria narrazione.
Molto tempo prima che Sigmund Freud percepisse il ruolo fondamentale che il sogno ricopre nella storia delle civiltà umane, il mondo classico si era più volte interrogato sulle potenzialità ermeneutiche di tale realtà. Nelle esperienze oniriche dell’antichità quello che maggiormente venne posto in risalto fu la caratteristica potenzialmente presente nei sogni di veicolare modalità di interlocuzione e di influenza tra la sfera profana e quella sacra.
Se potessimo analizzare la sterminata messe di documenti antichi sul sogno, i sogni e il ruolo da essi giocato nel dischiudere determinate esperienze del sacro (da Artemidoro a Pausania a Elio Aristide), ci apparirebbero in tutta la loro povertà gli scarni residui moderni di antichissime tradizioni, quali essi possono ancora essere colti e registrati all’interno delle cosiddette tradizioni popolari. Non a caso il sogno ha stimolato nel XX secolo l’attenzione di un poeta visionario come Jorge Luis Borges che ne ha curato un’antologia (Libro de sueños, 1976), sostenendo che i sogni rappresentano un vero e proprio genere letterario – e addirittura il più antico tra i generi.
In realtà, la concezione del sogno presso le culture primitive, classiche e tradizionali, comprendendo in quest’ultima definizione anche quelle “folkloriche”, è radicalmente diversa da quella invalsa nella moderna società occidentale. Vittorio Lanternari, citando Roger Bastide, notava come «nelle società tradizionali il sogno esercita una funzione utile rispetto alla vita culturale, secondo norme dettate dalla tradizione, mentre nella nostra società la porta di comunicazione del sogno con la veglia è chiusa, a parte poche eccezioni individuali».
Nelle culture popolari del Meridione è tuttora radicata un’ideologia non dissimile. Come hanno ampiamente dimostrato Luigi M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana, il sogno per i ceti subalterni meridionali rimane un dispositivo di messa in comunicazione tra due mondi, quello terreno e quello ultraterreno, popolato tanto dai morti quanto dalle divinità. L’incubatio è una pratica rientrante nella sfera magico-religiosa che consiste nel ricercare in sonno un contatto diretto con la divinità all’interno di un’area sacra, allo scopo di sperimentare in sogno rivelazioni sul futuro attraverso un oracolo, ricevere suggerimenti terapeutici per guarire dai propri mali o addirittura di beneficiare in sogno di azioni dirette di guarigione da parte del dio.
Rituali di incubazione non sono attestati solo nel mondo greco-latino, forse fin da epoca minoica, ma anche in Egitto (almeno dal XV secolo a.C., ci dice Dodds) nei santuari dedicati a Iside e Serapide, e si conoscono già nelle culture sumerica e giudaica (basti pensare ad es. al biblico sogno di Giacobbe, Genesi 28, 10-17). Come conferma Angelo Brelich, «bisogna notare che l’oniromanzia e i riti d’incubazione erano praticati in tutta la regione del Mediterraneo in un’epoca di gran lunga anteriore alla formazione della civiltà greca, la quale li ha ereditati inevitabilmente».
Nel mondo classico questa particolare ritualità onirica richiedeva che un sognatore scendesse in un luogo sacro sotterraneo (ádyton, ábaton, enkoimētérion), si ponesse a dormire su un giaciglio in attesa della ierofania che gli si sarebbe presentata in sogno. Una volta desto, se il sogno non produceva un immediato effetto terapeutico o la visione non era facilmente decrittabile, non rimaneva che recarsi da uno dei sacerdoti interpreti dei sogni presenti all’interno del santuario per apprendere da questi il senso del sogno fatto o della visione avuta.
