di Antonio Ortoleva
Per raccontare l’India – perché, ogni volta che andiamo, quel mondo repentinamente è cambiato – conviene accostare due oggetti simbolici, in apparenza antitetici, sempre presenti nella vita della nuova borghesia in rapido avanzamento. Il primo è antico, forse millenario, il Lingam, non altro che il membro maschile, icona della fertilità e della vita, posto su un piedistallo rotondo che simboleggia l’organo femminile. L’altro è l’IPhone 15, l’emblema della modernità, ora che la Apple ne ha trasferito la produzione dalla Cina a Bangalore, e che, a differenza del primo totem, non si relaziona in verticale verso il paradiso induista, ma mette in comunicazione orizzontale centinaia di milioni di utenti.
In apparenza, dunque, sembrano vivere in parallelo due Indie che non appaiono antitetiche, anzi coabitano: e mentre il resto del mondo che vogliamo chiamare occidentale trascura le sue buone tradizioni guardando diritto al futuro più che al tempo presente, il subcontinente concilia l’aspettativa della reincarnazione con il sistema digitale. Non è un caso se il giro di affari della principale impresa hi-tech del miliardario Ambani abbia superato il volume dell’Ibm. Mukesh Ambani è il tycoon più ricco dell’India e forse dell’Asia, nonché il principale finanziatore del premier Narendra Modi: ha appena sposato l’ultimogenito Anant in feste nuziali da marajà durate mesi, con dispendio di centinaia di milioni di dollari, ospiti persino Mark Zuckerberg, patron di Facebook, e l’ex premier inglese Tony Blair.
Anche i manager pregano, nelle loro auto di lusso può svettare sul cruscotto una statuina interclassista di Ganesh o un lingam. Entrambi totem prediletti dalle donne: il dio elefante è il principale protettore muliebre, il secondo è l’amuleto della fertilità. Con più o meno un miliardo e mezzo di persone, l’India ha da poco e di poco superato la Cina, oggi in crisi demografica con le politiche del figlio unico e l’alto tasso di anzianità, diventando il Paese più popolato al mondo e in largo anticipo rispetto alle previsioni che indicavano il 2050 come data del sorpasso. Seppur la media nazionale sia di due figli per ogni donna, la prole numerosa è tutt’altro che un tabù, al contrario della sterilità che «è guardata poco meno che come una maledizione», scriveva sessant’anni fa l’inviato de La Stampa e scrittore Alfredo Todisco nel suo “Viaggio in India” [1]. Non è oggi così dissimile da quanto raccontava allora.
«Gli ex voto delle donne che non riescono a dare alla luce un figlio si vedono un po’ dovunque in India, piccoli pupi di cera, offerte votive al Lingam, nastri e nappe che vengono intrecciati agli alberi dei templi e dei santuari; né è infrequente il caso di mogli sterili che, nella speranza di rompere l’incantesimo, frequentano, in certi santuari, i santoni che reputano dotati di virtù divine».
“C’era una volta l’India e c’è ancora”. Così titolavo nove anni fa il mio libro-reportage [2]. Ma per quanto tempo ancora ci sarà? Una risposta convincente l’ho avuta da un elegante e dinoccolato professore indiano che faceva da guida a un gruppo di colleghi di Toronto, dove egli risiede: «Impossibile che scompaia, qui c’è una coscienza collettiva che si è interrogata da millenni sulle più grandi questioni dell’umanità e ha trovato risposte migliori di quanto abbiano dato Platone e Kant. Queste risposte sono sedimentate nel profondo dell’animo indiano».
L’abito indossato dalle donne resta ancora il sari multicolore, anche se il cotone spesso cede il posto al tessuto sintetico perché non si deve stirare, ma nelle metropoli non è raro notare donne in jeans o in tailleur, mai nelle cerimonie ufficiali, nonché pettinature dal taglio francese o italiano. Eppure, in casi rari, non è del tutto scomparsa la crudele pratica funeraria del Sati, in uso fino all’inizio del secolo scorso, che spingeva le vedove a bruciare vive sulla pira del marito deceduto, dopo essersi cosparse di unguenti incendiari. Oggi un atto punito dalla legge per coloro che istigano o solo assistono all’abominevole evento, un tempo imposto alle favorite del marajà.
Il progresso economico di questi anni, impresso dalle politiche sovraniste del premier Modi – ora al terzo mandato (come fu per Nehru) dopo il successo alle recenti elezioni, seppur di misura rispetto ai sondaggi che lo vedevano trionfare – ha coinciso con la crescita del ceto medio. La nuova borghesia indiana è oggi un modello di riferimento, un “new style”, non più un ceto di nicchia concentrato nelle metropoli. La middle class negli ultimi vent’anni è cresciuta in termini numerici (leggo stime del 10 per cento annuo sui circa 100 milioni stimati in partenza), peso politico e status sociale, ha da tempo scoperto il turismo, interno e internazionale, veste con griffe occidentali, non mostra più il frigo in salotto come status symbol, manda i figli a specializzarsi all’estero (che poi, in gran parte, ritornano), propone uno stile di vita che sta per diventare un modello…ma non dimentica l’insegnamento degli antenati sul qui e ora, né trascura di consultare il proprio guru sulla rettitudine della propria vita.
