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Da Bologna. La parola ai giovani

coverdi Lella Di Marco

A partire da questo numero e in questo spazio saranno ospitate le voci e le storie dei giovani di Bologna che via via incontreremo e ascolteremo. Non abbiamo in mente una indagine sociologica né vogliamo essere noi a parlare del variegato mondo giovanile e delle difficoltà a transitare nell’adultità di adolescenti e ragazzi in un mondo che non sembra preoccuparsi di loro, delle politiche scolastiche, dei luoghi di aggregazione, di sostegno allo studio, di creativa sperimentazione nel tempo libero. Lo spazio sarà abitato esclusivamente da chi lo vorrà, per raccontarsi, dirsi, protestare, esprimere sogni e bisogni, rabbia, indignazione, sfiducia, delusione … senza la paura di essere giudicati, manipolati, “umiliati” o usati. La scrittura sarà libera e responsabile ma sappiamo che per farlo e affidarsi a noi dovranno in primo luogo fidarsi. E questo non sarà facile, ne abbiamo consapevolezza. Noi ci proviamo come dentro una scommessa, una scelta politica dalla quale non ci sentiamo di evadere. È proprio una evasione “impossibile”. 

Con la nostra scelta editoriale destinata a cercare di stabilire un patto con i giovani, li invitiamo a prendere la parola in modo democratico, civile, senza insulti e senza anonimato. Nella civiltà dell’incontro e del dialogo.

Qualche settimana sono apparsi sui quotidiani locali una serie di articoli allarmistici sui giovani e la loro fuga dalla scuola, l’abbandono degli studi, il rifiuto di quanto è gerarchia, controllo, rispetto di certe regole, come dire giovani studenti allo sbando. Non che prima il versante giovani godesse di grande serenità ma qualcosa deve aver fatto saltare un ingranaggio se tutto sembra essere precipitato.

Se ne sono accorti, finalmente, anche i genitori se tornando a casa dal lavoro non hanno nessuna notizia dei figli e delle figlie irraggiungibili anche al cellulare. Dove cercarli? Informare la polizia? In pratica era stato superato ogni limite: dormire ovunque, non subire alcun controllo, non sentire alcun dovere che pure ciascuno di noi ha vivendo assieme agli altri. Impotenti gli insegnanti, impotenti i genitori. Di chi la colpa? Dove trovare le responsabilità? Sembra che la scuola sia in evidente affanno e gli studenti si leccano ancora le ferite per i compagni morti per incidente o meglio incuria degli organizzatori durante il tirocinio di formazione scuola-lavoro o per le patologie psicosomatiche prodotte dalla lunga esperienza pandemica. Nessuna risposta è stata data dal ministero se non quella di eliminare lo stage di formazione al lavoro.

malconentPerché continuare a non essere ascoltati da alcuno?  Perché non avere diritti e rispetto come giovani individui? Perché alimentare flussi di disadattati infelici? Forse per essere un domani – se va bene – massa sfruttata e sottopagata dall’attuale dinamica del lavoro in una società in cui perfino l’economia capitalistica sembra essere agli sgoccioli?

Riflettendo ancora sulle agitazioni degli studenti in questo periodo, sulle occupazioni delle scuole e di altri spazi abbandonati per avere una loro sede di incontro e di aggregazione sociale  – loro che non conoscono neppure quanto è avvenuto in Italia negli ultimi quarant’anni nel nostro Paese, quali sono state le idee e le pratiche che hanno determinato lo sviluppo dei movimenti studenteschi del ‘68 e del ‘77  – siamo preoccupati che senza memoria del passato possano ripeterne gli errori, possano vedere soltanto nella violenza uno sbocco alla loro rabbia, possano trovare qualche adulto infelice e nostalgico che possa manipolare la loro ingenuità politica e trascinarli su una via suicida.

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Da qui muove l’idea di questo spazio: “La parola ai giovani”, per conoscere meglio la realtà dei desideri e degli scontenti, la galassia degli umori e dei malumori, dei sentimenti e dei risentimenti, le ragioni e le utopie. Per capire e conoscerci. Per tentare di dialogare. Ai figli e alle figlie degli immigrati che attendono con pazienza di diventare italiani a causa la sciagurata legge che da anni non si riesce a riformare, daremo il diritto di prendere la parola, di spiegare l’oscena ingiustizia della loro cittadinanza mutilata. Con la speranza che gli appelli e le testimonianze di questi giovani figli della immigrazione possano trovare finalmente ascolto e concrete risposte.

