di Mariano Fresta
In uno dei componimenti in cui manifesta i suoi sentimenti personali, Giosue Carducci ci dice che il paesaggio, quello che vediamo da una finestra o da un terrazzino di casa nostra o quello che si può ammirare mentre si è su un treno in corsa, come è nel caso suo, può avere l’effetto di cambiare il nostro umore. Nel sonetto, infatti, intitolato Traversando la Maremma toscana (in Rime nuove, 1887), leggiamo che la visione, dopo lunghi anni, dei luoghi della fanciullezza gli richiama alla mente ricordi e pensieri tristi; ma ecco che il suo animo si acquieta perché
di lontano
Pace dicono al cuor le tue colline
con le nebbie sfumanti e il verde piano
Ridente ne le piogge mattutine.
Non solo la vista del paesaggio lo rasserena, ma nei primi due versi del componimento, il poeta addirittura afferma che il paesaggio della Maremma, a quel tempo ancora selvaggia, ha contribuito alla formazione del suo carattere e della sua cultura:
Dolce paese, onde portai conforme
L’abito fiero e lo sdegnoso canto …
Non occorre essere poeta, comunque per sapere che i panorami producono effetti sul nostro animo e per capire che il fisico e la mentalità di un ragazzo cresciuto in montagna sono diversi da quelli di un adolescente vissuto in una zona marittima. Sarebbe, quindi, normale riconoscere che nel rapporto fra umani e ambiente i primi dovrebbero avere comportamenti quanto meno rispettosi del secondo, se veramente volessero bene a sé stessi. Ma se Carducci, per assurda ipotesi, fosse vissuto nella Maremma odierna, senza paludi ed acquitrini, senza i latifondi incolti attraversati da cinghiali e cavalli allo stato brado e punteggiati da casupole e capanni, con i piccoli paesi arroccati sulle alture per sfuggire alla malaria, avrebbe avuto lo stesso carattere fiero e sprezzante? Impossibile rispondere ad una tale oziosa domanda, possiamo ipotizzare soltanto che il Carducci, il quale, dopo anni di lontananza, rivedeva dal finestrino di un treno nel 1887 la sua terra natia, difficilmente si sarebbe riconosciuto nella Maremma odierna, che ha perso ormai quell’aspetto selvaggio di più di un secolo fa.
Perché i paesaggi sono come le persone che si trasformano continuamente col passare degli anni: il vento e le piogge con la loro forza erosiva cambiano la fisionomia dei territori; a ciò si aggiungono eventi catastrofici come alluvioni, incendi e terremoti e guerre (si pensi, ad esempio, alla Striscia di Gaza e ai territori dell’Ucraina di oggi) che devastano intere regioni e le rendono inabitabili.
E poi c’è l’opera dell’uomo, lenta e continua, che ha bisogno di una natura addomesticata, che risponda ai suoi bisogni di sussistenza e di miglioramento della sua esistenza. Per millenni le cose sono andate abbastanza tranquillamente, anche perché gli umani avevano strumenti semplici come la vanga e il piccone, inadatti a sconvolgere le forme naturali; oggi le cose sono cambiate perché non abbiamo difficoltà a costruire ponti, a chiudere fiumi entro le dighe, a trasformare una collina in una pianura su cui edificare grattacieli, a prosciugare paludi, a distruggere le multiformi figure geometriche con cui, per la varietà delle coltivazioni, i contadini avevano ricamato pianure, colline e montagne, per sostituirle con estese, ossessive e noiose monocolture. Lo scopo principale della nostra vita, infatti, ultimamente è diventato quello degli affari, di accumulare soldi subito, anche a costo di ridurre il nostro pianeta ad un ammasso di macerie tossiche; purtroppo, le macchine a nostra disposizione oggi ci consentono, oltre ad aiutarci ad eliminare eventuali ostacoli naturali, a trasformare e stravolgere gli ambienti e con loro il paesaggio, tanto da poter usare, nell’indicarlo, il termine “spaesaggio”.
Ed è questo proprio il titolo di un piccolo volume [1] scritto da Daniele Vadalà, architetto, nonché funzionario del Ministero della Cultura, nel quale si ragiona su uno dei temi più dibattuti negli ultimi anni, quello dello spopolamento dei territori collinari e montani e dei paesi abbandonati.
