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Demologia, antropologia e beni culturali oggi: qualche disorganica riflessione

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2023 @ 02:13 In Cultura,Società | No Comments

 

schermata-2022-10-10-alle-16-01-17di Antonello Ricci 

Dal secondo dopoguerra e fino alla metà degli anni Ottanta del Novecento gli studi italiani di ambito antropologico culturale riguardanti il territorio italiano hanno avuto un importante e rinnovato filone di ricerca e di riflessione incentrato sul mondo contadino e pastorale e, più in generale, sulla cultura degli strati sociali che, con termini del tempo, sono definiti “fascia folklorica”, “cultura subalterna”, “mondo popolare”, ecc. Demologia è la denominazione che ancora oggi indica quel segmento di studi antropologici e che è parte della dicitura Discipline DemoEtnoAntropologiche (DEA) e descrive il settore scientifico-disciplinare M-DEA/01.

Aspetti filologici, semiotici, comunicativi, visuali, musicali, coreutici, museografici, ergologici, rituali, cerimoniali, magici, religiosi ecc., hanno contribuito – mediante l’elaborazione di una peculiare metodologia di ricerca e di analisi – a costruire un sapere complesso e stratificato, hanno dato luogo a un sistema di relazioni interdisciplinari spesso dal carattere sperimentale e innovativo, hanno stimolato una volontà di contribuire a una restituzione in chiave pubblica del lavoro antropologico in forma di azione politica, hanno determinato una penetrazione e una presenza nella società civile a un livello alto del contesto intellettuale in Italia, in seguito forse mai più raggiunto e oggi difficilmente immaginabile.

Qualche anno fa ho organizzato un seminario biennale presso il Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte, Spettacolo della “Sapienza” Università di Roma nel quale ho proposto la restituzione e il ripensamento di alcune esperienze di ricerca e di studio sul mondo contadino italiano mediante la lettura, il commento critico e multivocale di una selezione di opere “classiche”, basate su specifiche pratiche etnografiche e peculiari elaborazioni teoriche, accomunabili nella definizione di “antropologia in stile italiano” (Ricci 2020) [1]. Le discussioni seminariali hanno fatto emergere in maniera complessa e articolata ulteriori e rinnovate piste di ricerca che, a partire da quelle esperienze, hanno contribuito ad allargare il panorama della demologia nella dimensione contemporanea degli studi antropologici italiani.

p1020612Gli anni della demologia sono stati anche gli anni della ricerca sul campo, ovvero del cambio radicale di paradigma metodologico che dal secondo dopoguerra, a partire dall’esempio fondativo di Ernesto de Martino, ha segnato in maniera definitiva in Italia gli studi antropologico-culturali “in casa”. È stato un salto di qualità decisivo verso un approccio empirico basato sulla chiara precisazione metodologica, cara a Diego Carpitella (1973: 47), del come e del dove documentare le forme culturali della tradizione orale. Un approccio che, assumendo per la prima volta anche un atteggiamento riflessivo a partire dalla nozione demartiniana di “etnocentrismo critico”, è in grado di porre lo studioso di fronte ai limiti della propria dimensione culturale nel momento dell’incontro etnografico e della presa di coscienza della radicale diversità esistente tra la propria e l’altrui cultura (De Martino 1961: 21-22): ancora con le parole di Diego Carpitella (1976), “un’analisi differenziale di cultura”.

Le ricerche demologiche hanno anche operato una decisa spinta allo sviluppo di competenze tecnico-scientifiche considerate alla stregua di un’attrezzatura metodologica necessaria all’analisi e allo studio delle forme dell’espressività popolare (Cirese 1973: 225-304): uno straordinario repertorio di specializzazioni necessarie alla documentazione, ma, soprattutto, all’analisi e al successivo “trattamento dei dati”, di cui oggi, purtroppo, si avverte un diffuso impoverimento, soprattutto nella prassi applicativa, nei diversi contesti lavorativi dove la figura dell’antropologo è richiesta in quanto specifico profilo professionale. Ne è un importante esempio, storicamente consolidato nell’amministrazione pubblica dello Stato italiano, quello dei beni culturali su cui si è soffermata ampiamente Roberta Tucci in un articolo pubblicato nel precedente numero di Dialoghi Mediterranei, a cui si può aggiungere la recente collocazione del profilo di antropologo medico acquisito nel sistema sanitario pubblico della Regione Lazio (Severi 2022).

