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De bello social: la guerra dell’#Odio virtuale

 

odiodi Valeria Dell’Orzo

La parola, la libertà del suo uso e il diritto di espressione, uniti alle possibilità di spersonalizzazione del parlante e del messaggio offerte dalle innumerevoli piattaforme, dai social, dai media, aprono terribili squarci di disumanità. Si tratta di una brutalità che va intesa nella sua evidente dimensione di spiccata dichiarazione di fragilità umana, di incapacità relazionale, di strappo tra l’individuo e la sua necessaria estensione comunitaria e del conseguente bisogno di creare e ripiegarsi al tempo stesso all’interno di un nuovo sub-gruppo umano che trova nell’odio la sua forma e la sua forza aggregativa.

Col suo #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole (Utet 2020), il sociolinguista Federico Faloppa ci accompagna con lucida puntualità lungo un percorso di analisi, di consapevolezza e di introspezione dell’uso violento delle parole, di quell’hate speech che caratterizza sempre più frequentemente il panorama della comunicazione verbale. L’aggressività riversata sull’altro, su un altro che molte volte è a noi distante ma che per attrazione mediatica è entrato a far parte della cerchia di coloro che possiamo ritenere raggiungibili. È lo specchio di un’insoddisfazione profonda che non trova altro sfogo che sgorgare riversandosi dalle tastiere agli schermi.

Dietro la cruda ferocia di certi sproloqui, di invettive che il più delle volte distorcono gli eventi, rendendo torbido e impenetrabile lo spazio del dialogo e del confronto, non si trova altro che una malcelata dichiarazione di paura. In quella violenza risiede l’ammissione di una propria, percepita e dissimulata, inferiorità di fronte al totem immaginario del proprio rivale virtuale, di colui grazie al quale è possibile esacerbare e prorompere tutto il proprio malessere, rovesciandolo come un nauseabondo sversamento solforico sullo spazio plurimo del virtuale.

Rifugiarsi dietro l’incolpevolezza di parole che solo apparentemente non diventano azioni permette di esternare una ferocia senza regole, capace di lasciare segni profondi, cicatrici non rimarginabili, gli effetti rovinosi prodotti dalla tentacolare e vertiginosa dimensione del mondo virtuale.

Trincerarsi nell’incolpevolezza della propria violenza, usando come alibi la finta fragilità di cui si traveste l’impalpabile elemento verbale, non toglie nulla della realtà che il significante trasmette e che il significato veicola. La parola, nelle sue forme espressive, è a tutti gli effetti uno strumento performante, capace di forgiare il mondo tangibile e morale, producendo effetti concreti nello spazio intimo e comunitario. L’hate speech è capace di declinarsi in differenti forme, ma solitamente viene sanzionato solo quando si traduce in esplicite, e non rare, incitazioni alla violenza, arricchite da minacce; eppure, come nota lo stesso Faloppa, esistono molte forme di discorso d’odio, spesso camuffate da inoffensive opinioni personali, capaci però di provocare profondo dolore e paura nel bersaglio di questo attacco, e molte volte di dar vita a fenomeni aggregativi che possono materializzarsi e precipitare fuori dallo schermo in pericolose derive di furore e violenza.

Distinguere la libertà di parola dalla libertà di aggredire e ferire è, dunque, sempre più urgente nella realtà contemporanea, che da una parte ostenta quei diritti democratici faticosamente ottenuti e ancora da rivendicare, purtroppo, in tanti Paesi del mondo, dall’altra ritorce quel diritto in un’arma di offesa, un veicolo di rabbia che si moltiplica nel gioco esponenziale del rilancio impunito di ogni efferatezza, protetta dall’anonimato, dalla distanza con l’interlocutore o dalla folla di altri odiatori entro la quale tuffarsi, mimetizzarsi, confondersi. Quella massa indistinta, composta da coloro che, raggiunti dagli echi delle parole d’odio, le hanno trasformate nella loro egida da battaglia, muta in forma di un’onda capace di far crescere la propria violenza dietro alla spersonalizzazione dell’io virtuale. In quella trincea ci si ripara e ci si apparta come dentro una realtà esistente solo nello spazio social-mediatico, non riconducibile, in apparenza, al mondo reale fatto di persone e non di nomi e nickname, di un sentire concreto e non di una traslucida rifrazione di pixel.