Nell’antica Grecia, l’incubatio veniva praticata soprattutto dai fedeli del culto tributato ad Asclepio (il latino Esculapio), e le offerte votive ritrovate nei luoghi di culto a Epidauro, Atene, Pergamo e Roma, nell’Isola Tiberina, attestano l’efficacia attribuita al rito. Entrati nel santuario, considerato una sorta di ospedale sacro, i devoti si sottoponevano a un triduo di riti preparatori attraverso lavacri e digiuni, astensioni dal sesso etc. Una volta purificati, essi potevano accedere alla parte sacra (ábaton) nella quale si stendevano ponendosi a dormire su una pietra o sulla pelle dell’animale in precedenza sacrificato, e attendevano l’insorgere del sonno, e del sogno che, all’occorrenza interpretato dai sacerdoti del tempio, forniva loro utili indicazioni sulla terapia da praticare per ottenere la guarigione.
In quel singolare “diario di un’anima” costituito dai Discorsi Sacri di Elio Aristide (II sec. d.C.), la malattia oscura da cui il retore si trova affetto si dipana attraverso un pluriennale rapporto onirico con il dio Asclepio, le cui prescrizioni terapeutiche trovano nel paziente stesso il loro più ortodosso e fedele esegeta. In questa storia esemplare di una guarigione sempre ricercata e sempre differita, Asclepio si afferma, piuttosto che come dio che guarisce, come potenza che trasmette, attraverso i suoi messaggi onirici, una pedagogia del convivere col male venendo a patti con esso. Nella storia di Elio Aristide la reiterazione della dialettica malattia-guarigione viene in tal modo vissuta alla stregua di un’esperienza privilegiata. La guarigione pertanto non è mai definitiva ma si presenta come fase altalenante di una prassi negoziatoria tra il Nume e il paziente, per il quale il morbo da cui è affetto diviene il segno di una divine election di stampo sciamanico.
È plausibile che il senso della pratica incubatoria sia da ricondurre alla credenza che la dynamis terapeutica provenga da un contatto prolungato con il suolo, con la terra, a condizione naturalmente che il luogo sia percepito come caricato di sacralità. Depone a favore di tale ipotesi il fatto che tutte le divinità preposte ai rituali di incubazione abbiano avuto in origine una natura sostanzialmente ctonia.
Il culto di Asclepio si affermò storicamente in un periodo di crisi del pantheon classico e degli antichi dei della polis, con l’avvento di nuove entità numinose piuttosto indirizzate a fornire risposte e rassicurazioni alle angosce dell’uomo in un’età di transizione come quella ellenistica. La pratica, al pari di altre forme rituali del mondo antico, venne assorbita e riplasmata dal Cristianesimo, fu connessa al culto dei martiri e divenne frequente nella devozione ai Santi Medici Cosma e Damiano, particolarmente diffuso in Puglia (Bitonto) e in Calabria (Riace). Secondo la tradizione, i malati si recavano nella Basilica esistente a Costantinopoli dedicata ai due santi per chiedere la guarigione dei propri mali, e a tale scopo praticavano il rito dell’incubatio, consistente nell’addormentarsi in chiesa; durante il sonno i Santi Medici apparivano miracolosamente in loro aiuto, prendendosi in vario modo cura delle loro patologie, ad esempio attraverso applicazioni di impacchi composti con olio e cera o suggerendo in sogno le cure direttamente al malato, e a volte praticando addirittura veri e propri interventi chirurgici, i cui segni risultavano al fedele visibili direttamente sul corpo al suo risveglio.
Tra le infinite storie che si dipanano in alcune pareti della chiesa di Santa Maria Antiqua nel Foro Romano, notevoli quelle di Cosma e Damiano e di Ciro e Giovanni, i santi guaritori, replicati nella fascia bassa della cappella a destra del presbiterio, in modo che i malati sdraiati su un lettuccio potessero osservarli da vicino. Si praticava infatti, davanti a queste immagini, il rito dell’incubatio. A Roma ne offre un esempio l’ospedale dell’Isola Tiberina, che già nel 289 a. C. accoglieva i malati per disporli intorno alla statua di Esculapio. Di notte, i malati dormienti ricevevano la visita del dio che indicava a ciascuno la terapia da seguire, oppure guariva lui stesso le parti sofferenti.
