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Dell’identità di Ali Douagi, tra marginalità e avanguardia culturale

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2019 @ 01:49 In Cultura,Letture | No Comments

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Ritratto di Douagi (Centro nazionale della comunicazione culturale in Medina)

di Rosy Candiani [*]

Lo scrittore Ali Douagi trascorre  la sua breve esistenza  nella Medina di Tunisi, nella prima metà del Novecento (1909 – 1949), il periodo d’oro della Belle Ėpoque per questa capitale multietnica e cosmopolita, dove le religioni, le differenti classi sociali – notabili e funzionari del Governatorato, aristocrazia “beldeya”, nuova borghesia e classi popolari – convivono  in un tessuto sociale e urbanistico senza barriere, potremmo dire in osmosi, sia nella medina araba sia nella città nuova al suo esterno.

Douagi respira questa atmosfera unica e se ne appropria in un desiderio di uscire dagli schemi educativi tradizionali: dopo i primi studi e il Kotteb, abbandona la scuola e segue una formazione autodidatta, di letture, curiosità, frequentazione di biblioteche e della scuola della strada; è tra i fondatori del gruppo intellettuale più innovativo della capitale, che si riunisce per interminabili discussioni e per una attività creativa spesso collettiva in un caffè modesto ma effervescente nella parte più popolare della Medina, a Bab Souika. Da questo fermento del gruppo “Taht Essour” nascono le composizioni di grandi poeti, il rinnovamento radicale della musica popolare tunisina, le canzoni, le novelle e le opere teatrali di Douagi.

Curiosamente, da quando ho iniziato a interessarmi a questo scrittore, mi sono per lo più imbattuta in profili biografici fortemente orientati sul cliché dell’artista “marginale” ed “emarginato”, segnato da una educazione materna permissiva, da un carattere neghittoso, da una cultura contraddittoria; un artista sfortunato, “poeta maledetto”  (un ritratto che ricalca gli artisti Bohemiens europei, alla Baudelaire o Edgar Allan Poe) dipendente  da alcol e droghe, ai margini della società, come anche il gruppo “Taht Essour”.

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Ali Douagi, a sinistra Taht Essour (ph. Jamel Chabbi)

Talentuoso quanto eccentrico, bisogna riconoscere che Douagi stesso sembra talvolta alimentare questo ritratto riduttivo di sé. Richiesto dal giovane collega e amico Zinelabidine Snoussi di tracciare il proprio profilo per le biografie dei poeti della canzone tunisina, si definisce Zabbouss, ossia l’olivo selvatico di montagna, nato spontaneamente da un nocciolo, prolifico ma di frutti agri. Sottolinea quindi l’attitudine al «piacere di fare il contrario» (Douagi, 2014: 395-6) e un certo «snobismo» nei confronti degli stili e delle scuole, giustificato – con la modestia del presunto naif – dalla ignoranza e dalla mancanza di istruzione scolastica.

Dietro questo gioco di schermaglie, cela una identità differente, di giornalista, caricaturista, scrittore affermato e accompagnato piuttosto da riconoscimenti che da insuccessi [1]. Vincitore, giovanissimo, nel 1933, del primo premio di un concorso di disegno con il ritratto di Ibn Khaldoun, Douagi si gode il riconoscimento, consistente nella crociera lungo le sponde del Mediterraneo da cui trae il racconto lungo Ǧaulaton bayne ḥānāt al-Baḥr al-Mutawassit. Poco dopo, nel 1935, è vincitore del primo concorso dell’Associazione Rachidia, appena inaugurata, con le parole della canzone d’amore “Ya Laymi yezzini”, musicata dal grande Kmaiss Ternane.

Le sue canzoni passano alla radio tunisina e sono cantate nelle sale musicali – a Bab Souika come in centro città –, così come le opere musicali, gli sketches o le pièces teatrali. Una visibilità che si contrappone vistosamente al mito della marginalità, e di cui Douagi è perfettamente consapevole, anche se la sua scelta di vita può essere definita con il termine moderno di understatement: un anticonformismo non esibito, una intelligenza arguta, che lo porta ad analizzare criticamente il suo lavoro, i percorsi del rinnovamento culturale e del successo, e ad interrogarsi sui meccanismi psicologici imperscrutabili del suo pubblico.

