Da qualche anno mi dedico alla cura di un piccolo orto. Lo faccio nel retro di un gruppo di case popolari, dove un’amica mi ha gentilmente concesso l’usufrutto di un minuscolo fazzoletto di terra. L’iniziativa è partita con molto entusiasmo, con grandi attività di pulizia del terreno dalle innumerevoli specie vegetali che l’avevano occupato nel periodo di latitanza dei proprietari. Le cosiddette erbacce erano praticamente dappertutto e per niente disponibili a lasciarci prendere possesso del loro regno. L’ipotesi del diserbo chimico non ci è mai passata per la mente e quindi l’unica soluzione è stata piegarsi verso il basso e strappare. Ma anche così, abbiamo ben presto realizzato che il nostro orto non sarebbe mai stato un fulgido esempio di ordine e pulizia. Basta l’assenza di un paio di settimane ed eccole lì a rispuntare tra i ceppi di insalata e le piantine di pomodoro appena seminate.Un amico che si occupa di permacultura [1] ha osservato sorridendo i nostri sforzi, permettendosi con molto tatto di far presente che la battaglia con le erbacce è persa in partenza. Non le puoi eliminare, puoi solo fartele amiche trovando un accordo rispetto all’occupazione dei reciproci spazi, e tentare di andare avanti più o meno in armonia.
Il mio personale rapporto con l’orto mi è subito tornato in mente quando ho avuto tra le mani per la prima volta il libro di Adriano Favole La via selvatica. Già l’incipit è stato per me una sorta di epifania, in cui ho rivisto sotto tutta un’altra luce la storia di guerra, pace e vari armistizi con le erbacce:
«Il selvatico, l’incolto, non è il caos: è la vita che si organizza, che germoglia, che si stratifica come i coralli, che si incontra e si scontra, la vita che rinasce continuamente nei dintorni di quella organizzazione che chiamiamo ‘cultura’» (Favole 2024:3).
Il fatto stesso che la parola cultura fosse nella stessa frase di selvatico e incolto, ha stimolato enormemente la mia curiosità, perché ha riacceso in me l’interesse per l’infinito e mai concluso dibattito tra Natura e Uomo. Un dibattito oggi più che mai attuale, e oggetto di grande interesse da parte degli studiosi di antropologia, in quanto le tematiche ambientali sono diventate esse stesse fatti culturali. Natura e Uomo, due entità che siamo abituati a pensare in opposizione, l’uno nettamente smarcato dall’altra.
La via selvatica è invece una strada verso il superamento di questa visione dicotomica, una finestra aperta sulla possibilità per l’essere umano di essere dentro quel sistema di relazioni chiamato Natura, invece di chiamarsene altezzosamente fuori, salvo poi accorgersi che le fondamenta su cui ha costruito il proprio mito del progresso si sgretolano insieme agli ecosistemi che ogni giorno preda e minaccia.
Adriano Favole è un antropologo e questo è un libro di antropologia. Tuttavia, quel costrutto fondativo della nostra disciplina, la cultura, pagina dopo pagina si sfila dalla visione antropocentrica che l’ha da sempre connotata. Se la cultura è la nostra visione del mondo, il sistema di significati con cui interpretiamo la realtà attorno a noi, allora non è possibile parlare di cultura se non in stretta risonanza con l’ambiente naturale e con quello che Adriano Favole chiama incolto.
Ma che cosa si intende per incolto? L’incolto è innanzi tutto uno spazio biologico, un contesto ambientale che sta a metà tra i luoghi abitati dal selvaggio (le foreste vergini, le profondità marine, la montagna, i deserti e tutti quegli ambienti non toccati o toccati in minima parte dalla presenza dell’essere umano) e la natura addomesticata (i campi coltivati, i parchi delle città, i giardini). In mezzo e/o in sovrapposizione sta questo spazio ibrido, meticcio, in cui l’uomo è presente, ma la sua funzione regolatrice e di supremazia rimane un po’ ai margini. Nel senso comune, incolto è trasandatezza, un po’ come le erbacce del mio orto. Ma se l’uomo è anche e soprattutto cultura, l’incolto diventa quel luogo in cui le culture producono significati che trasformano lo spazio e da cui ne vengono trasformate. È uno spazio che l’uomo talvolta tenta di addomesticare rendendolo un campo coltivato, e che altre volte decide di cancellare del tutto nella sua smania di ordine e pulizia, costruendoci sopra qualcosa. Ma è anche uno spazio vitale, fertile, relazionale, che molte delle culture tradizionali hanno preservato, nutrito e a volte persino sacralizzato. È il caso ad esempio dei giass, termine che nel dialetto piemontese sta ad indicare ampie radure sottratte alla foresta dove l’uomo lascia timidi segnali di sé: qualche baita, prati dove i passanti si concedono di una sosta, pascoli semi abbandonati ma abitati da una pluralità di forme di vita. Luoghi in cui cultura e natura si incontrano e si fondono.