Rimanendo in ambito cristiano, esistono numerosi libri di miracoli, attribuiti – oltre che ai due santi medici, attivi a Costantinopoli – anche a san Ciro e san Giovanni (operanti in Egitto), a sant’Artemio (presente anche lui a Costantinopoli), a santa Tecla (attiva a Selèucia), nei quali il contesto in cui avvengono le guarigioni è quasi sempre di tipo incubatorio. In realtà, la credenza nella realtà delle apparizioni oniriche non venne sempre vista con favore dalla Chiesa, che in esse scorgeva un possibile rischio di tipo magico. In alcuni Confessionali, manuali ad uso dei confessori stilati in ambito francescano nel XIII secolo, tra le domande frequentemente rivolte al penitente sono presenti anche quelle indirizzate a verificare l’essersi questi abbandonato alla pratica oniromantica (“Si dasti fidi a li indivini, incantaturi, sortilegi, sonni et visioni”; “Hai datu fidi a sonni?” etc.).
È tuttavia dimostrabile una continuità nella pratica dell’incubatio protrattasi lungo tutto il Medioevo fino all’età moderna e ai giorni nostri, in cui essa sopravvive pressoché esclusivamente in alcune enclaves folkloriche. In qualche modo la dimensione onirico-terapeutica trovò ad esempio una sua ulteriore forma di riplasmazione in Puglia, trasformandosi nel culto di San Paolo visto come figura numinosa di riferimento all’interno del complesso mitico-rituale del tarantismo. In analogia al suo antecedente classico, anche nella chiamata in qualche modo iniziatica dei tarantati giocano di frequente un ruolo centrale il sogno e le comunicazioni da parte del Santo in un contesto onirico. È infatti durante lo stato di ebetudine stuporosa della tarantata che San Paolo interviene per esercitare la sua potenza guaritrice.
Sempre nella religiosità popolare pugliese i fenomeni di visionarismo carismatico presenti nella cultura contadina, indagati negli anni ’70 da Miriam Castiglione, presentano forti relazioni con la dimensione onirica, quasi sempre connessa alla nascita di culti extraliturgici, pratiche terapeutiche, fondazione di “santuari”.
Nel folklore del Mezzogiorno d’Italia occorre infatti mettere in luce il singolare rapporto che lega la dimensione del sogno all’origine dei santuari. In molte leggende l’edificazione di un santuario viene suggerita o più spesso disposta dalla divinità nel corso di un sogno. I casi studiati da Castiglione, ma anche quello del culto extraliturgico tributato al Beato Alberto, studiato da Annabella Rossi e in seguito da Michele Risso e Luigi M. Lombardi Satriani, e quello molto più “ortodosso” riguardante Natuzza Evolo, oggetto di ampi studi da parte dello stesso Lombardi Satriani, mostrano come l’elemento onirico abbia svolto un ruolo fondamentale nella individuazione di nuovi spazi sacri. Appare come se il santuario, alla cui origine sta un sogno rivelatore della necessità che si metta mano a un luogo sacro, divenisse esso stesso uno spazio in qualche misura dedicato a sogni speciali che pongono i fedeli in comunicazione con il Nume.
Nella cultura popolare la pratica si è attestata – in particolar modo nel corso dei pellegrinaggi ai santuari luoghi di culti liturgici o extraliturgici – quale dispositivo che consente al fedele di entrare in rapporto con la divinità. La discesa nel luogo “interno” o “inaccessibile” del mondo antico viene qui sostituita dal porsi a giaciglio in posizione quanto più vicina all’altare o in prossimità dell’ostensione di reliquie (ad sanctos). Ma anche episodi di sonno consumati durante il tragitto vengono spesso considerati preparatori all’esperienza dell’incontro col santo.
Tanto nella sua versione antica quanto in quella folklorica moderna una fase successiva del rituale è costituita dalla resa di grazie, anche qui con una sostanziale continuità tanto nella forma (le pìnakes votive sono diventate gli ex voto pittorici, mentre sono rimasti identici gli ex voto plastici, riproducenti parti del corpo) quanto nella struttura (le dinamiche votive connesse all’affidamento e alla successiva estinzione del debito contratto con il Nume).