9788833903378_0_536_0_75Un importante cambio di prospettiva da parte degli studiosi di demologia nei confronti delle culture contadine italiane è stato quello di averne riconosciuto un elevato grado di autonomia nella produzione culturale. Un’idea non condivisa propriamente allo stesso modo da tutti gli studiosi. Per esempio Alberto Cirese riteneva che il valore della cultura contadina fosse da individuare in dipendenza dalla cultura dominante. In senso contrario, vale a dire verso un’autonomia espressiva della cultura contadina, si orientava Diego Carpitella. Ne è una prova il contrasto polemico con il musicologo Massimo Mila, apparso nel Notiziario Einaudi del 1956 allora diretto da Italo Calvino (Carpitella 1973), in seguito alla pubblicazione, a cura dello stesso Carpitella, nel 1955, del volume di Béla Bartók Scritti sulla musica popolare. Mila riteneva essere la musica popolare un insieme di «sottoprodotti del corale luterano» e «detriti delle arie e dei cori d’opera italiana e francese»; Carpitella, di contro, difendeva con forza l’intuizione e la “scoperta”, proprio grazie alla ricerca sul campo, di un «fondo di musica popolare indipendente dalla tradizione colta». È stata una posizione affermata con decisione anche in seguito alle copiose registrazioni e fotografie realizzate durante il viaggio di ricerca con Alan Lomax del 1954-55: decisivi documenti e testimonianze di una ricca diffusione territoriale di multiformi e sconosciute espressioni culturali. I due studiosi scrivevano: «Now that this great underground musical stream emerges for the first time into the light, fresh from its antique sources, perhaps it can play an important part in the growth of a new Italian culture» (Lomax, Carpitella 1957).

Forme e comportamenti dello stile italiano della ricerca sul campo sono stati a posteriori sottoposti da più parti a considerazioni critiche, soprattutto per la presunta brevità dei periodi di permanenza sul campo, oppure per i ritorni periodici, senza una vera stanzialità che potesse consentire «di stabilire forme di familiarità (sociale) condivisa» (Palumbo 2018: 111). Si potrebbe, a mio avviso, elaborare un differente punto di vista, sottoponendo ad approfondita lettura alcune fonti dirette, per esempio: le Lettere da una tarantata su cui ha lavorato Annabella Rossi (1970), una modalità di interazione con i protagonisti della ricerca assolutamente anticipatoria rispetto a successivi approcci di “antropologia dialogica” (Apolito 2014); le lettere indirizzate soprattutto a Carpitella da molti dei protagonisti delle sue ricerche, come quelle di Luigi Stìfani, il violinista terapeuta del tarantismo, custodite presso gli Archivi di etnomusicologia dell’Accademia nazionale di santa Cecilia, le quali potrebbero aprire ancora un’altra finestra; le testimonianze dei personaggi del mondo musicale contadino vesuviano con cui ha interagito Roberto De Simone (2010), primo fra tutti Giovanni Coffarelli (Raia 2012; Pizza 2017); o anche le fotografie che ritraggono Ernesto de Martino in atteggiamenti che non è azzardato definire di “familiarità sociale condivisa” con i soggetti privilegiati del suo orizzonte di ricerca, vale a dire i contadini, i pastori, i membri delle strutture politico-sociali di suo riferimento.