Una vetrina dell’India moderna è il Kerala, la regione dell’estremo Sud, che abbiamo visitato in lungo e largo per un mese, che può essere paragonato, per costumi e orientamento politico, a una Emilia Romagna locale. Governo a maggioranza comunista, neppure un seggio per il partito di destra del premier Modi, il Bjp, è il cristianesimo la religione più diffusa, per via della lunga presenza portoghese a cominciare da Vasco de Gama, benessere abbastanza diffuso con aree di povertà dignitose, emancipazione dei costumi. Qui le donne rivestono ruoli primari, come la giovanissima sindaca marxista della capitale Trivandrum, che fu eletta a 21 anni, ancora studentessa universitaria. O i comitati di quartiere al femminile che controllano se tutti gli alunni frequentano la scuola e nel caso intervengono anche con denaro pubblico a favore delle famiglie in difficoltà, un deterrente in più che fa totalizzare un’evasione scolastica quasi uguale a zero.
In Kerala ha vissuto la più famosa delle scrittrici indiane, Arundhati Roy, l’autrice del romanzo letto in tutto il mondo, Il dio delle piccole cose [3], la battagliera e sfacciata eroina dei diritti civili, che quando rientra a casa da Londra, dove risiede, è seguita da una discreta scorta armata per tutelarla da gesti estremi di fanatici indù. «Finché Arundhati Roy è viva possiamo confermare che l’India è una democrazia – le disse senza ritegno un diplomatico – lei in Cina sarebbe da tempo agli arresti». In realtà, la Roy ha conosciuto la prigione di Tahir a Delhi, la più grande del Paese, anche se solo per un giorno e una notte, pena simbolica per oltraggio alla Corte, a causa della sua battaglia contro la mastodontica diga sul fiume Narmada, che avrebbe comportato l’esodo di milioni di abitanti e un probabile disastro ambientale. E tuttavia, a breve, siederà ancora sul banco degli imputati rischiando un’altra e più pesante condanna per complicità in terrorismo, a causa di una frase pronunciata ben 14 anni addietro a favore degli indipendentisti del Kashmir.
Dal Kerala, contornato da una miriadi di canali lagunari sul Mar Arabico – fascinoso e frastagliato davanti alla “città aperta” di Cochin, dove sbarcò per primo il portoghese Vasco de Gama e dove si era concentrata la più grande comunità ebraica, oggi quasi scomparsa – fino alle montagne del tè e delle spezie, tra Kumily e Munnar, dalle dolci colline verdi e profumate, dove si coltivano le erbe e i frutti aromatici come cardamomo, pepe, chiodi di garofano, zenzero e cannella, l’area a maggior produzione del mondo. Non molto lontano da qui, un altro grande scrittore, Amitav Gosh, ha impiantato il suo mirabile romanzo iperbolico La maledizione della noce moscata [4], dove, in incrocio tra storia e leggenda, racconta come gli olandesi della Compagnia delle Indie, inseguendo un vento aromatico in pieno oceano scoprirono e conquistarono, con la tipica ferocia del colonialismo europeo, il piccolo arcipelago della noce moscata, allora in tempi di peste unico antidoto conosciuto a contrastare l’epidemia, e quindi dal valore simile all’oro. E delle stragi compiute e dello scambio farlocco con gli inglesi che avevano occupato uno degli isolotti e che accettarono di abbandonare l’arcipelago in cambio di un lembo di terra paludosa che nessuno voleva nel Nuovo Mondo, neppure il re di Francia che rifiutò il dono dell’esploratore italiano Giovanni da Verrazzano che l’aveva scoperta nel 1524. E che ben presto si chiamò Manhattan, la capitale mondiale della finanza moderna, che proprio in questi giorni compie 500 anni di vita.
Il Kerala è, possiamo affermarlo, lo specchio di un’altra India dal benessere discreto e dai costumi moderni che s’intrecciano con le usanze millenaria. Solo qui puoi vedere in spiaggia ragazze in bikini e un pellegrinaggio lungo centinaia di chilometri a piedi nella giungla. L’ambulante con il Pos elettronico e la movida del sabato sera, il katakali autentico a Cochin, la danza epica dei poemi indiani, e le reti da pesca medievali cinesi, importare dai portoghesi da Macao.
Restiamo con i piedi per terra, e quindi in Kerala, per aggiungere, ancora a suo vantaggio, che la coabitazione pacifica di ogni religione e il livello quasi occidentale dell’assistenza sociale e del progresso civile sembrano il frutto prezioso di un sistema dell’istruzione così diffuso da contenere al minimo le povertà economiche e culturali. Basterà valicare le montagne ed entrare in Tamil Nadu per ritrovare l’India rurale e povera di un tempo.
Quindi c’era una volta l’India? No. Abbiamo le prove, c’è ancora.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] Mondadori Milano 1966: 117
[2] Navarra, Palermo 2015
[3] Guanda, Parma 1997
[4] Neri Pozza, Milano 2022
______________________________________________________________
Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’Università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore, e più recentemente dello stesso editore Non posso salvarmi da solo. Jacon, storia di un partigiano.
______________________________________________________________