Il libro è diviso in tre parti: nella prima si parla del paesaggio come ci appare oggi e delle normative statali che riguardano la sua tutela e la sua salvaguardia; nella seconda si fa un rapido excursus storico sui rapporti tra le comunità e l’ambiente e contemporaneamente si illustrano a grandi linee tutti i progetti che sono stati proposti nel corso dell’ultimo mezzo millennio per realizzare paesi in cui ci fosse una convivenza armonica tra uomini e ambiente. Nella terza parte, infine, l’Autore del libro avanza le sue proposte su come e con quali mezzi si può tornare ad avere rispetto nei confronti della natura e dell’ambiente che ci circonda e delle possibilità di riabitare i paesi e i villaggi desertificati.
Il primo argomento con cui inizia il libro, dunque, è dedicato alla legislazione relativa alla tutela del paesaggio, dalle prime norme ottocentesche fino a quelle che includono l’ambiente nella categoria dei “beni culturali”. Il cammino legislativo, messo in relazione con i vari gradi di sensibilità e consapevolezza ambientalistica della Nazione, arriva fino alle modifiche degli articoli 9 e 41 della Costituzione, avvenute nel 2022, che allargano il concetto di tutela e di salvaguardia. Sennonché, fa notare l’Autore, la nuova formulazione degli articoli non aggiunge nulla a quanto Aldo Moro e Concetto Marchesi avevano espresso nell’originale articolo 9 della Carta; addirittura la modifica è tale da ingenerare il sospetto che, invece di favorire la difesa del paesaggio, la indebolisca e la intralci, agevolando così i progetti dello sviluppo energetico senza il quale i sistemi produttivi odierni non potrebbero svolgere le loro funzioni, ma che imbruttiscono il paesaggio e lo stravolgono, come succede con i pannelli solari che coprono migliaia di ettari di terreno, sottratti all’agricoltura e al pascolo.
Con la domanda se è più giusto dare la priorità alle esigenze dello sviluppo oppure al paesaggio, inteso questo non nel suo aspetto estetico bensì come necessario fattore dell’esistenza umana, si chiude questa prima parte del volume. Non senza averci dato prima un’immagine inquietante dei paesaggi che potremmo ammirare nel prossimo futuro: l’Autore riporta, difatti, una pagina di un romanzo di Camilleri in cui troviamo Livia, la fidanzata del commissario Montalbano, che rimane “affatata”, incantata (ma potremmo dire meglio: assuefattasi allo scempio), davanti ad un meraviglioso paesaggio siciliano in cui, però, si stagliano numerose e mostruose pale eoliche.
In Italia la marginalità e lo spopolamento di molti paesi derivano dal fatto che negli ultimi decenni ha prevalso una visione al cui centro stavano la città e l’industria: la prima è stata considerata come il passaggio dal mondo antico a quello moderno; la seconda, simbolo di sviluppo e progresso, per esistere ha la necessità di risiedere in pianura e in città, la quale può espandersi senza molte difficoltà e dove è facile accentrare i servizi (uffici amministrativi, banche, trasporti) e dove risiede la massa della mano d’opera, attratta e richiamata dalle campagne, vicine e lontane; quest’ultimo fenomeno, però, ha avuto uno strascico drammatico perché è il maggiore responsabile dello spopolamento e dell’abbandono dei centri minori dislocati su un territorio in larga parte altocollinare e montano. Fino a quando c’è stato il cosiddetto boom economico i problemi hanno riguardato solo l’organizzazione della vita quotidiana: trasporti pubblici, mense scolastiche e scuolabus, uffici postali, farmacie e caserme dei carabinieri hanno funzionato ed aiutato gli abitanti lontani dalle città a mantenere vivi i piccoli centri, fino a quando è cominciata la crisi.