riccitucciQueste forme di relazione etnografica, secondo Francesco Faeta (2011), sarebbero il frutto di un “comune orizzonte politico” più che di un interesse per le “reti sociali”, in quanto il ricercatore sul campo si disinteresserebbe delle componenti sociali non ritenendole idonee a «confermare le sue tesi». D’altro canto, a mio avviso, relazionarsi con il campo in base a un comune orizzonte politico dà luogo di fatto a una forma di “familiarità sociale condivisa”: ho avuto modo di constatarlo dalla testimonianza diretta dell’avvocato Tommaso Marotta di Lungro (CS), il protagonista locale che nel 1954 ha accompagnato de Martino e Carpitella tra le comunità albanofone della Calabria (Ricci, Tucci 2006: 13-17). Credo che la motivazione del disinteresse per alcuni strati sociali andrebbe piuttosto ricercata in una precisa scelta metodologica, come hanno affermato più di una volta gli stessi de Martino e Carpitella. Quest’ultimo, in particolare, sosteneva anche l’esistenza, in quegli anni, di una prevalente impermeabilità socio-culturale tra ceti egemoni e ceti subalterni (Carpitella 1958, 1992: 216).

Per quanto riguarda la specifica esperienza demartiniana, la durata della permanenza sul campo sarebbe stata dettata, secondo Amalia Signorelli (2015), oltre che da una questione finanziaria, pure stringente ma non determinante, da «una scelta ragionata sulla base di premesse teoriche e in funzione del tema e degli obiettivi della ricerca». L’antropologa descrive in dettaglio modi, forme e comportamenti dell’équipe e del suo direttore. In questa visione, i tempi della ricerca appaiono per niente sacrificati, ma funzionali allo scopo che si vuole raggiungere.

In definitiva, tale prototipo di comportamento etnografico, su cui si sarebbe plasmato il modello italiano di etnografia postdemartiniano, mi pare si colleghi in primo luogo alla prospettiva storicistica di de Martino, per il quale “il campo” continua nell’archivio, e alla volontà di collocare in una dimensione storiografica i comportamenti e le ideologie che in quegli anni permeavano il mondo contadino povero, non solo meridionale: più ampiamente, negli anni dell’immediato secondo dopoguerra esisteva in Italia un diffuso tessuto sociale a prevalente trasmissione e mentalità orale che viveva una condizione di marginalità e di subalternità e possedeva un insieme di tratti culturali autonomi rispetto alla cultura ufficiale. Infatti, negli stessi anni in cui Ernesto de Martino “scopriva” e mostrava agli occhi e alla consapevolezza di un’Italia incredula i paesaggi contadini del Sud attraverso le fotografie di Franco Pinna e di Ando Gilardi e i film di Michele Gandin, Gianfranco Mingozzi e Luigi Di Gianni, il paesaggio naturale e umano del Polesine, analogamente pervaso da precarietà economica e da incertezza esistenziale, da magia e da un’ideologia arcaica della morte, era restituito con la stessa intenzione da documentaristi impegnati e consapevoli come Florestano Vancini e Renato Dall’Ara e da intellettuali come Gian Antonio Cibotto; ugualmente, seppure qualche anno dopo, possiamo richiamare il territorio delle montagne piemontesi e i loro abitanti ascoltati e registrati da Nuto Revelli e fotografati da Paola Agosti.

Luigi di Gianni

Luigi di Gianni

Nello stile etnografico italiano si notava anche il coinvolgimento, nelle ricerche etnografiche, di figure professionali allo stato iniziale, o in formazione: studenti, laureandi, giovani ricercatori. Tale coinvolgimento era parte di un’etica politica della didattica avanzata come quella universitaria e della formazione professionale, un procedimento euristico di condivisione dell’esperienza di lavoro, una didattica dell’alterità culturale “sul campo”. A conferma è il numero consistente di studenti e di collaboratori che, volontariamente, si avvicinavano in quegli anni ai maestri. Ne è stato un esempio significativo il coinvolgimento da parte di Ernesto de Martino della giovane Amalia Signorelli nell’équipe di ricerca sul tarantismo. L’antropologa si laureò nel 1957 con l’etnologo napoletano che l’anno dopo la convocò per partecipare alle riunioni preparatorie e alle ricerche sul campo in Salento e infine le affidò la redazione di una delle appendici del volume La terra del rimorso (Signorelli 1961). Ne è stato un altro esempio Annabella Rossi che, anche lei giovanissima, negli stessi anni ebbe un’esperienza di ricerca insieme a de Martino e sviluppò una specifica metodologia di documentazione multimediale contribuendo in maniera sostanziale all’arricchimento archivistico del Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari (Mnatp), una delle più importanti istituzioni statali dell’ambito dei beni culturali DEA, oggi parte del Museo delle Civiltà (MuCiv).

