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Documentare il presente storico. Dordolla e il film “The New Wild. Vita nelle terre abbandonate”
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2018 @ 00:02 In Cultura,Società | No Comments
di Costanza Travaglini
Christopher Thomson, a Dordolla, è arrivato per caso. Da Londra, circa sette anni fa. Tra Christopher e Dordolla è nata una relazione forte, tanto forte da generare una serie di riflessioni, anche grafiche, due libri di fotografie e il recentissimo film The New Wild. Vita nelle terre abbandonate [1]. Thomson di sé preferisce dire che scrive, fa film, fotografa, piuttosto che definirsi “scrittore”, “regista”, “fotografo”. Al di là dell’apparire. Ma è impossibile non presentarlo come un artista, a tutto tondo [2].
In questo momento si sta ponendo molte domande sulle reazione del pubblico al suo film: «Le persone che vedono il mio film non si alzano alla fine, non vanno via, come succede di solito, ma rimangono fermi, seduti, in attesa, come in stato di shock. Io parlo, alla fine del film, e solo un po’ alla volta vedo apparire i loro sorrisi». Vanno in tanti a vedere questo film, e tutto si basa sul passaparola; le sale si riempiono, in Friuli Venezia Giulia, come a Napoli o a Sofia, in Bulgaria. Come spiegare un simile fenomeno, che ha molto della spontaneità degli eventi sinceri? Una vena di grande novità percorre il Friuli Venezia Giulia, intorno a questo titolo, molto significativo. Il film non tratta solo delle terre abbandonate, ma di un “nuovo” ambiente naturale, un altro mondo [3], quello che, anche se si sta riprendendo luoghi un tempo antropizzati, reca dentro di sé la traccia dell’agire umano. In gioco ci sono le stesse idee di natura, cultura, ambiente, storia, futuro.
Dordolla è una frazione di Moggio Udinese, paese montano del Friuli Venezia Giulia. Per chi viene dalla pianura, il paese di Moggio, sorto intorno alla sua Abbazia di San Gallo, fondata nel sec. XI e ricostruita dopo il terremoto del 1976, è la porta ben visibile della Valcanale (o Canal del Ferro), la valle che conduce, tra montagne aguzze e severe, direttamente ai due valichi con l’Austria e con la Slovenia, vicini tra loro, in questo angolo nord-orientale d’Italia. Dordolla è un piccolo ma stupefacente borgo della Val Aupa, nelle Alpi Carniche, a 612 metri di quota, luogo di confine geografico, geologico, culturale, linguistico. Thomson lo ha chiamato “il luogo in mezzo”, nel primo libro di fotografie che ha dedicato ai suoi abitanti, i Dordollesi [4]. Di Dordolla è davvero particolare la sua posizione nel paesaggio, col suo fronteggiare l’imponente Creta Grauzaria, con la bellezza e varietà dei suoi microclimi, delle sue frazioni e dei vari punti del suo territorio, collegati ai diversi toponimi, ai quali Christopher Thomson si è ispirato per una delle sue realizzazioni grafiche, nella convinzione che, con le sue parole, «sono luoghi umani solo perché è stato dato loro un nome»: Dordolla Metro è una deliziosa e ironica riflessione sulla difficoltà di spostamenti rapidi e facili nella zona.
Si fanno risalire le origini di Dordolla al XV secolo, nel periodo in cui alcuni gruppi familiari di Moggio o della Valcanale, probabilmente per sfuggire alle invasioni turche, fondarono molti insediamenti in Val Aupa. Dordolla divenne poi insediamento stabile nel sec. XVI, e intorno alla metà del sec. XIX, ancora sotto l’Austria, contava circa 250 abitanti (una quarantina di famiglie). Nel 1866 Dordolla passò all’Italia e nel 1905 ebbe la sua scuola, ma l’inizio della Prima guerra mondiale rese la vallata una zona militare, con la conseguente costruzione di tutto ciò che un esercito e la tecnica della guerra di allora portavano con sé. Tre terremoti del sec. XX distrussero molte delle case della valle, anche tra quelle di Dordolla, ma è rimasto vivo l’aspetto antico dei borghi. Si può dire che tra le due guerre il numero degli abitanti di Dordolla e della valle rimase pressoché costante (circa 350 a Dordolla, comprese le frazioni), per ridursi sempre più a partire dall’ultimo dopoguerra e giungere ora a una cinquantina di residenti.