Da quel momento si è cominciato con il chiudere le piccole scuole e ad accentrare i plessi scolastici in cittadine più grandi, a chiudere uffici postali e caserme; dopodiché c’è stato quasi un effetto “domino”: uno per volta sono scomparsi i negozi di merci non primarie, poi le botteghe artigiane, ed infine anche le botteghe di generi alimentari; il tutto a favore dei centri commerciali anch’essi sorti dentro o appena fuori delle città. Finiva così il millenario scambio economico e culturale che aveva tenuto per secoli in stretto rapporto città e campagna. Vadalà riesce, poi, in poche pagine a illustrare quei progetti, proposti anche in epoche lontane da noi, per impedire che questa frattura accadesse; così veniamo a sapere che perfino Giovacchino da Fiore e Tommaso Campanella si erano posti questo problema, fino ad arrivare ai progetti più moderni come quelli delle garden city e della Comunità di Adriano Olivetti, quelli più recenti dell’Architettura ecocentrica e quello di Slow Food che ambisce a ripopolare la montagna grazie all’agricoltura biologica [2].
Da qualche anno a questa parte una campagna mediatica ci ha raccontato della bellezza dei “borghi” e della felice esistenza dei loro abitanti. Giustamente l’Autore si dimostra contrario ad una rinascita dei cosiddetti “borghi” affidata al turismo, specie quello “di prossimità” (o “mordi e fuggi”), mentre è più favorevole alla realizzazione di alcune teorie utopistiche come quelle del co-working e del co-housing in quanto è
«attraverso questo tipo di approccio che la disciplina dell’architettura può di nuovo contribuire a costruire luoghi pieni di senso, attraverso configurazioni più aperte e inclusive di abitare collettivo e unifamiliare, spazi per il terziario e l’educazione meno rigidi e preferenzialmente rivolti al paesaggio e alla comunità, musei e parchi culturali che reinterpretano il senso dei luoghi e ne reinventano il destino».
Egli, coerentemente, si dichiara contrario a realizzazioni come il sovietico Kolchos e l’israeliano Kibutz, perché conservano tracce di quell’accentramento autoritario tipico delle città industriali. L’Autore ha qualcosa da dire anche sul recupero del patrimonio edilizio dei centri storici marginali: con l’esperienza di chi ha scelto di vivere lontano dalla città e di recuperare come sua residenza un vecchio rudere, egli dimostra che si possono ristrutturare, per riabitarli, i vecchi edifici, senza alterare «le tradizionali forme edilizie». E a questo punto fa l’elogio di Santo Stefano Sessanio (AQ), centro storico marginale il cui recupero è stato possibile grazie alla sua trasformazione in albergo diffuso. Su questo tipo di recupero si possono nutrire però delle perplessità, perché in questo caso si recupera solo la parte edilizia del paese, mentre non si può riattivare quel tessuto di relazioni umane che si costruisce con una convivenza di molti anni, se non addirittura di secoli: gli ospiti del paese-albergo, invece, si fermano per qualche giorno e non hanno interesse né a svolgervi attività lavorative, né a stabilirvi rapporti lunghi con gli altri ospiti. Tra l’altro, in una lunga nota, relativa al concetto di “bellezza democratica”, è lo stesso Vadalà ad affermare che è necessario «pensare agli edifici come “luoghi di produzione” … e di conseguenza agli abitanti molto più come “produttori” piuttosto che utenti o consumatori».
Per cercare di impedire l’abbandono e lo spopolamento dei centri marginali secondo Vadalà occorrono due elementi: la riapertura delle scuole in ogni paese e il ripristino della sperimentazione del lavoro a distanza effettuata durante il periodo della pandemia del covid. Si tratta di ipotesi valide, perché si individuano due attività essenziali per far crescere una comunità: la scuola è certo capace di trattenere le famiglie che hanno figli, e il lavoro svolto a casa o nei pressi non costringerebbe la gente ad andare ad affollare le città o a vivere da pendolare per lunghi anni. Sennonché la denatalità attuale non permette l’apertura di scuole se non grazie alla formazione di quelle pluriclassi che negli anni ’70 del secolo scorso furono abolite perché ritenute retaggio di una società piuttosto classista; ci sarebbe il pericolo che quella tendenza al classismo potrebbe riproporsi ancora oggi nei centri riabitati. Vadalà è però convinto della bontà delle pluriclassi e porta a sostegno della sua tesi l’esempio della scuola di Barbiana e di altre iniziative similari; ma si dimentica che quelle esperienze sopravvivevano in situazioni di grande povertà socioeconomica («meglio la scuola che la merda», si leggeva in Lettera ad una professoressa), ed erano il frutto della necessità. Vero è che i ragazzi crescono e maturano meglio se vivono in gruppi disomogenei per età, ma per ottenere ciò non è necessario ricorrere alle pluriclassi.