ceciliaA questo proposito, è importante evidenziare l’interesse archivistico degli studi demologici, nel cui alveo venne convogliata l’attività di ricerca etnografica e la molteplice produzione documentaria, a costituire una rilevante stratificazione di memorie dei territori italiani, oggi al centro di interessi patrimonialistici di varia natura e differenti aspettative. Infatti, a partire dalle ricerche e dalle riflessioni soprattutto degli studiosi degli anni della demologia (ma non soltanto), si è formata in Italia una consistente eredità mediante la costituzione di archivi pubblici e privati (ma di pubblico interesse) specificamente dedicati ai risultati delle ricerche etnografiche, di istituzioni, di musei statali o locali. Si possono richiamare alcuni esempi: nel 1948 nacque il Centro nazionale studi di musica popolare dell’Accademia nazionale di santa Cecilia, poi Archivi di etnomusicologia, al quale contribuirono con le loro ricerche sul campo: Andreas Fridolin Weis Bentzon, Franco Cagnetta, Diego Carpitella, Alberto M. Cirese, Paul Collaer, Ernesto de Martino, Ando Gilardi, Luigi M. Lombardi Satriani, Alan Lomax, Claudie Marcel-Dubois, Antonio Pasqualino, Franco Pinna, Annabella Rossi, Tullio Seppilli, Marius Schneider, Ottavio Tiby, Antonino Uccello; successivamente, a esso si affiancò l’Archivio etnico linguistico-musicale della Discoteca di Stato, poi diventata Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, a cui collaborano molti dei nomi già ricordati (Biagiola 1986); accanto ai due archivi nazionali si può richiamare il Folkstudio di Palermo, fondato alla fine del 1970 da Elsa Guggino (1994) insieme a un folto gruppo di artisti e intellettuali siciliani, la cui attività contribuì in maniera decisiva alla sensibilizzazione degli enti locali siciliani verso le forme espressive della cultura popolare in quanto beni culturali; il già citato Mnatp, nacque, esso stesso, da un progetto elaborato all’inizio del Novecento da Lamberto Loria, per un museo di etnografia nazionale italiana (Giunta 2019, Ricci 2022: 103-115), sulla base della costituzione di un rilevante corpus di materiali di varia natura (oggetti etnografici delle culture contadine italiane di quell’epoca, fondi fotografici, documenti scritti, integrati e arricchiti nel corso degli anni dai rilevamenti effettuati da molti altri ricercatori sul territorio italiano, come la già ricordata Annabella Rossi); il Museo degli usi e costumi della gente trentina (Mucgt), nato dall’interesse etnografico e artistico di Giuseppe Šebesta, è stato  per qualche decennio sotto la direzione del demoantropologo Giovanni Kezich, diventando un modello di museografia etnografica areale con importanti iniziative locali e internazionali tra cui il progetto europeo Carnival King of Europe (Kezich 2018) da cui è scaturito, quasi certamente, il più consistente archivio audiovisivo sulle forme festive dei carnevali europei.