La lettura di questa produzione, poliedrica per generi e destinatari, e asistematica, mostra però delle costanti nella scrittura, che si possono definire come linee di una vera e propria poetica, sintetizzabile nei seguenti punti:

- l’adesione a un realismo non come astratta teoria, ma come presa diretta sulla vita reale della sua epoca nelle sue differenti identità;

- la trasposizione di questa fonte d’ispirazione in una scrittura naturale e lineare, ma non convenzionale; al contrario, Douagi fa “saltare” le linee convenzionali del discorso, sia attraverso la ricerca degli effetti comici della lingua, sia attraverso la messa in ridicolo dei clichés linguistici ed espressivi delle diverse categorie umane e sociali che mette in scena. Oltre a ciò, mobilita tutti i registri linguistici di espressione, riproduce, come un registratore ante-litteram, le diverse sfumature di pronuncia referenti all’appartenenza sociale o etnica dei suoi personaggi;

- la propensione a trasferire i suoi inizi di disegnatore caricaturista nella sua scrittura: la blague come tecnica di racconto o di scrittura, il ritratto attraverso il cesello della parola e l’attenta individuazione dei particolari caratterizzanti. Douagi inquadra il personaggio con l’occhio del ritrattista: il tratto del disegno si fa racconto, l’attitudine allo schizzo caricaturale si fa narrazione umoristica;

- la propensione al racconto dialogico e di brevi dimensioni, che diventa stilema di ogni suo scritto, la inserzione del personaggio interlocutore – spalla o antagonista –, ossia la drammatizzazione del testo, narrativo che sia, o articolo di giornale o persino le canzoni;

- la costante autobiografica nella sua narrazione. La memoria va al modello stilistico del racconto o dialogo filosofico dell’età illuministica, alla Diderot; alla prosa di Sterne o alla prosa satirica del Leopardi delle Operette morali.

Ma la lettura delle sue opere amplia l’angolazione: quella che ho individuato come la sua Poetica, non enunciata attraverso scritti teorici, nell’esercizio quotidiano di scrittura può essere assunta come la identità dell’intero gruppo “Taht Essour” in cui Douagi stesso si riconosce, si identifica, e di cui traccia la storia, i princìpi, il valore nella vita culturale contemporanea, divenendone teorico in actu. Mi riferisco in particolare a due scritti di Douagi: in ordine cronologico, la recensione L’arte si sviluppa, comparso sul periodico “Zamen” / “Le temps” il 31 marzo 1936 (Douagi, 2014: 349); e il racconto Taht Essour, pubblicato a puntate sul periodico “Esboa” / “La semaine” nel 1946 (Douagi, 2014: 156-7).

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L’uomo dal burnous grigio, caricatura di Amor Ghrair

Dunque lo scrittore si affida al prediletto genere del racconto, e lo organizza come racconto nel racconto, à rebours, ambientato come incontro al caffè Taht Essour con «l’uomo del burnous grigio», Mohamed Ben Fadhila, proprietario del giornale “El Watan” con cui Douagi collabora; con lui avvia la rievocazione con il gioco della lettera A, iniziale della maggior parte degli aderenti e frequentatori, a partire da Khali Ali, il proprietario del caffè, e dal cameriere. Il gruppo artistico è definito «l’epoca degli A», con un bisticcio sulla polisemia della parola “ouioun”, il plurale della lettera dell’alfabeto, degli occhi e della sorgente, metafore dello scrittore e del suo lavoro di osservatore e fonte di cultura. Douagi lancia poi implicitamente la sfida al suo interlocutore e ai lettori per l’identificazione dei diversi artisti, chiamati all’appello attraverso la tecnica del ritrattino umoristico.

I primi «che hanno occupato le celle dell’arnia» del gruppo sono stati «professionisti dell’arte, della musica, attori e amanti del teatro, seguiti da qualche letterato interessato al teatro: «A1» il noto poeta Abderrazzak Karabaka, Hassen Z’heni (uomo di teatro noto a Bab Souika) e «A2, il fratello» Hédi l’Abidi.