«I media digitali creano dipendenza e ci privano del sonno. […] Danneggiano la memoria, diminuiscono l’impegno mentale […] Per quanto riguarda la mente e i rapporti interpersonali, non mostrano effetti positivi, quanto piuttosto numerosi effetti collaterali: su internet si mente e si tradisce più spesso che nel mondo reale. […] I social network danneggiano il comportamento sociale e favoriscono fobie e depressione» (Spitzer, 2013: 237)
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Franz von Stuck, Inferno, 1908

La violenza, sia essa fisica o verbale, ha da sempre avuto delle specifiche forme di espressione, dei limiti culturalmente tracciati, degli argini entro i quali anche l’efferatezza viene codificata, agita e compresa, resa intelligibile nella sua realtà. Ciò che si attesta oggi, grazie alla scissione dei piani del vivere reale e virtuale, è la perdita di quella riconoscibilità del limite e al tempo stesso dell’identità profonda dell’atto violento. La pluralità dell’io contemporaneo si moltiplica nella transizione dal reale empirico alle differenti dimensioni virtuali che di volta in volta ne allungano la rete sociale di pertinenza, estendono la diffusione delle parole e dunque il raggio di azione di quel pensiero di odio scagliato come un dardo.

Eppure non è solo attraverso l’anonimato, figlio della pluralità virtuale, che si crea lo sdoppiamento tra l’io sociale e l’io dei social. Anche coloro che dalla notorietà non vogliono e non possono uscire solo filtrando se stessi attraverso il proprio io virtuale, si ritrovano a scivolare tra le insidie di uno spazio che sembra permettere tutto, che si offre come riparo dal concreto, come barricata dalla quale colpire alla cieca e senza rischi. La violenza perpetrata di tweet in tweet da svariati esponenti politici permette loro di raschiare senza sosta le incrostazioni della rabbia e della frustrazione sociale, agitando una mota di ferocia veicolata ma incontrollabile al tempo stesso.

Difficile è altresì scindere se il soggetto danneggiato sia l’individuo o ciò che rappresenta: a essere colpiti dal crescere della violenza verbale sono molte volte le categorizzazioni o più esattamente una parte per il tutto, una persona in nome di un approssimativo, quanto indistinto, gruppo umano al quale viene ascritto, secondo un’appartenenza non sempre riconosciuta dal soggetto stesso ma stabilita dagli osservatori virtuali pronti a sottrarre le sfere dell’unicità dal macro-gruppo degli avversari da annientare.

«Benché negli ultimi tempi – scrive Faloppa – il dibattito sull’odio online si sia arricchito di contributi importanti tanto sul piano etico quanto su quello sociologico e tecnologico, sembra che l’hate speech non sia stato né bloccato né ridimensionato, ma sia invece entrato un po’ in tutti gli ambiti e registri, dando vita a una sorta di continuum discorsivo e a un rumore di fondo pervasivo difficile da ignorare, anche e soprattutto grazie alla sua diffusione online. Un rumore che sarebbe responsabile, tra le altre cose, di “processi di radicalizzazione individuali”, di “soggetti attestati su posizioni estremiste”, di una “pervasiva propaganda istigatoria”, e di “insidiosi rigurgiti neonazisti” fra i giovani come si legge nella relazione annuale dell’intelligence italiana che il capo del DIS Gennaro Vecchione ha presentato in parlamento il 2 marzo 2020».