Nella provincia di Messina l’incubatio risulta essere stata (ed essere sporadicamente) praticata in alcuni santuari popolari, quali quelli liturgici di San Calogero a San Salvatore di Fitalia e del Letto Santo a S. Stefano di Camastra, e quello extraliturgico dell’Acqua Santa o delle Tre Verginelle, nell’areale tra Tortorici e Randazzo, tutti mete di imponenti flussi di pellegrini nei mesi tra luglio e settembre. I fotografi Attilio Russo, Mario D’Alfonso e Giuseppe Muccio ne hanno altresì documentato la sporadica presenza in altre feste siciliane, a Petralia Sottana nel versante occidentale dell’Isola e a Trecastagni in quello orientale. L’uso è viceversa ancora massicciamente diffuso in alcuni santuari calabresi, in particolare a Riace, sede di un culto tributato ai Santi Medici Cosma e Damiano, come si è visto principali figure sacrali subentrate in era cristiana a Esculapio, e a Polsi. In quest’ultima località dell’Aspromonte si registra – in alcuni giorni a cavallo tra agosto e settembre di ogni anno – la presenza di alcune migliaia di pellegrini che là convergono per rendere omaggio alla Madonna della Montagna.
Due indagini sul campo quivi condotte a distanza di venticinque anni (1986, 2011) mi hanno consentito di verificare la persistenza del rituale d’incubatio già registrata da Annabella Rossi negli anni ’60. Durante le ore notturne decine di pellegrini si stendono per terra e rimangono a dormire, all’interno del piccolo santuario il cui pavimento si trasforma così in un vero e proprio strato di corpi che giacciono inanimati l’uno accanto all’altro. La credenza comunemente manifestata dai pellegrini è che durante il sonno la Madonna della Montagna possa intervenire a sanare le ferite, fisiche o interiori, e che in ogni caso il “sonno sacro” possa produrre nel fedele che gli si abbandona un equilibrio atto a rendergli più sopportabile l’esistenza ordinaria, una volta rientrato nel tempo profano e nella vita di ogni giorno.
Queste forme oggi appaiono ormai poco più che dei cascami folklorici, dato che nel corso del XX secolo, com’è noto, si è registrata la progressiva marginalizzazione e medicalizzazione delle patologie attraverso l’impiego di categorie nosologiche culte applicate in modo meccanico ad affezioni culturalmente condizionate, non riconducibili a quelle già note e codificate.
Va inoltre rilevato come anche i rituali di più marcata valenza terapeutica, dei quali gli studi di Elsa Guggino ci hanno consegnato delle tipologie esemplari, rivelino una sostanziale omogeneità tra chi è affetto da patologia della psiche e chi è deputato alla sua cura, partecipando entrambi dei medesimi orizzonti ideologici e simbolici. Poco importa che in questo caso il soggetto guaritore sia costituito da una realtà numinosa; il sapere terapeutico viene infatti esercitato con lo scarto esistenziale dovuto a entità tra loro incommensurabili, una delle quali vanta un potere esercitato con la medesima discrezionalità che Pietro Clemente individuava come elemento fondante nelle dinamiche votive, all’interno di un quadro complessivo di codici culturali condivisi. Rispetto all’incubatio praticata nell’antichità, in cui la vicenda terapeutica rimaneva confinata alla sfera individuale risolvendosi in un rapporto onirico del fedele con la divinità guaritrice, nel caso dei rituali odierni la pratica appare vissuta collettivamente, mostrando con ancora maggiore evidenza l’attitudine dei ceti subalterni a presentarsi come un unico corpo malato in cerca di riscatto.