Può succedere che questi giovani non abbiano voglia di parlare con altri adulti ma può anche accadere che, nel loro variegato e inquieto mondo – dove, per esempio, può trovare spazio la simpatia per il terroristi o il bullismo violento nei confronti di compagni dalla sessualità liquida fino a spingerli al suicidio – altro pensiero trovi legittimità e scateni passioni, il desiderio di lavorare per la propria autonomia anche e soprattutto di pensiero, il piacere di acquisire la consapevolezza che da solo nessuno si salva e che un mondo altro e una cultura altra possano esserci soltanto come elaborazione collettiva. 

La prima voce che racconta la propria storia è quella di Mariem.  

Mariem

Mariem

Mariem 

Mi chiamo Mariem Parracino, ho 24 anni, e frequento la facoltà di lingua e cultura araba all’università di Bologna. Sono nata e cresciuta in questa città vivendone con profitto tutte le opportunità che mi ha offerto. Cerco di spiegarmi meglio anche perché se rifletto su come sono cambiata io in tutti questi anni fino ad arrivare alla maggiore età, la mia città natale avrebbe potuto essere qualunque altra città italiana con meno ricchezza culturale ed umana di Bologna. 

Appartengo a quella categoria sociale che i sociologi chiamano migranti di seconda generazione, anche se figlia di una coppia mista: mio padre italiano, mia madre egiziana. In pratica mi sono sempre sentita dentro due mondi, due culture, quella italiana e quella egiziana che, se da un verso è arricchente. dall’altro presenta delle contraddizioni e forse lascia anche qualche stigma.

Mio padre lavorava in Egitto quando ha conosciuto mia madre. Lei ancora minorenne, lui se ne innamora e nonostante la notevole differenza di età con un passaporto falso “comprato” riesce a portarla in Italia. Matrimonio regolare in moschea e in Comune. Tre figli: due subito a distanza di 2 anni, io sono nata dopo il maschio che vive ancora con noi, mentre dopo dieci anni è nato un altro fratellino.

La vita coniugale è stata un inferno durata anni prima di arrivare alla separazione e poi al divorzio. Mio padre si è occupato sempre poco di noi, con scarsa affettività e poca responsabilità di genitore, anche perché avendo abbracciato la religione musulmana ha considerato un buon motivo sfruttare la possibilità di avere altre mogli e altri figli. Preferisco non dilungarmi su tale aspetto della mia vita perché rappresenta ancora una ferita difficile da rimarginare. Con il tempo le situazioni cambiano, spesso anche in meglio ma il prezzo da pagare anche in termini emozionali e stress rimane sempre alto. 

Ho cominciato a frequentare le scuole elementari e poi le medie. A Bologna con la maestra il rapporto era buono, iniziative di accoglienza per figli di migranti, percorsi specifici di conoscenza del territorio cittadino, partecipazione a iniziative ludiche con altri bambini nativi. Intanto mia madre andava a lavorare e nello stesso tempo ha cominciato a frequentare una associazione di donne native e migranti che faceva intervento politico in un centro interculturale nel quartiere dove abitavamo noi. In pratica le donne agivano su un piano di scambio e di valorizzazione dei saperi delle donne, trasmessi a scuola.

1669647832-anarchici-bologna-2Il riferimento era a quelle abilità e competenze che si trasmettono di madre in figlia, i saperi inscritti nella genealogia femminile in pratica, che con le dovute differenze etniche sono simili in tutti i Paesi. Intanto che si facevano corsi per l’apprendimento della lingua italiana, si realizzavano laboratori di cucina, feste per la nascita dei bambini o per il loro matrimonio, laboratori sul trucco e la cura del corpo o addirittura i riti per la morte. Io ho seguito tali percorsi con mia madre, anche perché era previsto uno spazio per i bambini.

Crescendo sono stata coinvolta come organizzatrice di iniziative per ragazze adolescenti e giovani donne. In pratica la mia cultura di riferimento era quella egiziana e la mia educazione religiosa islamica. Io seguo i precetti dell’islam, ho sempre considerato importante il sapere, lo studio, la conoscenza di quanto ci circonda. Il Corano stesso indica di cercare di studiare e capire le indicazioni racchiuse nella parola. Ora questo in me è visibile, come gestisco la mia vita e nelle relazioni personali e sono riuscita a farne oggetto di un laboratorio con altre adolescenti provenienti da altri Paesi come marocchine, tunisine, palestinesi e cinesi. Nel Corano vengono riconosciuti argomenti che non possono che riguardare tutti, come curare bene il corpo perché Allah ce lo ha dato in prestito per abitarlo correttamente, oppure non essere violenti anche nei confronti della natura. Anche socializzando con altre ragazze ho imparato molto e poi mi inorgogliva molto la soddisfazione che vedevo nelle altre ragazze che apprendevano da me.