La spaccatura tra la realtà fisica e quella virtuale si riduce drasticamente fino ad annullarsi nella omologazione della rabbia incubata e consumata. Mossi da un bilioso susseguirsi di tweet, accomunati da frustrazione, bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di sciogliere nel gruppo i nodi delle proprie inadeguatezze al vivere sociale, un manipolo – interessante è qui il gioco etimologico che lega il manipolo all’atto del manipolare – variegato di statunitensi si è così riversato come una strampalata orda barbarica alle porte della Casa Bianca, facendo irruzione tra violenze e bizzarrie carnevalesche. Cow boy pistoleri, negazionisti no vax, immigrati di seconda o terza generazione mal-travestiti da nativi, difensori dei confini, militari e ex militari, sostenitori politici dei poteri forti e cospirazionisti, uniti in una baraonda violenta e scalmanata, che ha trovato il proprio collante nelle incitazioni di un decaduto leader mondiale. A scatenare il tutto, a causare delle vittime, sono state l’insoddisfazione, la frustrazione, il crescente analfabetismo funzionale e le parole. Le parole rabbiose di un esponente politico, un uomo d’affari abituato a primeggiare. Il passaparola popolare del web ne ha amplificato gli effetti, aggregando malumori e risentimenti di eterogenea natura e pianificandone l’esplosione e il caos liberatorio.

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Franz von Stuck, La lotta per la donna, 1905

L’esempio americano del recente assalto a Capitol Hill, sede del governo degli Stati Uniti, ha reso palese come l’istigazione alla furia possa trasformarsi in una reale, esagitata, grottesca quanto pericolosa perdita di controllo da parte di gruppi disparati di affiliati social. Richiamati a esternare il proprio dissenso, si sono dati appuntamento per inscenare la pantomima di un atto rivoluzionario e sovversivo, esternando però la profondità del disagio individuale che attraversa la società contemporanea, anche in una terra che è da sempre legata, nell’immaginario occidentale, alla libertà e alle infinite possibilità della volontà personale di un popolo. Un Paese, quello americano che, come ci ricorda l’antropologo Matteo Meschiari (2012), si è affermato addomesticando un continente “selvaggio”, suddiviso in Stati economicamente sezionati da linee geometriche, creato sulla base della necessità umana di fare luoghi, di creare appigli di identità anche là dove l’identità personale non riesce a affondare le proprie radici senza reciderne altre.

La violenza verbale, strutturata e socialmente riconoscibile non è uno dei frutti impazziti della società contemporanea che vede nell’omologazione la sua deformata forma di purezza. In realtà è un fenomeno antico, indissolubilmente legato allo sviluppo comunitario, alle dinamiche della politica, dell’organizzazione collettiva e dell’indiscusso potere della parola. «L’hate speech – scrive Faloppa – non è un fenomeno nuovo […]. Ma certamente le sue modalità sono mutate nel tempo: e questo è ancor più valido quando il tempo, a causa di rivoluzioni tecnologiche, subisce un’accelerazione. Come è avvenuto negli ultimi decenni». Per molto tempo, continua l’attenta analisi di Faloppa, il discorso d’odio, la violenza pressata nell’atto del comunicare, ha assunto la forma del rancore, dell’ideologia dello scontro e della prevaricazione, della lotta cieca contro un nemico politicamente, etnicamente o geograficamente connotabile, rimanendo però trattenuto dalle maglie dell’educazione al politically correct. Negli ultimi anni appare evidente come anche questa forma di autocontrollo, questa – per quanto falsa – abitudine a limitare gli eccessi verbali e espressivi, si sia rarefatta e la comunicazione pubblica sia stata trascinata sul piano di una feroce immediatezza che non permette il tempo dell’analisi, la riflessione sulla reale portata del concetto espresso, che non riesce più ad arginare i possibili effetti negativi, per la società tutta, di un’esternazione scomposta e pulsante di rabbia, violenza, ira ossessiva, ripetitiva e martellante.

Quella che ci troviamo di fronte oggi – osserva Faloppa – è «un’aggressività sempre più virtuale (ma con ricadute reali), laddove il bersaglio è percepito non più, o non tanto, come una persona, ma come il generico elemento di una narrazione, un’icona, un soggetto che non conosciamo o un oggetto deumanizzato: che poi fuori dal web 2.0 sia anche un essere umano in carne ed ossa è del tutto circostanziale e ininfluente. Un’aggressività, infine, sempre più normalizzata, sempre meno ostacolata da stigma sociale».