Il poeta Pierluigi Cappello in Questa libertà [5], racconta, dal punto di vista di un bambino, la velocissima transizione che la sua montagna, la sua Chiusaforte (in Valcanale), visse negli anni ’70, a causa di quello che è stato chiamato sviluppo. È stato ed è senz’altro un processo a livello europeo e addirittura mondiale. Così recita all’inizio il bellissimo testo del film The New Wild: «Cento anni fa una persona su cinque viveva nelle città. Oggi più della metà. In Europa quattro persone su cinque vivono ora in città: l’esodo dalla campagna è quasi completo» [6].
In Friuli tuttavia il cambiamento si presentò in modo traumatico, a causa della faglia [7] del terremoto del 1976. Cappello lo ha ripetuto molte volte: nel giro di un paio d’anni, giusto il tempo del ritorno degli sfollati a Chiusaforte, la «postura esistenziale radicata nei millenni» della valle dovette scrollarsi dalle sue radici, perdere identità, visibilità e valore. «Nel ’78 si cominciò a costruire l’autostrada che ha tagliato fuori tutta la vallata», affermava spesso Cappello, riprendendo questa ed altre evidenze, presenti anche nelle sue liriche, che simboleggiano con chiarezza una cesura. Dalla fine di quel decennio, il vivere in montagna, l’essere di montagna, l’andare in montagna non furono più quelli.
<…>
Non rimarremo qui senza uno scopo,
qualcuno dà per certa la presenza dell’orso
viene da est, e, come gli abeti, pare si avvicini sempre di più
a queste poche case. Invece non c’è chi non veda
come l’autostrada ha tagliato la pancia alla valle
e la gola di chi è rimasto;
<…>
non si rimane qui senza uno scopo
se la montagna frana, la mia faccia frana un poco al giorno
se il fiume si dissecca, il mio cuore è pronto a disseccare
se l’autostrada mette ombra all’ombra della valle
ne trovi il taglio qui, poco sotto l’ombelico
com’è vero che il cerchio si aggiunge al cerchio nel mutarsi
del tronco [8] <…>
L’autostrada di cui parla Cappello – il paesaggio costruito dall’uomo – passa anche vicinissima a Moggio, ma lo taglia fuori, ed è presente in più momenti del film di Thomson, come contraltare del “vecchio wild” – il paesaggio “incontaminato”, che non esiste più. Secondo Franco Brevini, addirittura, «…come aveva intuito già Thoreau, il selvaggio sta dentro di noi, è un sogno che ci portiamo dentro, è un mito del nostro universo. Detto in termini kantiani: è una categoria che appartiene più al soggetto che all’oggetto» [9]. In ogni caso, tra questi mondi opposti, tra “old wild” e mondo antropizzato ecco presentarsi un altro mondo: i luoghi abbandonati, lasciati al margine, che la natura si riprende, anche piuttosto velocemente.
Quella che stiamo vivendo è una nuova rivoluzione culturale, la più grande da quando l’essere umano ha abbandonato la foresta per lavorare i campi: ora l’uomo li abbandona per le città. Così continua il testo del film, mentre lo spettatore entra pian piano in uno stato di flusso indotto dalle immagini potenti e raffinate, ma anche dalla voce narrante e dal raffinatissimo sound design, che tra l’altro utilizza e seleziona frequenze e vibrazioni dei suoni registrati dal vivo.
Il comprensibile desiderio di una vita migliore ha spinto da sempre e spinge tuttora, in tutto il mondo, intere famiglie a migrare verso i luoghi urbanizzati. Nella prima parte del film però, Thomson punta il dito su una povertà diversa da quella materiale: la povertà culturale, quella che, per lo più inconsapevolmente, porterà alla perdita della memoria dei piccoli luoghi abbandonati e, a quel punto, scomparsi nel nuovo wild. Ogni villaggio è una lingua [10]: ogni paese è unico, come ogni persona lo è, perché ogni vivente risponde in modo necessariamente irripetibile alla casuale compresenza di elementi caratteristici del suo luogo e del suo tempo. Le case abbandonate della Val Aupa, le rovine, gli scarti, i resti dell’agire umano, anche quelli della guerra, sono parte di questa trasformazione in qualcos’altro, qualcosa che lo spettatore sente più vitale e permanente di altri resti soggetti ad un decadimento non rinnovabile. Antonella Tarpino distingue tra maceria – «traccia inerte del passato» – e rovine, che del passato sono ancora in grado di dirci qualcosa [11].