Anche l’altra proposta, quella del lavoro “in remoto”, desta qualche perplessità: se da una parte essa permetterebbe la residenza in località isolate, che senso avrebbero quei paesi abitati solo da persone che usano il computer? Un paese è tale se ci sono oltre agli impiegati anche contadini, artigiani, negozianti, ecc. Questo aspetto è ignorato da Vadalà che, invece, si lamenta perché la politica governativa ha scoraggiato questa possibilità in quanto, secondo lui, il lavoro da remoto si rende libero da quel «profondo pregiudizio ideologico, secondo cui il pieno adempimento del processo produttivo non può prescindere da uno stretto controllo spazio-temporale sui fattori della produzione, in particolare sul lavoro intellettuale».
Viene affrontato quindi un problema, di natura burocratica, che sembra irrisolvibile: ci sono degli esempi concreti di paesi in cui si sono realizzate alcune delle idee relative alla ri-abitazione e alla riqualificazione di centri marginali: Vadalà, citando le esperienze calabresi di Soveria Mannelli, di Santa Caterina dello Ionio, Guardavalle, San Floro, ha modo di denunciare le difficoltà incontrate non tanto nel realizzarle quanto nella mentalità degli organi amministrativi che dovevano rilasciare le necessarie autorizzazioni a concretizzare i progetti. Cosa che gli fa trarre le seguenti malinconiche considerazioni:
«È forse a causa di queste mancate risposte, di tipo culturale e politico-amministrativo prima che normativo, che negli ultimi dieci anni si è registrata una sempre più diffusa insofferenza verso le necessità di tutela del patrimonio culturale, sempre più spesso visto come un elemento d’intralcio, in modo particolare quando tali istanze sono rappresentate dal paesaggio e dai beni paesaggistici».
E a questo punto si pone la domanda che da qualche decennio circola tra l’opinione pubblica e, cosa più grave, anche tra le persone chiamate a governare e amministrare il Paese: la cultura serve a creare ricchezza? O più rozzamente: con la cultura si mangia? Vadalà cerca di dimostrare che la cultura è necessaria a risolvere i problemi, anche quelli difficili del recupero dei paesi disabitati, ma occorre prima di tutto combattere e vincere una battaglia difficilissima contro chi afferma la totale incapacità dell’ambiente e del paesaggio ad avere un proprio valore, ad essere essi stessi ricchezza. L’avvocato Fabio Balocco, che da valsusino conosce gli effetti prodotti dall’impatto di un’opera, come la TAV, di alto livello tecnico sulla natura della montagna, è intervenuto, a proposito, con un breve articolo per contestare «una visione del mondo comunissima, secondo cui la natura in quanto tale non vale nulla e assume un valore (non unicamente monetario, si badi bene, ma anche estetico), solo a fronte di un intervento umano». Che questo sia un pregiudizio che trova posto anche nelle idee dei nostri governanti è testimoniato dalla dichiarazione, riportata dal Balocco, fatta da Alessandra Todde, attuale Presidente della Regione Sardegna, alla notizia della morte dell’Aga Khan, ideatore della Costa Smeralda: «È stato un valorizzatore della Sardegna, ha creato un modello di sviluppo virtuoso» [3]. Ora, chi conosce la Sardegna ed ha visitato anche la Costa Smeralda sa quanto differisce la bellezza incantevole delle coste sarde dalla innaturale ricostruzione, dal gusto piuttosto pacchiano, progettata dal miliardario arabo.
Fa notare ancora Balocco che per uscire da questa impasse è necessario il dialogo, per ora assente, tra politici ed imprenditori, che usano l’espressione valorizzare l’ambiente, e coloro che, invece, parlano di difendere l’ambiente. Di questo parere è anche Vadalà che chiude la seconda parte del libro con queste argomentazioni:
«Se dunque con la cultura in linea generale non si dovrebbe mangiare, dovremmo piuttosto riconoscere che con il patrimonio culturale – come d’altra parte con la scuola – si può apparecchiare una bella tavola, degna di ospitare un ben più lauto pasto: questo dovrebbe essere il ruolo strategico della cultura, in particolare di quel patrimonio così importante, per quanto complesso da circoscrivere, riconoscere e amministrare, che è il paesaggio».