Passando a una dimensione meno socializzata ma altrettanto significativa, un caso singolare e per certi versi esemplare di episodio onirico divenuto occasione di mutamento esistenziale, che in questa sede interessa per il peculiare ruolo giocato dal sogno, è quello offerto dall’artista popolare Giacomo Principato di Capizzi. Costui, in gioventù pastore, essendosi ritenuto guarito da una grave malattia per opera di San Giacomo, patrono del suo paese, apparsogli in sogno durante la perdita di coscienza successiva a una caduta per testimoniargli il suo intervento curativo, ha iniziato da quel momento a costruire, in stile naif ma con indubbia efficacia espressiva, fercoli lignei (varette) di San Giacomo e statue del Santo di piccole, medie e grandi dimensioni: oggetti devozionali dei quali egli non fa commercio, limitandosi a produrne sempre di nuovi in una sorta di coazione a ripetere l’atto votivo, sperimentando tutte le configurazioni iconografiche che la tradizione figurativa del santo e il suo personale “stile etnico” gli consentono.
Il sogno, in questo caso, costituisce il mezzo attraverso il quale tale dinamica maieutica ha potuto aver luogo. È indubbio, stando tanto all’osservazione diretta del contesto in cui vive e opera l’artista quanto a ciò che risulta dalle sue spiegazioni alla richiesta dei motivi che lo hanno indotto a praticare una tanto singolare resa di grazie, che la figura di San Giacomo abbia sempre ricoperto un ruolo centrale nell’orizzonte esistenziale del sognante.
Un brano di Leonardo Sciascia, acuto come di consueto, ci descrive bene la realtà del sogno, che si rivela essere una girandola vorticosa di immagini pescate dal grande magma dell’inconscio, le quali solo a posteriori – nel ricordo da svegli – vengono “ordinate”, restaurate come scrive Sciascia, messe in sequenza a formare una narrazione compiuta di eventi, ancorché oniricamente vaga e non definita nei particolari, correlando situazioni e personaggi nella realtà irrelati e disgiunti:
Il sogno nelle culture classiche e tradizionali è viceversa, come bene ci dimostra il rituale dell’incubatio, già strutturato secondo uno schema prestabilito. Al malato/fedele che si pone a dormire in attesa del sogno guaritore non viene dato di articolare in libertà le modalità della propria guarigione, ma solo di incanalarle per entro uno schema epifanico in cui tutto è già stato deciso. In esso risultano dunque culturalmente condizionate non solo le immagini che lo compongono ma anche e soprattutto la struttura che ne disciplina lo svolgimento.
La pratica incubatoria presso le forme di religiosità popolare qui menzionate mettono in moto meccanismi psicologici analoghi a quelli verificabili nelle ritualità votive, che proprio nei luoghi di culto cui si è accennato sono compresenti, costituendo dei processi di terapia teurgica l’aspetto contrattuale, come rivela l’analisi di Clemente cui si è fatto cenno.
Volendo avviare una conclusione, mi pare opportuno richiamare quanto espresso oltre mezzo secolo fa da Ernesto de Martino, che rilevava (ci ricorda Clara Gallini nella nota introduttiva al volume da lei curato pubblicato dopo la sua morte) come uno dei caratteri fondamentali della cultura occidentale fosse quello di avere riconosciuto il primato dello stato di veglia sullo stato di sogno e, di conseguenza, aver sottratto alla condizione onirica qualunque carattere “fondativo” di cultura. Se il sogno e le pratiche mistiche ad esso connesse hanno registrato, come si è visto, in ogni tempo e sotto ogni latitudine significativi investimenti di senso, è pur vero che una civiltà non possa basarsi sulla condizione onirica, ma fondarsi sullo stato di veglia, una condizione in cui gli uomini possano comunicare a viso aperto tra loro e declinare – alla luce del sole e senza l’adozione di formule oscure bisognevoli d’interpretazione – le proprie modalità di stare nella storia.
(Postilla pro bono veritatis)
Nella notte tra l’1 e il 2 settembre 2011 due ore di sonno sulla nuda pietra dinanzi l’altare a Polsi hanno fatto sparire (purtroppo per soli tre mesi) un mal di schiena che mi affliggeva da anni…….
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