di Giuseppe Sorce
Build your house upon the rock. Che a tre anni dall’invasione dell’Ucraina ci saremmo ritrovati a doverci seriamente interrogare sul futuro dell’Europa era cosa scontata. Pensare a dover riconsiderare totalmente la nostra ontologia presente e il nostro destino sostanziale – leggi sopravvivenza – nelle dinamiche geopolitiche del pianeta invece era cosa più rara da immaginarsi. Pochissimi infatti, se non nessuno, aveva previsto che il conflitto russo-ucraino avrebbe portato a una catena di eventi tale che i ruoli degli Stati Uniti e dell’Europa, e i loro legami e relazioni, sarebbero stati messi così tanto in discussione.
Sappiamo ormai, e dovrebbe essere palese veramente a tutti, che se noi cittadini dell’Europa occidentale abbiamo vissuto in una bolla di pace, qualcuno dice addirittura “fuori dalla storia”, è grazie agli Stati Uniti. Qualcuno ha parlato a tal proposito di pax americana, intendendo con questa espressione il periodo di “pace” che è valso per i Paesi occidentali e per tutti quei Paesi sotto la sfera di influenza americana. In generale possiamo dire che l’assenza di un grande conflitto armato che ha coinvolto i Paesi europei negli ultimi anni sia andato di pari passo con la globalizzazione – si noti che le guerre balcaniche, così come quella in Iraq, non sono considerate vere e proprie guerre proprio perché nella vulgata, lievemente razzista ed etnocentrica, non hanno messo in pericolo l’incolumità dell’Occidente europeo in maniera diretta (i Balcani, pur essendo nel cuore dell’Europa, non sono evidentemente considerati occidentali). Già appunto l’idea di pax americana, dovrebbe darci la misura di quanto la narrazione post-storica ed eurocentrica abbia imperato nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti stessi, autoeletti, soprattutto dopo il crollo dell’Unione Sovietica, a guardiani del Mondo, supervisori dell’ordine delle cose, dei mari e dei flussi commerciali, delle tecnologie, della gestione del potere bellico e degli equilibri geopolitici.
Fatte queste necessarie quanto scontate premesse, alla luce dei recenti avvenimenti, dei recenti conflitti, delle recenti e decantate narrazioni a stelle e strisce: cosa è oggi l’Europa? A questo vale la pena rispondere prima di interrogarci su cosa sarà l’Europa e se e come saremo pronti ad affrontare il nuovo clima di tensione, i nuovi rischi e le nuove sfide. Ma qui sta, a mio avviso, il nucleo tragico della vicenda, il punto critico, il paradosso. Rispondere alla domanda cosa è l’Europa oggi per cercare di tracciare una traiettoria per l’Europa del futuro ci getta immediatamente in una sorta di loop cognitivo-immaginifico.
Dire cosa è l’Europa oggi in termini identitari e nell’orizzonte concettuale della soggettività politica nel teatro del mondo, risulta estremamente difficile senza la possibilità di riferirsi a cos’era l’Europa prima, perché è nata e con quali propositi e, soprattutto, cosa dovrebbe essere l’Europa. Nel definire l’Europa come soggetto politico si finisce inevitabilmente per scivolare in diciture giuridico-istituzionali e cioè: si dice cosa sia l’Unione Europea. Ma a noi oggi questo non interessa perché questo non offre alcuna risposta alle criticità dei tempi attuali e di quelli a venire. A noi serve una risposta che dia una visione di presente e di futuro come azione comune. Allora per rispondere ci si affida a “l’Europa dovrebbe essere”, “se qualcuno attaccasse allora”, “nell’eventualità in cui”, “allora l’Unione Europea dovrebbe costituire”, “l’Europa era nata con l’intento di …ma adesso sarebbe opportuno che” ecc.