Si tratta di istituzioni, pubbliche o di pubblico interesse, il cui intento costitutivo si collocava in una prospettiva che preludeva al trasferimento della cultura popolare dentro il contenitore dei beni culturali, aprendo la via alla successiva ricaduta (io la definirei piuttosto una caduta) verso l’interesse patrimoniale che oggi sembra costituire il maggiore punto di interesse dei territori e degli studiosi. Infatti, nel 1975 è stato costituito l’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (Iccd) all’interno dell’allora Ministero per i beni culturali e ambientali. Nel 1978 le forme espressive del folklore sono state riconosciute come beni culturali nel sistema del catalogo attraverso un lavoro di équipe che portò alla realizzazione di specifiche schede riguardanti gli oggetti, la musica, la narrativa, le feste-cerimonie, vale a dire tutti i settori sui quali si concentrava prevalentemente l’attenzione della demologia italiana. Si è trattato di un processo che è continuato e si è consolidato con strumenti catalografici informatizzati che richiedono competenze scientifiche e specializzazioni tecniche sempre più complesse (Tucci 2018: 94-118). Il gruppo di lavoro del 1978 era costituito da Sandro Biagiola, Diego Carpitella, Oreste Ferrari (allora direttore dell’ICCD), Linda Germi, Aurora Milillo, Jacopo Recupero (allora direttore del Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari), Annabella Rossi, Elisabetta Silvestrini.

Il sintetico ed esemplificativo riepilogo storiografico appena concluso, a mio avviso, è necessario per due ragioni tra loro collegate: mette in luce le solide e qualificate radici culturali e scientifiche che sono alla base della presenza dei beni culturali DEA nella pubblica amministrazione; rende evidente la conseguente indispensabile presenza di specifiche professionalità DEA nel settore dei beni culturali, da affiancare a pari livello alle altre figure professionali di più stabilizzata presenza, come gli storici dell’arte, gli archeologi, gli architetti. La collocazione statale delle discipline DEA, in seguito all’inquadramento di un profilo tecnico-scientifico all’interno del settore dei beni culturali, raggiunto relativamente di recente (nel 2001) [2] dopo anni di riflessioni, mediazioni e “battaglie”, richiederebbe un’appropriata formazione di alto livello, appunto, tecnico-scientifico, da acquisire mediante studi universitari specificamente dedicati, come le scuole di specializzazione [3] e, forse in maniera non del tutto pertinente, i dottorati.

L’affermazione di un’identità DEA nell’ambito dell’amministrazione dei beni culturali si ferma al livello dei funzionari tecnico-scientifici, non raggiungendo quello delle figure apicali direttive che continuano a essere appannaggio esclusivo di altri settori disciplinari come quello degli storici dell’arte o degli archeologi. Da qualche anno e in forma sempre più progressiva, la colonizzazione di alcuni territori DEA, in particolare quelli museografici, sta avvenendo a opera degli storici dell’arte e degli artisti contemporanei, la cui attività performativa e spettacolare è sempre più ricercata come attrattore di pubblico e di conseguenti biglietti venduti (Bindi 2022). Di contro, l’attività scientifica, quale il riconoscimento, la valorizzazione, le forme di tutela dei beni culturali DEA, nonché la gestione degli archivi di interesse DEA, è stata via via depotenziata e arretrata.

medicoGli studiosi italiani che da una prospettiva accademica si occupano di antropologia del patrimonio (non a caso non viene da essi utilizzata la dicitura beni culturali DEA), per lo più, ritengono che l’applicazione di un sapere critico, come quello che oggi sarebbe pertinente all’antropologia culturale contemporanea, sia riduttiva e inadeguata a una “mera” applicazione all’interno di un contesto amministrativo e ministeriale. In base a tale punto di vista, infatti, l’attività dell’esperto, funzionario tecnico-scientifico, viene ritenuta come una deminutio della potenzialità euristica di un sapere critico come quello antropologico, ed è considerata un approccio “ingenuo” che si ridurrebbe alla sola validazione e valorizzazione dei beni culturali individuati mediante gli strumenti catalografici e museografici a disposizione. Di contro, viene da molti auspicata una prospettiva critica che sottoporrebbe, non i beni culturali, ma i processi di patrimonializzazione a un’analisi etnografica facendone oggetto di studio e trasformando, in tal modo, la posizione tecnico-scientifica così a lungo ricercata e alla fine conquistata, in una poco identificabile figura di ricercatore capace di applicare un vago e indefinito “approccio antropologico” (Severi 2022: 14-15), privo di qualsiasi competenza e perizia specifica riconosciuta nel contesto di lavoro e a esso pertinente.