«Taht Essour è diventata celebre grazie a loro fino a essere il Parnaso del Nord Africa e la sua celebrità è giunta fino a Imed Eddine in Egitto e al quartiere latino a Parigi. È diventata la stazione d’arrivo di letterati di Oriente e Occidente. Qui abbiamo accolto Mahmoud Beyrem, il professor Aster e Marcel Sauvage e Guido Medina e altri che non ricordo» (Douagi, 2014: 157).
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Sidi Maehrez a Bab Souika (ph. Jamel Chabbi)

Ancora una volta Tunisi rivela la sua matrice cosmopolita, vicina alla cultura occidentale, smentendo i critici che liquidano Douagi con l’etichetta di una “vita sprecata al caffè”: la consuetudine di artisti e intellettuali di trascorrere il loro tempo e di lavorare al caffè non è perdita di tempo e non rientra nel folklore tunisino. Il caffè come spazio creativo, di discussione e di lavoro, è una tradizione secolare in Europa. Il progetto Taht Essour di «décalciner la culture», di rinnovare il panorama culturale prende consistenza nelle discussioni di giovani spesso squattrinati ai tavoli dell’omonimo caffè fumoso e decentrato, come nelle capitali occidentali, la Parigi della Belle Époque di Toulouse Lautrec e Modigliani, la Milano futurista, la Firenze del Giubbe Rosse di Saba, Svevo e Montale. E Douagi sottolinea l’impegno intellettuale di questa attività, ricordando che a Taht Essour non ci si sedeva “per caso” e che gli appartenenti al gruppo chiedevano un test per aprire a nuove presenze. Per esempio, Mohamed L’Aaribi, “l’A4”, il “perfetto bohémien”, autore tra l’altro della famosa canzone “Hedhi ghouneia jdida”, fu sottoposto all’esame attraverso la lettura di un suo componimento prima di essere accolto (Douagi, 2014: 164 e sgg).

La formazione del gruppo, il Parnaso del Nord Africa, viene anche in questo caso ricostruita da Douagi attraverso la storia delle persone, come racconto di «el moatejila», il transfuga, cioè come migrazione da un caffè all’altro, da parte di Douagi, A1 e A2. In realtà l’abbandono del caffè di Bab Menara e dei poeti «Fosha» di lingua araba, raccontato come la storia comica di un interminabile malinteso tra un poeta e un musicista sui ritmi musicali, rappresenta una scelta culturale: l’abbandono della letteratura classica, delle discussioni teoriche fumose e inconcludenti, della musica di basso livello «tra i nove e i quattordici carati», scritta da compositori di Sidi Mardoum che non conoscono le partiture, come i poeti delle loro canzoni non conoscono le regole della scrittura poetica e non vanno oltre «isa el hakka samsalik» (“ija el hakka shams alik”). Ossia, le troupes per i matrimoni di Halfaouine, composte da musicisti ebrei di Ben Ghazi, quindi libici, stanziati a Sidi Mardoum in attesa di ingaggi, dei quali Douagi satiricamente riproduce la pronuncia tuniso-ebrea.

Le discussioni a Taht Essour non portano a formulazioni teoriche ma all’ambizioso progetto di contrapporsi alla cultura ufficiale, beylicale e accademica, ad affermare la poetica del realismo, della presa diretta sulla vita, soprattutto popolare nelle diverse forme artistiche: nella letteratura, nella pittura, nella musica, nel teatro e nelle canzoni.

A proposito della consonanza dei valori della nuova arte di Taht Essour risulta fondamentale l’articolo L’arte si sviluppa (del 1936), in cui Douagi recensisce la quarta esposizione della “Giovane Scuola” di pittura e traccia poi, nella seconda parte, un quadro chiaro anche della nuova poetica musicale del gruppo. Nel passare in rassegna gli artisti presenti nella mostra, Douagi non cela le sue predilezioni, che corrispondono alla sua idea di un’arte che riproduca la realtà tunisina nella sua specifità, o nel suo lato paradossale, attraverso il comico della caricatura, come Ali Ben Salem e Amor Ghrairi, o il debuttante Azzedine Ben Abdallah, tutti appartenenti a “Taht Essour”.  Ma non trascura le altre presenze, di cui coglie le novità, anche se a lui meno congeniali, come Rached Hafidi, lo zitouniano Rachid Banna, chikh autodidatta ma artista, e il giovane Hatem El Mekki.

