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Culture del cambiamento climatico. Tradizione, crisi e inversione
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 02:33 In Cultura,Letture | No Comments
Dall’avvento dei sistemi di localizzazione l’uomo ha potuto guardare se stesso da molto lontano e fuori dal contesto originario: una nuova prospettiva che ha aperto ulteriori immaginari e possibilità. La Terra oltre l’atmosfera si mostra come un minuscolo e fragile puntino blu all’interno di un Universo le cui prerogative vanno ben oltre la piena comprensione. Al momento, il Pianeta si svela quale unico luogo consono alle diverse – e, purtroppo, nell’era dell’Antropocene sempre minori – forme di vita che ospita. Nonostante l’evidente limitatezza di un sistema chiuso, lo stile di vita adottato dalla nostra specie procede come se si avesse a disposizione un ambiente illimitato. L’approccio dell’umano all’altro-che-umano sembra distante anni luce da una sapiente e assennata attenzione ai delicati equilibri terrestri. In campo vi è il futuro globale, ma l’umanità pare troppe volte muoversi secondo dinamiche consapevolmente deleterie a se stessa e agli altri.
Il cambiamento è una costante
Che il clima stia cambiando, oltre ad essere supportato da specifiche e accreditate indagini, è qualcosa di cui sempre più frequentemente si fa esperienza diretta: l’alterazione delle temperature stagionali, ad esempio, è un fenomeno ormai noto e piuttosto preoccupante. Trombe d’aria violente, grandinate improvvise, siccità prolungata o piogge irruenti in luoghi e periodi inusuali si inseriscono nel quotidiano, spesso con risvolti devastanti. Nonostante ciò, esse non vengono affrontate con l’attenzione che meritano, né sono ritenute questioni di primaria importanza nelle agende politiche, globali, nazionali e locali, quando confrontate con altri temi. Se da un lato, il presupposto per ottenere l’evidenza scientifica di tali eventi scaturisce dalla messa a distanza di quel luogo chiamato natura, dall’altro lo sgomento verso fenomeni, considerati inaspettati e incomprensibili, non permette di averne una visione più ampia (Gosh, 2020). L’approccio scientifico predica una separazione tra esaminatore e (s)oggetto in esame in base all’idea che sia possibile avvicinarsi asintoticamente all’azzeramento della vicendevole influenza; il sentire individuale e collettivo, invece, il più delle volte pare esplodere a intermittenza, evidenziando un coinvolgimento emotivo indubbiamente marcato, ma poco duraturo (ibidem). In entrambi i casi, la cultura globale, pur nelle differenze regionali, non si mostra preparata a formulare risposte adeguate e concrete, praticando piuttosto insofferenza, diniego o rimozione e, di conseguenza, inazione.
Che l’ambiente si modifichi non ha in sé niente di anomalo, sia dal punto di vista dell’esperienza diretta, che da quello della speculazione filosofica. Si tratta di un’immagine condivisa, sperimentata costantemente e accompagnata da varie correnti interpretative: dal panta rei eracliteo del VI sec. a. C. all’ermeneutica gadameriana dello scorso secolo, l’idea che «nulla accade due volte» (Szymborska in Negri-Clementi, 2013) [1] è un concetto perfettamente inserito nella tradizione occidentale. A differenza, ad esempio di culture come la balinese studiata da Geertz negli anni ’60 del Novecento, che credono nel ritorno e nella ciclicità dell’esistenza (1988), il calendario gregoriano si muove in progressione lineare (in)seguendo l’ideale teleologico di forme via via più evolute di civiltà. Tale imperativo di crescita infinita, alla luce delle strutture presenti, si sta rivelando ciecamente utopistico e drammaticamente deleterio per le sorti del Pianeta e dei suoi abitanti.
La trasformazione dell’ambiente circostante, dunque, è un evento ripetutamente sperimentato, lungamente concettualizzato e consciamente praticato, eppure le sue conseguenze suscitano indifferenza, spaesamento o turbamento, restando scollegate dalla pianificazione degli stili di vita futuri. Sebbene l’Antropocene veda la nostra specie quale principale responsabile della modificazione degli equilibri globali, fin oltre i limiti della propria ed altrui sopravvivenza, quest’ultima fatica, infatti, ad accettarne gli effetti, come ribadisce Van Aken, nel suo libro Campati per aria, edito recentemente da Eleuthera (2020). Da più di due secoli, salvo rare e virtuose eccezioni, l’economia del carbonio regna imperante e pressoché incontrastata, come principale filosofia di sfruttamento energetico. Il protagonismo umano nell’estrazione degli elementi prelevati dal paesaggio è mosso da un inarrestabile e autodistruttivo complesso di superiorità: un peccato di hybris, che se ostinatamente perseguito vedrà l’umanità precipitare rovinosamente al suolo come Icaro, trascinando con sé una vasta gamma di altro-che-umano [2].
Risulta chiaro, così, che il punto cruciale non riguarda il cambiamento in sé, ma il tipo di cambiamento in atto: quale eredità materiale-narrativa ha determinato un tale presente? Verso quali direzioni si vuole/può andare? È ancora possibile invertire le coordinate del cambiamento? È ancora possibile cambiare il cambiamento?