Eppure la storia ci mostra con evidenza cosa può essere generato dall’odio sociale, quali forme possono assumere gli odiatori e quante vittime possono essere mietute dall’odio. Dovrebbe quindi essere evidente a tutti che, contrariamente alla supponente idea di essere protetti nel mondo del web da uno scudo di irrealtà, quel mondo appartiene a quello reale, ne è parte integrante ogni giorno di più e tutti gli effetti di quello spazio si riversano nella concretezza odierna di ognuno di noi, anche di quell’indistinto altro, disumanizzato da un gioco di rappresentazioni virtuali, che si muove come noi in un continuo scambio di binari tra online e offline, tra display e realtà, tra simulazione e vita.

Dato che la carica di ferocia delle parole produce e riproduce l’odio da cui muove, essa può fungere da calamita, da amplificatore della violenza altrui, di coloro che mossi da uno spirito emulativo e sobillati dal richiamo al rilancio in un gioco di sovraeccitazione di massa si scagliano in un crescendo di orrori, di deformazioni e trasgressioni dell’etica socialmente condivisa, delle regole elementari della convivenza, dei fondamenti della socialità umana. Occorre chiedersi cosa si possa scatenare nella mente di coloro che di tali attacchi – grondanti di rabbia – si trovano a essere il bersaglio, l’oggetto e non più il soggetto di un dialogo, una sagoma a cui puntare per dare sfogo alla propria frustrazione.

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Franz von Stuck, Dissonanza, 1910

«La violenza nei media aumenta il potenziale violento dei giovani» sottolinea il neuroscienziato Manfred Spitzer (2013: 245), indagando gli effetti prodotti dall’appiattirsi della mente sul mondo digitale e virtuale. Non sono solo i più giovani a mostrare bassa resilienza verso le seduzioni dell’incolpevolezza virtuale, il fenomeno è in realtà ben più esteso e trasversale, includendo anche e soprattutto coloro che nei confronti del potenziale del web hanno ben poca competenza e si limitano a ingollare e inoltrare ciò che si offre come più sensazionale e controcorrente.

Il fenomeno delle fake news, che iniziano a dilagare su piattaforme dirette come quella di Whatsapp per poi sgorgare dilaganti sugli altri spazi digitali, investite di presunta realtà grazie al gioco di trasmissione tra conoscenze dirette e legate al mondo fisico, è un altro punto sul quale si soffermano la ricerca e l’analisi di Faloppa che riporta le lucide parole della cofondatrice dell’Associazione Vox Diritti di Milano, Silvia Brena. Soffermando il suo sguardo sui fenomeni d’odio digital-reali, sulla trasfusione del discorso d’odio nella subdola sfera delle false notizie che scivolano insidiose di chat in chat, tra amici e conoscenti, divenendo per ciò stesso credibili poiché riteniamo lo sia l’interlocutore col quale condividiamo anche spazi del reale e non solo quelli del web, la studiosa afferma che «questo discorso è più subdolo di quello d’odio fatto di insulti e minacce: perché diffonde paura e diffidenza attraverso falsità. E dopo aver disseminato il panico attraverso WhatsApp, rimbalza in forma più diretta sui social tradizionali».

Per superare l’abitudine all’eccesso, la discesa verso gli abissi efferati dello scontro, è necessario indagare fin dove la libertà di espressione può estendersi prima di diventare violenta o vessatoria e contestualmente sondare l’esistenza e le forme di controllo che possono limitare la libertà dialogante o di offesa. Occorre chiedersi quanto la diffusione di una menzogna, di un’alterazione voluta o accidentale della descrizione della realtà possa farsi portatrice, a sua volta, di un crescendo infausto dell’odio sociale, della cieca rabbia destinata a moltiplicarsi di bocca in bocca, di corpo a corpo sul web e nelle piazze.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
 
Riferimenti bibliografici
Federico Faloppa, #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, Utet, Milano, 2020.
Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962.
Matteo Meschiari, Spazi Uniti d’America. Etnografia di un immaginario, Quodlibet, Macerata, 2012.
Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio, Milano, 2013
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 Valeria Dell’Orzo, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.

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