Ma quando la cultura diventa espressione di prevaricazione e intento di dominio di esseri umani su altri esseri umani, i territori dell’incolto diventano la casa di popolazioni al margine: schiavi, fuggitivi, resistenti, outsiders. Se civiltà, cultura e città diventano l’emblema dell’uomo evoluto ed emancipato dalla natura, queste stesse manifestazioni dell’umano tracciano linee di divisione, diventando escludenti, relegando ai margini quei popoli che non hanno accettato di assoggettarsi o che hanno scelto di mantenere attivo un legame forte con il mondo naturale. Chi fugge dalla civiltà intesa come predominio, si rifugia nell’incolto.
Adriano Favole utilizza un termine molto felice per parlare del mondo naturale: i non umani. Un concetto che abbraccia le innumerevoli manifestazioni della natura: animali, piante, fenomeni atmosferici, pietre e terriccio. Ma in quel triste capitolo della storia del genere umano che è il colonialismo, tra i non umani è possibile annoverare anche i popoli del selvatico, coloro che sono stati ridotti a forme di vita inferiori, prive della dignità necessaria per essere considerati uomini a pieno titolo, e a cui è stato conseguentemente tolto il diritto di sovranità su un determinato territorio. Gli esempi etnografici riportati nel libro sono innumerevoli. A La Rèunion, isola tropicale dell’Oceano Indiano, gli schiavi in fuga dalle piantagioni sulla costa trovavano rifugio nelle terre vulcaniche dell’interno dando vita a forme culturali meticce e “incolte”. Nella Guyana francese è stato il reticolo di fiumi ad accogliere altri fuggitivi. Ma gli esempi di popoli dell’incolto possono essere molti altri:
«Tutti questi popoli sono accomunati dal fatto di abitare territori in cui l’incolto ha una parte importante – vulcani, deserti, praterie, fiumi e foreste – in cui diviene luogo di rifugio e riserva di cibo e risorse» (Favole 2024: 31)
Luoghi marginali dal punto di vista della domesticazione della natura da parte dell’uomo, che ospitano espressioni culturali marginalizzate, al confine delle cosiddette culture civilizzate. Eppure luoghi in cui l’uomo sceglie di situarsi in una rete di interdipendenze diversa, in cui è possibile una relazione creativa tra umani e non umani. In questo senso il colonialismo non ha avuto a che fare solo con l’assoggettamento di certi popoli da parte di altri, ma anche con l’imposizione di un certo paesaggio, l’esercizio di un certo rapporto con la natura. Coloro che hanno rifiutato la via della civilizzazione occidentale e hanno scelto una strada diversa in cui il legame con la natura non è stato reciso, sono diventati popoli dell’incolto. Hanno scelto (o sono stati costretti a scegliere) di ritirarsi in spazi in cui sperimentare forme differenti di relazione tra uomini, e tra umani e non umani, in cui l’esito finale potrebbe essere potenzialmente diverso da quello che la storia ci ha finora raccontato. Diverso in termini di uguaglianza, di accesso alle risorse, di sviluppo economico, di relazioni di potere. La via percorsa dall’Occidente non è l’unica possibile e pensabile.