Appare chiaro che di fronte alle sfide del presente e del futuro noi non possediamo una chiara identità, un chiaro spirito, una comunanza di intenti di conservazione e difesa di quei valori di cui tanto bellamente e giustamente ci facciamo portavoce. Inoltre, altra conseguenza del conflitto russo-ucraino, le tv, internet, podcast e trasmissioni di tutti i generi si sono popolate di osservatori e analisti geopolitici che come usciti all’improvviso da una nicchia nerd, hanno cominciato a commentare gli eventi e i fenomeni contemporanei, spesso offrendoci anche vere e proprie lezioni di storia. Tutto molto bello. Tutto molto interessante. E lo dico qui seriamente. Molto spesso infatti questi interventi hanno saputo portare spunti “nuovi” nel dibattito pubblico, importando in una dimensione più pop nozioni, paradigmi e analisi che è solito trovare in ambienti accademici, dall’alto grado di complessità.
Una complessità quasi sempre avulsa dalle discussioni televisive, radiofoniche, dai dibattiti su canali youtube o di podcast più o meno autorevoli. Istituti come Limes e il suo direttore Lucio Caracciolo, riviste come dominio e il suo tanto dibattuto direttore Dario Fabbri, per non parlare del bistrattato e tanto discusso Orsini, e altri personaggi provenienti dalla politica o dal giornalismo come Elena Basile e Giovanna Botteri, e così via (chi frequenta i social, i podcast e i youtube – oggi i mezzi di informazioni più diffusi fra i “giovani” e non solo – sa benissimo). L’emersione di questi personaggi ha suscitato interesse, talvolta scandalo, polemiche, dibattiti ma, al di là di tutto, ha in ogni caso portato la discussione geopolitica a una inaspettata rinnovata diffusione.
Negli ultimi tempi, soprattutto, il tema centrale, a proposito della fine della pax americana, è stato appunto l’Europa, il suo destino, e la sua stessa esistenza. Discutere infatti del destino dell’Europa, come dicevamo prima, significa sempre discutere su cosa sia l’Europa, se l’Europa esiste realmente come soggetto politico, come unità identitaria, come afflato di un’anima comunitaria. E la risposta che viene fuori è sempre un secco “no!”. Risposta avallata ahinoi dai politici nostrani e non, che sembrano non avere mai chiaro nulla, non mettersi d’accordo su nulla che riguardi il cosa siamo e il cosa vogliamo fare in quanto Europa. Poche idee quelle su cui concordano in ambito di politica estera, se così vogliamo definirla, quando il campo principale nel quale si definisce sempre un soggetto sin dagli albori dell’umano è proprio l’io sono in quanto tu sei. Il principio della differenza, io sono io poiché tu sei tu, e dell’alterità. Fino a oggi le scelte che riguardassero un cosa fare con soggetti esterni all’Unione (vedi guerra russo-ucraina) sono sempre state prese sotto la guida degli Stati Uniti. Ed ecco, come dicono in molti, fra analisti, giornalisti, politici, la con-fusione generale fra UE e Nato e tutto ciò che ne consegue. Cosa è l’Europa, quale il ruolo della Nato, degli Stati Uniti, esistiamo noi al di fuori di tutto ciò, cosa siamo come ci poniamo agli occhi del mondo.
La fase critica è presto detto sorta come dal nulla, come se nessuno se lo aspettasse appunto: la pax americana è finita, parole e azioni che arrivano da oltre oceano ci segnalano che da adesso ognuno deve ritornare a pensare un po’ per sé, per semplificare. Imperversa allora, da qualche settimana, scatenato dai molteplici interventi di Ursula von der Leyen, il dibattito sul destino dell’Europa. Sulla sia di certe dichiarazioni provenienti da oltreoceano, l’urgenza di riconsiderare l’Europa come vera e propria entità politica e culturale è tornata a farsi sentire. Ne è conseguito il bisogno di pensare l’Europa al di là dell’Unione Europea, da molti considerata fallimentare in termini identitari. Nonostante qualche analista abbia sollevato seri dubbi sulla possibile costruzione di una nazione europea, il sentimento quindi del “sentirsi europei”, in giro per l’Europa si sono verificate una serie di manifestazioni che, seppur chiedendo cose diverse ai rispettivi governi nazionali, hanno avuto tutte in comune un richiamo all’Europa, al sentirsi europei appunto [1].