Qualcosa a livello di base si muove, ma chi decide di provarci e di prendere l’iniziativa si trova ad affrontare l’inerzia ministeriale e quella degli enti locali, con la conseguente assenza di incentivi.
La terza parte del libro, come si diceva prima, è propositiva; per recuperare i paesi marginalizzati, oltre al contributo che possono dare la scuola e il lavoro da remoto, occorre anche qualche idea di carattere generale, politica e filosofica. Prima di fare questo, però, l’Autore ragiona intorno all’essenza dell’oggetto che si vuole modificare, cioè la natura in cui viviamo. Dopo aver ricordato con Lucio Gambi che l’Italia «lungo i 1200 km quasi dalla catena alpina al mare d’Africa squaderna una varietà di condizioni fisiche quanta se ne trova in altre regioni della Terra su di un arco di meridiano di 3 o 4 mila km»; e dopo aver riportato i termini della Convenzione FARO e quanto espresso dalla Commissione parlamentare, guidata da Franceschini, così conclude:
«Senza timore di semplificare possiamo intendere il paesaggio, nell’interpretazione promossa dalla Convenzione, come il grande teatro dell’agire umano, il palcoscenico di un’umanità consapevole delle profonde interrelazioni tra beni comuni, benessere sociale e sostenibilità dello sviluppo».
Ma poi aggiunge un’altra considerazione sul “groviglio” formato sia dalla complessità con cui si presenta il caso “ambiente”, sia dalla inconsapevolezza o dalla sottovalutazione con cui si affronta la questione ambientale e il cambiamento climatico, sia da una cultura di dominazione sulla natura a cui per millenni siamo stati abituati. Vadalà, infatti, aggiunge:
«Ovviamente tutto questo non basta a configurare un deciso cambiamento di rotta verso modelli socio-economici più sostenibili e soddisfacenti in termini di qualità della vita tanto più che il sistema ideologico prevalente è ancora profondamente determinato da modelli economici aggressivi, tanto nei confronti dell’ambiente che delle comunità, nonostante la fine dichiarata della “modernità pesante”».
Se le cose stanno così, gli interventi per modificare la situazione non possono riguardare solo alcuni suoi aspetti parziali, risolvendo i problemi di singoli paesi, o trovando soluzioni che possono avere breve vita, come quella dell’albergo diffuso che si basa sul turismo e sulla moda delle vacanze. Se il sistema in cui viviamo è determinato da modelli economici aggressivi, qualcosa bisogna pur fare per frenarlo o modificarlo o sostituirlo.
Ci si aspetterebbe, dunque, qualche proposta robusta e soprattutto diretta a modificare la situazione generale; invece, non senza qualche contraddizione, Vadalà avanza soluzioni piuttosto semplicistiche e alquanto deludenti. Non si tratta, infatti, di recuperare soltanto e ripopolare i paesi e i villaggi abbandonanti, mediante le iniziative da lui illustrate, quanto invece di costruire una nuova visione politica generale che metta in discussione lo stato delle cose che ha generato il degrado di gran parte del territorio fisico e delle comunità umane, ed individui soluzioni radicali e di lunga prospettiva riguardanti il sistema economico e sociale del Paese. Altrimenti, pur cambiando qualcosa, tutto rimane come prima.
Oltre alla decentralizzazione, in Italia in qualche modo sperimentata ma non realmente realizzata con l’istituzione delle Regioni, Vadalà propone la sussidiarietà, un concetto appartenente alla dottrina sociale della Chiesa, avanzato nel 1931 dal papa Pio XI e riproposto «in termini di straordinaria efficacia» da Benedetto XVI nel 2009. Il decentramento è auspicato per i processi produttivi, «agricoltura e alimentazione in primis … Tutti questi temi, ai quali ancora si aggiungono le questioni dell’organizzazione del lavoro e della mobilità, sono intrinsecamente legati, da affrontare in maniera davvero innovativa attraverso un deciso cambio di paradigma, privilegiando soluzioni improntate a criteri di sobrietà, che non è certo sinonimo di ristrettezza economica o povertà culturale».