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Bab Souika (ph. Jamel Chabbi)

L’articolo su “Zamen” non si limita a recensire la mostra di arti plastiche, ma trapassa a parlare di cambiamento nel campo della musica. Douagi, dopo il racconto “Taht Essour”, torna in questo articolo sull’orgoglio chiuso e superato dei musicisti orientali; a pochi anni dal Concilio universale della musica araba del Cairo (1932) e dalla fondazione a Tunisi della Rachidia, nel 1934, le sue parole suonano come la pars destruens di una nuova poetica musicale. Il musicista orientale è accusato di essere chiuso alla universalità del linguaggio musicale, legato alle canzoni d’amore e non alla realtà della vita e alla variegata ricchezza dei sentimenti:

«Il musicista orientale è installato nella sua casa e non ascolta che musica locale, convinto del suo stato stabile, isolato dallo sviluppo della musica occidentale».

 Oltre a ciò, il musicista non è sensibile alle ragioni del poeta e al senso del testo, quando non ignorante e incapace di comprendere la poesia stessa: cerca dunque nel testo il ritmo delle parole e la possibilità di essere cantate; poi, sull’«umore» del momento, intona i modi a lui congeniali. Radicato nel patrimonio musicale antico, «guarda gli strumenti musicali d’oggi come mia nonna guarda un aereo nel cielo» (Douagi, 2014: 352).

Nonostante il ricorso agli strumenti di scrittura prediletti, qui Douagi inasprisce la sua prosa e le sue critiche; nel condurre le sue argomentazioni attraverso il confronto tra poeti e musicisti orientali, non propone esempi positivi tra i compositori contemporanei. Eppure in controluce la poetica musicale è chiara e parla di un rinnovamento dei modi musicali e della strumentazione attraverso l’apertura, l’inclusione della musica occidentale e contemporanea. Eppure, fa appello alla collaborazione con il poeta, che già ha aperto il suo lavoro all’espressività modulata dei sentimenti e della realtà.

Sono gli stessi principi del suo lavoro di autore di canzoni e del rinnovamento che in quello stesso periodo andava discutendo ed elaborando con il più grande esponente della nuova musica tunisina, Hédi Jouini. È Jouini a reinventare la musica tradizionale tunisina sulla fusione di ritmi occidentali e orientali e sulla valorizzazione, attraverso il ritmo e la frase musicale, delle parole dei testi. Solo pochi anni più tardi, nel 1939, Jouini raggiunge vertici di successo con la canzone “Hobbi yetbaddel yetjadded” [2], un tango che ha cesellato le appassionanti immagini sulla ineluttabilità della passione amorosa scritte da Douagi.

Di fatto, nei suoi scritti – almeno a mia conoscenza – non c’è spazio né menzione per questo gigante della scena musicale, protagonista anche delle discussioni al caffè di Bab Souika; come non c’è spazio per Kmaiss Ternane o per Salah Khmissi, con cui Douagi compone la canzone “Ahsen Nawara”, una canzone “meta-poetica” che costituisce la realizzazione della intesa tra compositore e poeta auspicata nei suoi articoli. Anzi, nella ricchissima rassegna di figure e figurine della società artistica l’unica assente totale è la categoria dei musicisti. Questo silenzio resta un nodo da indagare, soprattutto considerando l’acume critico di Douagi che nel mondo dello spettacolo si rivela anche attento osservatore delle dinamiche del successo presso il pubblico.