Le altre discipline afferenti al campo dei beni culturali hanno sviluppato nel corso dei decenni peculiarità professionali e tecniche riconosciute dall’ambito pubblico e dal senso comune, così come sono riconosciute da una comunità accademica di riferimento disciplinare che ne sostiene fermamente l’inalienabilità della pertinenza disciplinare promuovendone e delineandone l’identità professionale mediante un’opportuna e definita formazione di alto livello. I professionisti DEA, al contrario, secondo una prospettiva di antropologia politica del patrimonio, dovrebbero porre in atto posture critiche di studio e di analisi in grado di far emergere le forme e i comportamenti di una strategia politica e di una dialettica sociale soggiacente a qualsiasi processo di patrimonializzazione, compreso, forse soprattutto, quello inerente alla gestione istituzionale di tutti i beni culturali, non soltanto di quelli DEA: cioè, un’indagine decostruttiva e analitica sull’istituzione entro la quale ci si trova a lavorare allo scopo di identificare e proporre un differente orientamento operativo centrato più sui processi che sulle pratiche. Sarebbe come dire una sorta di “occhio di Dio” in grado di penetrare nell’intimità delle vicende e dei frammenti di mondo che osserva e di decifrare analiticamente e criticamente i comportamenti che vi si mettono in atto.

Purtroppo, non è questo che viene richiesto e che può essere utile a un contesto di lavoro istituzionale complesso e articolato come quello riguardante i beni culturali che, al contrario, ha come scopo la conoscenza dei patrimoni presenti e viventi (nel caso di quelli DEA) sul territorio per attivare e promuovere le appropriate politiche di tutela e valorizzazione di essi (Moro, Ricci 2013), attenendosi alla normativa statale di settore, il Codice dei beni culturali e del paesaggio.

voci_opere_cose_libro_iccd-1524039714Per diversi anni ho svolto la funzione di presidente di corsi di laurea DEA presso “Sapienza” Università di Roma, sia di livello triennale, sia di livello magistrale. In ambedue i casi, una questione spinosa è sempre stata l’identificazione di concreti sbocchi professionali esistenti sul mercato del lavoro a cui i laureati potrebbero ambire, tanto per rispondere alle richieste di famiglie e studenti, quanto per rispondere alle richieste sempre più stringenti della valutazione e autovalutazione della didattica universitaria. Essa, infatti, richiede che nella gestione di ciascun corso di laurea siano previsti organismi consultivi, tra cui un Comitato di indirizzo composto da professionisti dei diversi ambiti entro cui si possono identificare sbocchi lavorativi. La componente dei beni culturali DEA è stata sempre ampiamente rappresentata soprattutto nel Comitato di indirizzo del corso di laurea magistrale in Discipline EtnoAntropologiche che dovrebbe formare laureati in possesso del titolo di base indispensabile per partecipare ai concorsi indetti nella pubblica amministrazione, la cui figura, nella presentazione del corso, è definita come “Responsabile esperto dei beni e delle attività culturali”.

Per vari anni ho tenuto corsi dedicati espressamente ai beni culturali DEA proponendo agli studenti anche un tassello didattico di tipo tecnico-scientifico. Il loro interesse è stato sempre elevato, riconoscendo in esso la specifica applicazione di un sapere teorico a un’attività concreta [4]: una simulazione di alcune pratiche di lavoro nelle quali si dispiega il bagaglio di competenze teorico-metodologiche acquisito. Così come è stato per loro didatticamente importante l’incontro con una persona in carne e ossa (la funzionaria che ha tenuto il tassello didattico) che svolgesse una professione riconosciuta e riconoscibile a partire dalla base formativa che essi stessi stavano acquisendo durante gli studi universitari.