D’altra parte, Helena Norberg-Hodge, fondatrice e presidente di “Local Futures” [12], considerata una delle più importanti ambientaliste al mondo, nel suo libro e nel suo film-documentario [13] invita a guardare al passato, anche lontano, per creare il futuro, in modo da eliminare le strane storture di un pianeta dove, per esempio, le mele inglesi fanno un viaggio in Africa per essere ricoperte di cera, per poi tornare a “casa” nel Regno Unito. Questo è secondo Helena Norberg-Hodge la globalizzazione: una de-regolamentazione a livello locale dei vincoli che, se mantenuti, impedirebbero alle grandi multinazionali di espandersi. Non è un caso che il suo punto di riferimento positivo, il modello per una possibile “economia della felicità” sia un popolo di montagna: la Norberg-Hodge ha passato lunghi periodi in Ladack, regione posta sotto il Karakorum, quindi conosce molto bene questo popolo, la sua lingua, la sua cultura e il suo modo di vivere, fortemente connesso con i ritmi della natura e dell’uomo. Anche per la Norberg-Hodge c’è al mondo una povertà che non è solo materiale, ma culturale: quella che viene indotta dal desiderio dei beni di consumo, non necessari.
In base ad evidenze psichiche e neurologiche, Daniel Goleman [14] ritiene che gli esseri umani siano «programmati per connettersi», non per isolarsi, e che lo facciano attraverso le loro istintuali e naturali capacità empatiche, che sembra siano fortemente collegabili ai neuroni specchio con cui essi apprendono. È ancora Goleman ad affermare che, a differenza di alcuni popoli del pianeta, come quello tibetano, la civiltà occidentale ha perso il contatto con quella saggezza che permette di utilizzare al meglio le risorse della natura, anche in condizioni sfavorevoli: l’intelligenza ecologica comporta invece la capacità di adeguarsi all’ambiente, comprendendo come funzionano gli oggetti che lo caratterizzano e la natura, nelle sue interconnessioni diversissime e nella sua dinamicità, e rispettando tutto questo. «L’intelligenza ecologica fonde queste abilità cognitive con un’empatia per la vita nella sua totalità» [15].
Antonio Massarutto [16] associa al paesaggio alpino il concetto di “capitale critico”, avvicinandolo a quello di “capitale naturale”, che pone problemi di sostenibilità proprio quando diventa “critico”, cioè «indispensabile e non sostituibile», irrinunciabile dal punto di vista della collettività, in quanto produce “valore”. Per Massarutto il paesaggio è il “carburante” del modello di sviluppo della società locale, ed è «luogo di mediazione e di incontro tra le comunità umane e l’insieme delle risorse ambientali». Si passa quindi al concetto di “paesaggio culturale”, che non contiene solo fattori estetici o affettivi, ma implica dimensioni sociali, produttive, architettoniche, e potremmo aggiungere “rituali”, per concludere in una parola: “antropologiche”[17].
Pierpaolo Viazzo, dell’Università di Torino, partecipando al Convegno di Torino del 2011 Quale futuro per le Alpi a vent’anni dalla Convenzione? [18], rifletteva sulle trasformazioni della cultura montana negli ultimi decenni e le collegava ai cambiamenti demografici, che hanno portato in Italia senz’altro allo spopolamento che è sotto gli occhi di tutti, ma in modo molto disomogeneo e differenziato nel tempo e nello spazio, in relazione ai cambiamenti economici, alle emigrazioni, all’inurbamento, ma anche alle immigrazioni e ai nuovi tentativi di ripopolamento. La domanda che si pone è interessante anche per chi vive la montagna da “residente novizio” o da “turista”: può la cultura tradizionale essere portata avanti anche da chi si inserisce ora nel tessuto sociale e ambientale della montagna? È questa poi la domanda che è stata posta esplicitamente dagli organizzatori del Convegno di Agordo del 2011 [19]. Viazzo, nel suo intervento, cita ampiamente uno studio sui rituali della Carnia di Gianpaolo Gri [20]. Al di là dei cambiamenti demografici che conducono ad un inserimento di “attori” nuovi all’interno dei riti tradizionali, è molto interessante l’approccio metodologico di Gri: qui i ricercatori, se pur coordinati dallo sguardo esterno dell’antropologo, sono gli stessi attori, cioè parte degli abitanti delle comunità che si fanno continuatrici dei riti tradizionali, come i vari riti carnici che pongono al centro del rituale il significato profondo e archetipale del fuoco (come quello de las cidulas). Sono i giovani a interrogare altre persone e se stessi su queste usanze, rendendosi così “attori” del rituale, non solo attivi, ma consapevoli, nella direzione di un ri-abitare la montagna, in senso non solo residenziale, ma complesso, sistemico, culturale e quindi senza il senso di minorità, di vergogna, o quanto meno di rassegnato fatalismo che animava e in parte anima i “vecchi” montanari. Gri sottolinea fortemente questa differenza di approccio: secondo lui la tradizione, come quella carnica de las cidulas non servirebbe a nulla se non fosse lanciata verso il futuro: «cidulas, cidulârs e cidularias si sono trasformati in uno degli emblemi della voglia delle comunità di montagna ad esserci, a restare protagoniste anche contro le evidenze» [21], nonostante lo spopolamento, ponendo in essere nei diversi rituali tradizionali attori diversi da quelli canonici, purché la comunità si ritrovi, consapevolmente e in modo svincolato dagli utilizzi turistici, intorno al fuoco del passato. La comunità si nutre anche di cultura, ma di quella che sa produrre da se stessa.
Thomson ha detto di sé: «Ho elaborato il tema pubblicando libri, fotografie, mappe e a Dordolla, assieme agli abitanti, ho lanciato vari eventi culturali come Harvest: un festival internazionale di arte, agricoltura e comunità. Ora, dopo The New Wild, sto lavorando a The Postman Project: cercherò di creare nuovi rapporti tra piccoli luoghi d’Europa per mettere in circolo storie di innovazione e resilienza» [22].
Il termine “resilienza”, originariamente utilizzato per indicare la capacità di un materiale di resistere a un colpo, ha da qualche anno acquistato un’estensione di significato che include anche l’umano e la sua vita, sociale, economica e culturale, interessando quindi anche l’ambiente, che spesso chiamiamo “natura”, e di cui l’essere umano fa parte, naturalmente. L’essere umano è però anche Coscienza: solo se rispetta profondamente questa completezza, rispetta se stesso e l’alterità sua, trovando in sé quelle risonanze che gli permettono di percepire, agire, sentire con maggiori levità, agilità e delicatezza, come fanno gli animali, in particolare quelli dei boschi, se li lasciamo vivere indisturbati. Gregory Bateson [23] afferma che l’unità fondamentale dell’evoluzione non sono l’organismo o la specie, ma l’organismo-più-l’ambiente, vale a dire il sistema Mente.
Credo che per “resilienza” si debba attualmente intendere la capacità di far rimbalzare un colpo ricevuto, dove il verbo “fare” rende pienamente attivo il significato della parola, che originariamente (resilire, in latino) significa rimbalzare. Da oggetto di un’azione esterna (il pallone che rimbalza, resistendo così al colpo ricevuto) il resiliente si fa soggetto: ad esempio, nel nostro caso, una comunità, un borgo che, ricevuto il colpo, con una consapevolezza di tipo sistemico e quindi complessa, tenta, quanto meno, di allontanare da sé gli effetti negativi del colpo stesso, dell’evento, dell’accaduto. Per “colpo” qui non si intende semplicemente l’evento che si presenta in un tempo rapido, ma particolarmente il tempo della sua realizzazione alla coscienza, che sola permette la piena assunzione di responsabilità e di azione attiva.
Nel caso dell’abbandono dei borghi, soprattutto dei borghi di montagna, il tempo della assunzione alla consapevolezza degli effetti negativi del loro abbandono e di quello della montagna è relativamente recente e purtroppo, in quanto già tardiva, tale presa di coscienza è ancora in corso e proviene più dal basso, dalle comunità stesse, che da un interesse di tipo politico. Tra l’altro, ad essere abbandonata non è solo la montagna, ma un tipo di lavoro agricolo che non contribuisce, come altre attività umane, al degrado dell’ambiente.