In Italia in chi e in che cosa posso credere? Io di fatto sono italiana ma dove sono gli italiani? Gli italiani stanno scomparendo, rimangono gli anziani che ci lasciano questa bella eredità di un Paese che affonda. Intanto aumenta il malessere, l’economia allo sbando, l’autorevolezza a livello europeo nulla, i servizi quasi vuoti di personale sottopagato con giovani allo sbando che sopravvivono tra psicofarmaci, abitudine all’uso di stupefacenti e piccola criminalità. Tutto prevedibile negli anni passati e adesso si scandalizzano apparentemente, con allarmismi sulla stampa che i giovani fuggono dalle scuole, non vogliono neppure arrivare al diploma e sono persi in mille rivoli per fare esplodere la loro rabbia, con simpatie politiche terroristiche, già viste con grandi lutti in passato e terrorismo praticato su cui nessuno ha fatto autocritica. Docenti e professionisti dei vari settori che dovrebbero rappresentare dignitosamente e in modo efficiente le istituzioni “democratiche” sono latitanti perché stufi e i giovani rappresentano un divario notevole tra sviluppo del loro corpo e la poca consapevolezza e autostima e la loro dimensione psicologica. 

screenshot-2022-11-12-at-11-00-40-101356458-0e5959b5-dbd2-4f42-b1ce-434cacf6f2b2-1Io in questi ultimi anni ho avuto la possibilità di recarmi spesso in Egitto, confesso di avere anche pensato di continuare la mia esistenza in quel Paese che mi è familiare. A parte il piacere personale di ritrovare luoghi e persone della mia infanzia che mi hanno confermato certe appartenenze, non so come si faccia a vivere in quella realtà dove comprare da mangiare è un’impresa difficile, con dei costi esorbitanti. La vita alla quale siamo abituati per una normale alimentazione è impossibile, per non parlare dell’assenza totale di libertà delle persone, dell’uso della repressione violenta per contrastare anche i comportamenti sessuali. E non capisco perché l’Italia che si ritiene un Paese libero e democratico tenga contatti diplomatici e rapporti commerciali con un Paese dove vige la dittatura e il pieno dominio sulle persone che possiamo considerare sudditi e non cittadini.

Come sto preparando il mio futuro? La mia intenzione è concludere al più presto il mio ciclo di studi, risolvere altre questioni familiari e trasferirmi o negli Emirati arabi o in Canada. Io parlo e scrivo bene la lingua araba, ho una certa esperienza in pubbliche relazioni, penso che negli Emirati potrei lavorare in qualche azienda commerciale o di produzione. Ci sono possibilità buone, ho già preso dei contatti. Intanto sto pensando di approfondire la conoscenza dell’inglese, magari con un breve soggiorno in Inghilterra. Anche il Canada mi attira, dovrò verificare meglio le possibilità di viverci anche lavorando e continuando a studiare.

img_20210518_192251Maturava sempre più forte in me l’idea dell’importanza dello studio, della scoperta come bene prezioso del libro, come strumento per arrivare alla conoscenza. Decido di iscrivermi all’università ed intanto arriva il covid con tutti i guai e le restrizioni che conosciamo. A quel punto comincia anche il mio malessere che cambierà notevolmente me stessa, i miei bisogni i miei progetti di vita. La didattica a distanza ci ha fatto sentire deprivate non solo della vita universitaria come vita di comunità ma ci ha mostrato una classe docente incapace di sostenere gli studenti. Professori disinteressati, depressi forse, o con crisi di professionalità… essi stessi.

In me intanto prevale forte un senso di malessere tanto da essere indotta ad affidarmi ad una psicologa. Con il suo aiuto capisco tante cose anche oggettive alle quali non sarei arrivata da sola. Sento fortissima una grande rabbia dentro di me, rabbia che non riesco a trasformare in energia positiva. Mi sento frustrata, tradita, deprivata della mia libertà decisionale, della mia autonomia. Mi sento come oppressa, controllata anche nei pensieri. Il tutto legato anche ad una consapevolezza del degrado sempre maggiore che si diffonde nella società. Il covid ha dato il colpo di grazia ma il degrado morale etico economico ambientale era cominciato molto tempo prima. Di questo ne parlo con i miei coetanei e la loro posizione di rifiuto della situazione italiana complessivamente non è molto diversa dalla mia.

I giovani sono delusi, magari vivono in famiglie fragili, disgregate, non trovano sostegno da nessuna parte, sono soli esposti alla seduzione del guadagno facile delle azioni illegali o di autodistruzione, tanto pensano che l’Italia non potrà che peggiorare e che questo “non è un Paese per giovani” 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’Associazione Annassim.

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