5Attraverso la sua produzione per lo spettacolo – radio, Rachidia, Teatro, il Municipale o la Salle de Rue d’Alger o le sale di Halfaouine – si può raccontare il volto della Tunisi beldeya, borghese, degli anni Trenta, che non disdegna di frequentare le sale più popolari, dove il poeta e il suo gruppo sono habitués, spesso protagonisti di scherzi sullo stile degli amici burloni di “Amici miei”.         Nel circuito di creazione produzione allestimento collocazione e fruizione non ci sono barriere sociali o di appartenenza, salvo la consapevolezza della novità proposta dal Gruppo. È questa l’identità della Tunisi dell’epoca, di cui Douagi propone acuta lettura, attento alle sfumature sociali, culturali e linguistiche, anche nella sua scrittura narrativa.

Nei suoi racconti – tranche de vie – il pubblico aristocratico frequenta i locali più popolari, gli artisti più noti abitano a Bab Souika e Halfaouine, come Chefia Rochdi e il direttore Mohamed Ben Fadhila, protagonisti del racconto L’angolo luminoso (Douagi, 2014: 239-246). Nelle novelle di Douagi, la Medina di Tunisi a lui contemporanea mostra il suo volto plurale: è un microcosmo multietnico e multiculturale di convivenza e rispetto, che esce a tinte vivaci dalla penna caricaturista e dalla attitudine al comico dell’autore.

Come camminando in Medina nelle diverse ore della giornata, ci si può imbattere negli italiani o maltesi di Bab El Khadra, come lo zio Giacomino, arrivato avventurosamente in Tunisia dalla Sicilia per ritrovare la fidanzata rapita dai commercianti di fanciulle, conquistato dalla umanità e gentilezza dei tunisini e rimasto infine a Tunisi con la sposa; o come la giovane siciliana vestita di un giallo smargiasso, in uscita domenicale verso Hammanlif con il suo Romeo tunisino;  o le macchiette del maltese e dell’italiano che raggirano lo sprovveduto Douagi che  ha deciso di dedicarsi alla pesca lungo il canale verso La Goulette.

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Bab Souika (ph. Jamel Chabbi)

Altrettanto visibile, la comunità ebraica, ben radicata nella Medina, può essere ricordata di sfuggita attraverso il nome di un personaggio; o nel cliché dell’ebreo usuraio, «il vecchio israelita» cui si rivolge l’io narrante per poter soddisfare i desideri di un’affascinante neo vicina di casa. Molto probabilmente ebreo e francese o italiano (lo erano la maggior parte di medici e farmacisti a quel tempo a Tunisi) è il protagonista-narratore di Il segreto della settima camera (Douagi, 2014: 271 e sgg.), un racconto dalla struttura complessa, a scatole cinesi, affidato al dottore dell’ambulatorio-dispensario del quartiere, cui si affidavano spesso anche le prostitute malate di sifilide che non potevano esporsi a cure ospedaliere. Un medico abile affabulatore, colto, che cita «il nostro poeta Scalesi» e che si congeda canticchiando Abdelwaheb “Al-Hawa- Wal – Chabab” ossia “L’amour et la jeunesse entre tes mains”.

Figure e figurine della Medina: italiani, maltesi, portoghesi, cattolici, ebrei, musulmani; cantanti, artisti, giornalisti, medici e prostitute; la malmaritata con un uomo alcolizzato ma, soprattutto, appassionato di lettura; l’eccentrico e solitario zio Bakhir, umile portatore d’acqua; in conclusione un’umanità varia, frutto delle sovrapposizioni di etnie e di culture nei secoli, ritratta nella sua diversità e unicità. È questa la vera identità della Medina e di Tunisi: un luogo di condivisione e di tolleranza, aperto alla convivenza di religioni, credenze e tradizioni.