Le bandiere dell’UE hanno funzionato in queste piazze come stendardi non politici ma identitari, a mio avviso. Segni di appartenenza. Un’appartenenza a un sentimento comune che evidentemente esiste, con buona pace di certi analisti, e che fonda le proprie basi sulla credenza che certi diritti, certe libertà inalienabili, un certo spirito, siano incarnate in quella bandiera che rappresenta un luogo più che un’istituzione. Se siamo ancora lontani da percepire l’Europa come una nazione, forse però siamo più vicini di quanto si pensi a immaginarla come una comunità che può essere anche entità politica. Le critiche che spesso sono mosse contro il concetto di “nazione europea” partono dai presupposti che tale realizzazione può avvenire solo nel momento in cui un popolo, una lingua, una cultura, si impone sulle altre, dimenticando che nazioni possono crearsi a partire da presupposti diversi e che il concetto stesso di nazione non è vincolante ossia le aggregazioni umane non sono solo stati o nazioni o imperi, e che queste configurazioni spaziali e umane concetti possono subire mutamenti, evoluzioni e trasformazioni. Così come sono nate, si evolvono e muoiono per lasciare il posto ad altre. Non si può ciò pretendere di definire queste come “aggregazioni umane” e poi privarle della loro natura umana che implica appunto l’essere calato nel flusso della storia umana e dei suoi mutamenti. È chiaro che con gli strumenti che abbiamo oggi già immaginare anche un’Unione Europea come federazione ci risulta complicato. Ma così come qualcuno ha immaginato l’Europa e scritto e raccontato dell’Europa prima che esistesse come unione economica e commerciale, così oggi quei cittadini che europei si sentono e si autodefiniscono stanno dando voce a qualcosa che prenderà forma domani. Se la cosiddetta “generazione Erasmus” esiste oggi è perché un tempo è esistito Erasmo da Rotterdam e con lui quei fenomeni storici e culturali che hanno portato poi la stessa Unione Europea ad avere dei padri, delle madri, dei cantori, dei fondatori e fondatrici.
Così, futuro, passato e presente si mescolano, e nessuno è veramente in grado di dirci cosa sia l’Europa, se esiste in quanto soggetto, se esisterà in quanto identità. Gli analisti geopolitici, con un piede sempre nel passato, ci dicono che non esiste e non esisterà, giornalisti e altri osservatori ci dicono che sono necessarie certe forme di aggregazione per una eventuale difesa; i politici europei invece sono più in disaccordo che mai, totalmente persi in un presente che non senza difficoltà tentano di interpretare. L’opinione pubblica è confusa. L’idea di Europa quindi si declina come tutti i fenomeni dell’Antropocene, ossia indissolubilmente legata all’idea del Tempo. O un attacco dal futuro (un eventuale futuribile attacco di chissà quale nemico, e l’allontanamento dagli storici alleati oltreoceano), un fantasma dal passato che viene ad abitare il presente (l’Europa non è una nazione e mai lo sarà), un presente che sfugge alla comprensione e dalla visione di chi oggi ha potere decisionale (incapacità di organizzare un serio discorso politico nelle sedi opportune).
“Build your house upon the rock (Matteo 7:24-27)”. È apparsa questa scritta, qualche giorno fa, in un muro dell’università americana in cui lavoro da un anno. Cosa vorrà dire? Forse tutto, forse niente. Forse è solo un messaggio cristiano che testimonia lo spirito puritano che continua ad animare parte degli Stati Uniti. O forse è una risposta involontaria, suggestiva, un’eco di ritorno al famoso “a city upon a hill”, una citazione-simbolo, un’immagine-guida, estratta dal sermone che John Winthrop pronunciò prima che lui e i suoi compagni coloni raggiungessero il New England, famoso soprattutto grazie all’espressione “una città su una collina”, usata per descrivere l’aspettativa, la speranza e la credenza, che la colonia della Baia del Massachusetts avrebbe brillato come un esempio per il mondo. Cosa ci dice questo? Forse tutto, forse niente, come detto. Ci serve però a capire che i “giovani” americani, da qualche parte, in qualche modo, saranno pronti in ogni caso a rispondere alla fine della pax americana, all’urgenza di reinventare un’immagine e una storia di sé. Che funzioni o meno non importa.