L’idea che la sussidiarietà e la sobrietà possano essere strumenti e modi per rifondare e governare una società complessa come quella attuale o la stessa che Vadalà sembra avere in mente, e che possano servire per cambiare l’attuale paradigma, è veramente sorprendente: a me sembra che queste due caratteristiche, insieme al decentramento e alla sussidiarietà, siano un traguardo da conquistare più che strumenti capaci di cambiare il sistema economico vigente.
Tra gli ultimi argomenti affrontati nel libro c’è quello dell’immigrazione, ma più che una discussione della questione è un semplice accenno alle sperimentazioni di accoglienza umanitaria, «spesso in forme drammatiche», in atto a Riace, Badolato e in altri paesi della Calabria. Vadalà non approfondisce l’opportunità offerta dall’immigrazione di ripopolare e di dar vita effettiva ai centri oggi disabitati e di rimettere in moto processi produttivi abbandonati ormai da molti anni, e a sostituire l’attuale accoglienza umanitaria, o meglio caritatevole, con una di stampo politico e sociale, dando ai nuovi arrivati la dignità di persone e di cittadini.
Il volumetto di Vadalà è pregevole perché riesce a contenere tutti gli aspetti di una questione alquanto complessa, tanto da poter essere usato come un “indice ragionato”, da servire da pro-memoria a chi si occupi dei tanti piccoli centri abbandonati sparsi per la Penisola a causa di migrazioni interne, o per eventi disastrosi come alluvioni, frane e terremoti. Ma se da un lato questa sua impostazione offre un elenco necessario e prezioso delle cose possibili da fare, dall’altro questa sua caratteristica è anche il suo punto debole, perché ogni aspetto del problema è appena accennato, mai discusso nella sua interezza, mai vagliato e sempre esposto in maniera falsamente “oggettiva”, nel senso che i suoi lati negativi o sono minimizzati o non sono nemmeno evidenziati.
Su questa rivista spesso si è parlato di pubblicazioni che espongono i problemi di quest’Italia spopolata e marginalizzata: in genere sono i loro stessi abitanti o ex abitanti a raccontare le cause dell’abbandono e i tentativi di resistenza; a volte invece sono studiosi, economisti, sociologi ad analizzare i problemi e a tentare di dare una soluzione (e comunque mai i politici). Le prime sono importanti perché aiutano a costruire attorno alle popolazioni disagiate la solidarietà e il conforto a loro dovuti da parte dei connazionali; la lettura delle seconde, invece, lascia spesso la bocca amara perché ci si aspetterebbe dai loro autori qualche indicazione più robusta ed efficace, qualche indicazione di percorso per le forze politiche che volessero attuarla, ed invece ci troviamo sempre davanti a piccoli rimedi, frutto di buonsenso, ad iniziative dovute a singole persone che aguzzano l’ingegno per trovare un mezzo per vivere e per dare un senso alla loro vita. Mai mi è successo di trovare un progetto complessivo contenente idee nuove e sostenuto da gruppi, da associazioni o da quel che resta dei partiti di una volta.
Per usare una metafora, forse banale, questi centri marginali, per lo più disabitati, impoveriti economicamente, possono essere paragonati ad un vestito lacero e consunto, pieno di strappi: le proposte risolutive che ho finora letto mi sembrano dei rattoppi, dei rappezzamenti che permettono di indossare l’abito alla men peggio; avremmo bisogno, al contrario, di un bravo sarto che, scelto un tessuto bello e resistente, sappia cucire un vestito nuovo che duri più a lungo di una stagione.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] D. Vadalà, Spaesaggio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2023.
[2] Si veda: Rilancio dei territori montani che passa per l’agroecologia (Intervista di Letizia Fiotti a Maria Grazia Mammuccini, presidente di Federbio che insieme a Slow Food organizza un convegno a Roma (fine marzo 2025) su “Festa del Bio e Montagna Madre. Ripopolare la montagna”, Il Manifesto, inserto Extraterrestre, 27 marzo 2025: 5.
[3] Fabio Balocco, Valorizzare la montagna, in «Volerelaluna», Newsletter n. 340, 14-3-2025.
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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003. Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. É stato edito nel 2023 dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.
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