È il ritratto che ho trovato condensato nelle parole del Ministro degli affari culturali Mohamed Zin El Abidine, con cui vorrei chiudere il mio contributo:

«Des photos à raviver la mémoire patrimoniale… Des essais picturaux où des jeunes tracent des lignes, cherchent des formes et emploient des couleurs…pour briser le silence, le contenir, l’affranchir et le déployer….  Ailleurs, des poètes, écrivains, artistes, illustres penseurs…. des danseurs, musiciens des temps lointains toujours présents, sculptant l’ineffable, l’indicible…
Si cela pouvait au moins rappeler, pour laisser apprécier, respecter cette Tunisie d’antan que l’on aime et admire dans sa diversité….Que de régions! Que de mémoires! Que de sédiments pour cette histoire cumulée…et à venir. Dans cette Tunisie plurielle, la culture est “tout” indissociable au vécu des sociétés… créativité, beauté, pluralité, rationalité, sensibilité, émotivité, proximité… sans préjugés, sans hiérarchie, sans exclusive » (Tunisi, 12 gennaio 2019, Citè de la Culture, in occasione della giornata dedicata alla regione di Tozeur, nell’ambito del progetto “les citès des Arts”).
 Dialoghi Mediterranei, n. 37, maggio 2019

[*] Questo contributo è stato presentato, con varianti nel titolo e in alcune parti, al V Convegno internazionale Studi Mediterranei, Cartagine, 18-19 Febbraio 2019, “Identità fluide transnazionali”. Un sentito ringraziamento a Jamel Chabbi, che mi ha seguito con pazienza nelle traduzioni, e autore delle immagini a corredo.
 Note
[1] Collaboratore di  almeno una decina di giornali e riviste, Douagi fonda nel 1936 un suo giornale, “Essorour”, di cui escono sei numeri, chiuso poi per mancanza di fondi; nell’edizione delle opere curata da Taoufik Bakkar compaiono 28 racconti e 49  opere teatrali; la sua produzione trova due momenti di particolare e felice creatività, nel 1936 -38, il periodo più spregiudicato e di rottura con le tradizioni, che lo fa conoscere alla radio e in teatro (per esempio, la pièce Malentendu),  e poi nel periodo 1944-46. In effetti (Douagi, I, 2010: 35) nel 1944 Douagi torna in radio dopo sei anni lontano dal pubblico.
[2] Su questa collaborazione di Douagi con Jouini si veda Rosy Candiani – Jamel Chabbi, Migrazioni culturali di una canzone di Hedi Jouini, in Visioni mediterranee: itinerari, identità e migrazioni culturali, Atti del colloquio, a c. di Meriem Dhouib, Tunisi, 2016: 181-194.
Riferimenti bibliografici
Chater, Khaled, Le périple méditerranéen d’Ali Douagi (1933), in « Itinéraires méditerranéens », 2009: 6.
Cusumano, Bianca, Voci mediterranee così vicine così lontane, in “Dialoghi Mediterranei”, n.6, marzo 2014.
Douagi, Ali, Amel Kamila (Opere complete), a c. di Taoufik Bakkar, I.1-2., Al Masrah (Teatro), Tunisi, Imprimerie Finzi, 2010; II., Al Kasas (Racconti), Tunisi, Imprimerie Finzi, 2014.
Khalfallah, Nejmeddine, Quand la société atteint le ridicule, l’artiste la distrait, Introduzione in Ali Dou’aji, Dix nouvelles de Tunis, Tunis, Académie tunisienne des Sciences, des Lettres et des Arts, 2013 : 7-14.
Madani, Ezzedine, ac. di,  Ali Douagi, Taht Essour, Tunisi, Maison tunisienne d’Edition, 1975.
Marangon, Michele, Ali Douagi: attualità di un autore tunisino “marginale”, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 18, marzo 2016.
Salvioli, Marianna,  La letteratura tunisina e il viaggio in Europa : periplo, migrazione o esilio, in « La rivista di Arablit” IV, 2014: 211-225.
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Rosy Candiani, studiosa del teatro e del melodramma, ha pubblicato lavori su Gluck, Mozart e i loro librettisti, su Goldoni, Verdi, la Scapigliatura, sul teatro sacro e la commedia musicale napoletana. Da anni si dedica inoltre a lavori sui legami culturali tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sulle affinità e sulle identità peculiari delle forme artistiche performative. I suoi ultimi contributi riguardano i percorsi del mito, della musica e dei concetti di maternità e identità lungo i secoli e lungo le rotte tra la riva Sud del Mediterraneo e l’Occidente.

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