Questo ci porta ad un altro tema estremamente affascinante del libro: la possibilità che l’uomo possa scegliere altre strade evolutive. Sono molti gli esempi di gruppi di umani che hanno scelto di collaborare con la natura, anziché porsi in antitesi con essa. Adriano Favole propone un termine coniato da Philippe Descola, ecologia delle relazioni, per definire il rapporto che alcuni popoli hanno instaurato con l’ambiente in cui vivono. Relazioni che non hanno a che fare solo con l’approvvigionamento delle risorse necessarie per vivere. In queste società la comunicazione degli umani con i non umani è costante, entrambi collaborano per una sorta di bene comune che è la vita del più ampio ecosistema in cui tutti vivono e di cui tutti hanno bisogno. Questo sistema fitto e costante di relazioni tra umani e non umani porta ad un concetto di cultura e società più ampio di quello a cui l’antropologia e la sociologia ci hanno storicamente abituati. In questo sistema la cultura e la società non sono esclusivo appannaggio dell’uomo ma arrivano ad abbracciare tutto il mondo vivente e non vivente in cui l’uomo stesso si situa. Gli scambi e i rapporti di reciprocità tra umani e non umani sono essi stessi società. In questa accezione l’idea di rapporto uomo-ambiente perde significato in quanto l’uomo e le sue culture non sono più elementi distinti e contrapposti alla natura. Al contrario la natura può tornare ad essere quello spazio ampio che ha da sempre ospitato varie forme di viventi e non viventi, tra cui l’uomo.
I popoli dell’incolto sono allora coloro che ci insegnano queste forme di collaborazione, forse i veri ambientalisti del tempo dell’Antropocene. Coloro che ci indicano che noi siamo sempre e comunque parte di un ecosistema, che siamo dipendenti dai non umani tanto quanto i nostri progenitori del Paleolitico. Semplicemente abbiamo modificato la forma di questa dipendenza.
I popoli dell’incolto ci mostrano che i sistemi di relazione tra umani e non umani vanno alimentati e preservati, per consentire una rigenerazione delle risorse utile e necessaria a tutti. La natura che viene protetta non è sempre e necessariamente quella selvaggia, la wilderness delle riserve naturali, ma anche quella ibridata nel contatto con l’uomo, e in questa ibridazione la parola chiave è interdipendenza. Oggi l’uomo ha bisogno di tornare a misurare le proprie azioni all’interno di un sistema di relazioni tra tutte le forme di vita, in modo da mantenere e sostenere un equilibrio complessivo che consenta l’esistenza di tutti. Un approccio che le culture cosiddette tradizionali avevano e hanno ben in mente, e che invece noi uomini dell’Occidente sembriamo aver dimenticato. Per questo il nostro sguardo è spesso miope, mentre:
«I popoli che definiamo della “tradizione” e che spesso dipingiamo come legati ad antenati e proibizioni, forse andrebbero ridefiniti come i “popoli del futuro”. Società che guardano avanti più che indietro. Cultori dei discendenti, più che degli antenati”» (Favole 2024:82).
La via selvatica si conclude con un messaggio di apertura e l’augurio di poter sostituire il termine Antropocene con uno meno noto ma forse più calzante nel descrivere la strada che l’uomo potrebbe scegliere di percorrere: Koinocene. Koinos sta per partecipazione, comunanza e altri significati che rimandano alla dimensione del bene comune. Trovo molto evocativo uno dei paragrafi finali del libro, che è anche un’esortazione a ciascuno di noi a riprendere in mano la propria storia con l’incolto e con quella parte ancestrale che ancora vibra nel contatto con i non umani:
«Abbiamo bisogno di farci coltivatori di relazioni. Abbiamo bisogno di ripartire dalla potenza della vita che rinasce e germoglia, anche nelle rovine, rovine viene da rovi, una pianta vivente. Dobbiamo reimparare a convivere con le altre forme di vita, a fidarci, a lasciar fare senza distruggere. Il termine chiave di questo libro, “incolto”, è interessante perché racchiude un senso di inattività, il fermarsi, che non è però rinuncia o rassegnazione, ma l’affidarsi ad altre progettualità, come quando si decide che è venuto il tempo di lasciar fare ai figli, alle generazioni a venire. Farsi da parte sapendo che ci sono progetti di ricostruzione anche oltre l’umano. Liberare la nostra immaginazione verso un nuovo mondo fatto di partecipazioni, di somiglianze, di relazioni da tessere come la rete di un ragno» (Favole 2024:136).
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] La permacultura è un metodo di progettazione di insediamenti umani sostenibili. Riguarda la coltivazione della terra, la produzione di cibo, ma anche l’abitare e le nostre relazioni sociali. Gli spazi progettati secondo i principi della permacultura prevedono il rispetto per tutti gli ecosistemi, anche per quelli selvatici, l’utilizzo di materiali ecologici e di energie pulite, e la gestione il più possibile collettiva dello spazio stesso. Il termine è stato coniato dal naturalista australiano Bill Mollison nel 1978.
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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