Il “colpo” a cui ci si riferisce è certo stato inizialmente provocato dai cambiamenti economici avviati fin dall’inizio dell’età moderna che sono stati chiamati “rivoluzione industriale”, tuttavia qui si intende, con Pier Paolo Pasolini, come “mutazione antropologica”, effetto culturale del neocapitalismo, sviluppatosi soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. È stato un colpo prima di tutto economico, ma con strumenti ed effetti di tipo culturale, che sono stati chiamati “società di massa” e dallo stesso Pasolini definiti come “omologazione culturale”, la quale, secondo lui, comporta un degrado della cultura borghese e l’annullamento della cultura popolare [24].
È ormai evidente che i problemi ambientali non trovano la loro triste alimentazione solo nei luoghi decisionali, quelli del potere economico-politico, che ora sembra aver assunto il compito di controllare, a livello globale, per l’appunto, il mondo delle idee dei cosiddetti consumatori, governandone le scelte con offerte di stile di vita comoda, facile, per tutti. E questo è “culturale”, queste sono le più o meno consapevoli aspirazioni dei più giovani. Lavorare la terra, spaccare la legna, cucinare sano costa fatica, costa quel tempo che vediamo molte persone dedicare così tanto ai social, alla palestra, alla televisione. O a lavorare di più, rinunciando, forzosamente questa volta, al tempo libero, a quel tempo che negli anni ’60 e ‘70 lo sviluppo tecnologico sembrava garantire, nutrendo tante speranze di evoluzione positiva del vivere quotidiano, a partire da migliori condizioni di lavoro. Invece si potrebbe considerare il tempo della fatica come un tempo sano, che ora si può colorare di un senso di rivalsa, addirittura di un paradossale senso di libertà [25], anche se richiede di riprendere in mano strumenti del lavoro che, proprio a partire dagli anni ’70, sono finiti nei musei e che necessitano di allenamento fisico e di competenze diversi da quelle che il sistema educativo e sociale offrono e promuovono.
Certamente la collocazione in museo degli oggetti e degli strumenti del lavoro, nonché dei documenti delle tradizioni contadine che andavano scomparendo è stata allora un’operazione necessaria, accompagnata da una riflessione profonda, che ha lasciato le sue tracce sul concetto stesso di “documento”. Il contributo di Alberto Cirese è stato fondamentale, in proposito, fondato com’è sulla distinzione tra funzione d’uso e funzione documentaria di un oggetto, in particolare se musealizzato, e quindi bloccato nella vita per cui era stato prodotto, ma non impedito a un altro tipo di vita, secondo Cirese, quella della comunicazione e della memoria, che può essere tuttavia fruttuosa solo se il museo si esprime nelle forme comunicative che gli sono proprie, vale a dire metalinguistiche, «senza fingere infantilmente di essere quel che non sono, e cioè la vita di cui sono musei» [26]. Occorre dire che questo non è sempre accaduto, probabilmente anche a causa di quella che lo stesso Cirese chiama «una sia pur nobile nostalgia», che è «il volgersi con desiderio e rimpianto, magari anche presentati come progressismo, a condizioni e modi di vita ormai irrimediabilmente perduti e infranti quali sono appunto quelli del mondo contadino tradizionale»[27].
Il concetto di “rappresentazione documentaria” è pure interessante, in questo contributo, in quanto riguarda lo stesso genere del film documentario, qui tanto centrale. Anche la rappresentazione, infatti si può presentare nelle forme della nostalgia, che genera per l’appunto, come sottolinea Cirese, ambiguità comunicativa. In questo, il lavoro del film-maker è sottile, soprattutto in film documentari che si occupano inevitabilmente del tema-problema della memoria, come The New Wild, e che, come qualsiasi rappresentazione (letteraria, pittorica, teatrale, ecc.) necessitano di un grande equilibrio tra interpretazione, capacità narrativa ed estetizzazione. Credo che Christopher Thomson abbia raggiunto l’obiettivo, consapevolmente e allo stesso tempo umilmente, grazie alla sua profonda e delicata capacità di ascolto. Questo ne ha fatto un prodotto artistico, che getta una nuova luce sul concetto stesso di “realismo”, oltre che su quello di “documento”.
Le più recenti definizioni di “documento” [28] pongono infatti l’accento sulle potenzialità che ha qualsiasi entità fisica di trascendere la sua funzione d’uso e la sua stessa essenza, grazie all’intervento del “fruitore”, con termine forse superato. Potremmo meglio dire forse «dell’essere umano percettivo». Tale intenzionalità condiziona la deduzione di significato dall’entità fisica percepita. In questo senso, anche una lacerazione sulla corteccia di un albero nel bosco è un documento, così come un’erba spezzata, un tamburellare ritmico, o più banalmente un’orma: tutti questi oggetti di percezione permettono, ma sempre in base al personalissimo mondo di convinzioni del soggetto, di dedurre il passaggio di un animale o di un’altra entità fisica. Al passante può anche non presentarsi alcuna percezione particolare, beninteso, e questo sempre in collegamento con le caratteristiche del soggetto [29].