Nel 2016 è stato espletato il primo bando per l’assunzione di funzionari tecnico-scientifici dei beni culturali che ha dato luogo all’assunzione dei primi, ancora pochi, esperti DEA. Nel 2022 è stato emanato, ed è ancora in corso mentre scrivo, il secondo bando. Un’apertura di possibilità lavorative altamente qualificate per i demoetnoantropologi interessati al settore dei beni culturali sì è, dunque, offerta, e tale opportunità andrebbe colta e accortamente curata per continuare a costruire e consolidare la presenza del settore disciplinare DEA all’interno della pubblica amministrazione. Un settore della cultura che è determinante e indispensabile per orientarsi adeguatamente nel contesto sociale e politico contemporaneo caratterizzato dall’irruzione sempre più intensa delle forme dell’alterità culturale che costituiscono la vera ricchezza del mondo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023 
Note
[1] Le video-riprese di tutti i seminari dei due cicli svolti nel 2017 e 2018 sono al seguente link: https://www.youtube.com/channel/UCdWoRJqrh8hkGMBdr8Dm4XA/videos.
2 Per un approfondimento vedi Tucci 2022.
3 Nel 2008 è stata istituita la Scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università di Perugia e nel 2010 quella di “Sapienza” Università di Roma.
4 Un esempio che ha avuto una continuità di alcuni anni è stato un modulo di alcune ore, dedicato alla catalogazione dei Beni DEA, da me organizzato all’interno dei miei corsi con la collaborazione di Roberta Tucci. Al seguente link del sito del Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte, Spettacolo della “Sapienza” Università di Roma, a cui afferisco, si trovano gli esiti delle esercitazioni di catalogazione da me organizzate con gruppi di studenti: https://saras.uniroma1.it/didattica/esercitazioni-didattiche (consultato il 6 dicembre 2022). 
Riferimenti bibliografici 
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Biagiola Sandro (a cura di), 1986, Etnomusica. Catalogo della musica di tradizione orale nelle registrazioni dell’Archivio Etnico Linguistico-Musicale della Discoteca di Stato, Roma, Discoteca di Stato-Il ventaglio. 
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Cirese Alberto M., 1973, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo, Palumbo Editore. 
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Palumbo Berardino, 2018, Lo strabismo della dea. Antropologia, accademia e società in Italia, Palermo, Edizioni Museo Pasqualino. 
Pizza Giovanni, 2017, Oltre il feticismo della merce culturale. Ritorno a Giovanni Coffarelli, in Id., Feticcio, Potenza, Edizioni Grenelle: 31-110. 
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Rossi Annabella, 1970, Lettere da una tarantata, Bari, De Donato. 
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Signorelli Amalia, 1961, Dati relativi alle condizioni economiche dei tarantati, in E. de Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Milano, Il Saggiatore: 373-377.
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Tucci Roberta, 2022, I beni culturali DEA nel Ministero della Cultura fra oblii, riconoscimenti, apparentamenti, marginalità, “Dialoghi Mediterranei”, 58.

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Antonello Ricci, professore ordinario di Discipline DemoEtnoAntropologiche presso il Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte, Spettacolo (SARAS), “Sapienza” Università di Roma, dove presiede il corso di laurea magistrale in Discipline EtnoAntropologiche. Conduce ricerche sul campo nell’Italia centrale e meridionale sui temi delle culture pastorali, dell’ascolto, della museografia e dei beni culturali DEA, della antropologia visiva e della festa. Tra le sue pubblicazioni: Sguardi lontani. Fotografia ed etnografia nella prima metà del Novecento, Milano, 2022; cura di L’eredità rivisitata. Storie di un’antropologia in stile italiano, Roma, 2020; Suono di famiglia. Memoria e musica in un paese della Calabria grecanica (con M. Morello) Udine, 2018; Il secondo senso. Per un’antropologia dell’ascolto, Milano, 2016; I suoni e lo sguardo. Etnografia visiva e musica popolare nell’Italia centrale e meridionale, Milano, 2007.

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