Saremo in grado noi di fare altrettanto per la nostra Europa? Che funzioni o meno, una narrazione, una credenza, un’immagine, un’idea. Una speranza.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] «Quello che emerge dalle nuove ondate di movimenti in Europa è che il ruolo dei movimenti sociali cambia a seconda delle condizioni del sistema politico» spiega ad Alley Oop la sociologa Donatella Della Porta, prima preside della facoltà di Scienze politico sociali e coordinatrice del dottorato in Political science and Sociology alla Scuola Normale Superiore a Firenze, dove dirige il Centre on social movement studies. Dalle proteste in Serbia contro il presidente Aleksandar Vučić (la più grande manifestazione pacifica nella storia del Paese, organizzata dal movimento studentesco, a cui hanno partecipato oltre 300 mila persone riempiendo le piazze della capitale), alle manifestazioni in Grecia per rivendicare la responsabilità politica del tragico scontro ferroviario di Tempe che il 28 febbraio 2023 costò la vita a 57 persone, quello che muove il dissenso – evidenzia Della Porta – è una percezione di insoddisfazione condivisa: «I partiti politici si presentano come estremamente deboli e i movimenti sociali diventano l’unica forma per presentare ragioni di insoddisfazione e insofferenza rispetto ai governi», scrive Labarile per Il Sole 24 ORE. «Dall’Ungheria alla Romania, i manifestanti pro-Ue protestano contro i leader filorussi. I cittadini chiedono di più ai loro leader e hanno a cuore il futuro del loro Paese. Difenderne le sorti dall’autoritarismo, esprimendo opposizione e dissenso al sentimento nazionalista e antieuropeo, è quello che ha portato lo scorso mese centinaia di migliaia di persone a scendere tra le strade di Bucarest e Budapest. L’obiettivo, pur in due manifestazioni separate, è lo stesso: manifestare contro i leader con posizioni vicine alla Russia. Se in Ungheria almeno 50mila persone hanno marciato per chiedere la fine del governo di Viktor Orban, in carica da 15 anni e considerato il più stretto alleato di Vladimir Putin tra i leader dell’Unione europea, e il partito Tisza porta in piazza il popolo che vuole ascoltare per fissare le priorità del Paese (13 aprile a Budapest); in Romania migliaia di persone sono scese in piazza a Bucarest per una manifestazione a favore dell’Unione europea» (ivi). Si veda: https://alleyoop.ilsole24ore.com/2025/04/14/manifestazioni-europa/. Anche che nel nostro Paese ci sono state delle iniziative di piazza che hanno riscosso enorme successo raccogliendo una maggioranza di “giovani” – virgolettato d’obbligo essendo i giovani in Italia quasi una minoranza, leggendo i dati; si veda:
https://www.ilsole24ore.com/art/a-bologna-piazza-pro-europa-prodi-usa-non-sono-piu-piu-grande-democrazia-mondo-AGGRZ80D; https://www.repubblica.it/politica/dossier/una-piazza-per-l-europa/; https://www.infodata.ilsole24ore.com/2025/02/17/crollo-della-percentuale-di-giovani-in-soli-10-anni/;https://www.cnel.it/Comunicazione-e-Stampa/Notizie/ArtMID/1174/ArticleID/4741/L%E2%80%99ITALIA-HA-LA-PI217-BASSA-INCIDENZA-DI-UNDER-35-IN-EUROPA.
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Giuseppe Sorce, si laurea in Lettere moderne a Palermo con una tesi in antropologia culturale sul rapporto uomo-computer, linea di ricerca che seguirà con la tesi magistrale all’Università di Bologna sul cyberspazio e l’epistemologia della geografia sotto la guida del professor Farinelli. Si occupa di tecnologia, narratologia, Antropocene e immaginario geografico. Docente di lettere nelle scuole superiori, è attualmente lecturer di lingua italiana negli Stati Uniti.
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