In The New Wild i suoni, accanto al testo e alle immagini, permettono la deduzione del significato di ogni movimento o stasi della videocamera. Thomson ha lavorato consapevolmente sulla reciproca interferenza di suono, parola e immagine, producendo nello spettatore un cortocircuito tra l’aspettativa indotta dal titolo e la propria reazione emotiva, individuale, certo, ma così simile a quella del vicino di poltrona nella sala di proiezione, così percettibilmente vicina allo stupore. All’incanto.
Da questa condizione emotiva, creata dal puro lavoro artistico di The New Wild, credo proceda l’attribuzione di significato, che rende ogni particolare del film stesso un documento e riaccende una memoria collettiva che si era quasi spenta: quella dell’uomo che, fin dalla sua comparsa, lotta per la sua sopravvivenza utilizzando per questo ogni elemento utile dell’ambiente in cui vive, senza privarlo per questo della sua natura. Questa memoria, forse, nello spettatore crea un duplice senso di colpa, rivolto sia alla privazione di senso che il nostro tempo destina alla fatica umana dei secoli passati, sia all’evidente ribaltamento attuale: dalla lotta per la sopravvivenza a quella per i propri personali interessi economici. In ogni caso, in alcune comunità della montagna, in modi diversi, a volte confusi, quasi sempre promossi da individui, spesso internamente osteggiati, si affacciano nuovi abitanti: possono essere eredi di terreni e proprietà appartenute ai nonni, oppure del tutto nuovi. Sono giovani, istruiti, sognatori con i piedi per terra, letteralmente e positivamente [30].
In una borgatella di Dordolla, a Drentus, nel 2005 è nata un’azienda agricola (allevamento, agricoltura e agriturismo) [31] che, in collaborazione con la locale associazione “Cort dai gjaz” (Corte dei gatti, in friulano, che autoironicamente si riferisce ai pochi abitanti del luogo), si occupa della manutenzione delle aree prative e della sistemazione degli antichi manufatti agricoli, quali muretti in pietra, di sostegno per i terrazzamenti, necessari a Dordolla per la coltivazione, o i sentieri interpoderali.
A Dordolla si respira da qualche anno un’aria di accoglienza, di vita, di cultura. L’unico bar e negozio del luogo permette di gustare, su prenotazione, ottimi assaggi della cucina del luogo. Vi si ritrovano tutti: abitanti e visitatori, finendo spesso per scambiarsi notizie e indirizzi. Christopher Thomson ha ideato a Dordolla una Festa del Raccolto, chiamata appunto “Harvest”, un Festival, di fatto, che nel 2017 ha avuto la sua terza edizione, con la partecipazione di artisti, uomini e donne di cultura provenienti dalla regione, dall’Italia e dall’Europa, che si uniscono alla gente del luogo, impegnata nella produzione di assaggi della gastronomia locale. Dordolla vuole vivere. La montagna vuole vivere. E l’uscita di questo film di Christopher Thomson costituisce un’opportunità, che, tra l’altro, fa molto riflettere. Quello di Christopher Thomson è quindi un documentario di grande impegno artistico. Quattro sezioni [32] suggeriscono, senza indicarlo precisamente, il succedersi delle stagioni, mentre una voce fuori campo [33] enuncia il testo, con la lentezza della poesia, come una carezza della Natura.
L’essere umano compare poco, nel film, e poco alla volta, a partire dall’ultimo abitante di Moggessa, una frazione vicina, a cui segue, alla fine della seconda parte, il pastore che, con le sue pecore, si presenta in tutta la sua realtà presente, ma allo stesso tempo ricorda il mito e il racconto che l’uomo fa da millenni della realtà. Il testo non descrive, non illustra e non racconta, ma accompagna poeticamente lo spettatore in una letterale immersione nel fluire del tempo e della vita, che caratterizzano non solo i boschi e le montagne della Val Aupa, allegoria di ogni area non urbana, ma anche la continua e incessante trasformazione di tutto ciò che è.
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