Una certa tradizione
Per provare a rispondere alla prima domanda, si volga l’attenzione alla tradizione filosofica di cui il cosiddetto Nord del mondo [3] si professa puro discendente. L’analisi delle politiche di sfruttamento dell’ambiente passa qui dalla significazione arbitraria data a quest’ultimo. D’altronde, pratiche quotidiane e sistemi di valore di ogni società si modellano dinamicamente le une sulle altre (Geertz, 1988).
Si è parlato fino ad ora di modificazione e progressione lineare come elementi ben inseriti nella narrazione occidentale. Lungi dal voler riuscire nell’impresa impossibile di fornire un quadro esaustivo sulle correnti del pensiero filosofico, è opportuno individuare alcuni nodi nella Storia che sembrerebbero collegati alle pratiche di sfruttamento cieco del Pianeta e all’impossibilità di comprendere e significare le attuali politiche sul clima.
La possibilità di studiare la physis in termini di accidente parte dalla condanna del 1277 del vescovo di Parigi Étienne Tempier. Prima di allora, la tradizione peripatetica greco-araba professa il necessitarismo: concetti quali la pluralità dei mondi, il vuoto e la contingenza sono pressoché sconosciuti. L’abbandono del cristianesimo di stampo aristotelico in favore di quello agostiniano stimola, così, la nascita della fisica moderna, che forte della nuova nozione di accidente è libera dai vincoli concettuali che inibiscono la ricerca (Esposito e Porro, 2009). Se nulla è predeterminato, si apre un mondo di possibilità da mettere alla prova e verificare empiricamente. Concetti già ampiamente assimilati, quali natura e cultura, mente e corpo, vengono, in tal modo, ancor più esacerbati e polarizzati, poiché per fare di un soggetto un oggetto bisogna inibire la componente empatica, ovvero credere di poterne avere una lucida e distaccata visione, a discapito della condizione di interazione biunivoca che li contraddistingue.
Da Descartes in poi, il distanziamento dalla natura, opposto della cultura, ha permesso all’umanità di pensarsi separatamente rispetto al contesto in cui, invece, è ineludibilmente immersa. Da un lato, dunque, la specie umana dotata di razionalità, dall’altro la natura al suo servizio, pura, selvaggia e pronta ad essere catalogata, governata e sottomessa: due dominî separati restii alla contaminazione. Se i due mondi sono pensati come distinti, viene negato che esista un reciproco coinvolgimento, ovvero l’idea che più elementi (re)agiscano l’uno in relazione all’altro. Una volta prelevati dal paesaggio i soggetti materiali, vengono elaborati e trasformati in oggetti culturali fino a dimenticarne le connotazioni ambientali relazionali.
Questa tradizione si dimostra particolarmente utile all’economia estrattiva, che seleziona e modella l’ambiente in base ai propri bisogni, tralasciando le ripercussioni sul lungo periodo. Lo scollamento concettuale dagli altri esseri è un tipo di retorica che fa al caso delle attuali strutture di mercato, poiché gli enti della Terra diventano risorse monetizzabili e gli scarti rifiuti, nell’accezione letterale di (s)oggetti rifiutati – come scrive Van Aken – non accettati, relegati in luoghi e tempi talmente distanti da illudersi che non esistano, per poi riapparire improvvisamente e lasciarci sgomenti.
Dopo questo breve excursus, risulta plausibile affermare che una certa – nel senso di particolare, ma anche nel senso di largamente condivisa e data per scontata – tradizione abbia avuto un peso specifico non indifferente nell’avvio, nel rafforzamento e nell’istigazione allo sfruttamento incontrollato del Pianeta.
Crisi della parola e parola della crisi
Quanto detto sinora permette di aggiungere un nuovo tassello. Identificare la certa tradizione come corresponsabile di stili di vita generali e individuali deleteri è utile anche a spiegare il perché di incredulità e sgomento di fronte a eventi ambientali catastrofici. Una prima considerazione superficiale potrebbe essere quella di etichettare «la grande cecità» (Gosh, 2020) rispetto ai disastri firmati dalla mano dell’uomo, come ottusa negazione o bieca sussunzione. Se, però, è ragionevole credere che non esistano verità ultime che si confacciano indistintamente a ogni società, se le culture sono habitus che si cuciono addosso alle collettività cui appartengono, se i sistemi di valori sono contestuali ai gruppi che li mettono in scena (Geertz, 1988), allora è anche ragionevole credere che l’incapacità di lettura del cambiamento climatico non possa essere semplicisticamente relegata nei meandri dell’ignoranza dilagante o delle logiche finanziarie, pur senza negarne il peso considerevole.
Una lettura dell’ambiente circostante libera dalla logica del dominio non è stata finora possibile a causa della mancanza di codici comunicativi differenti dal dualismo occidentale, sostiene Van Aken. In altre parole, l’aver impiegato secoli a teorizzare il distacco concettuale e materiale dal contesto, la superiorità razionale della propria specie, il dominio sulla natura e lo studio asettico dei fenomeni ha reso impensabile collegare l’aumento delle malattie respiratorie all’immissione di CO2, la proliferazione dei virus al riscaldamento globale [4], la riduzione della diversità biologica all’inquinamento, la siccità allo spreco dell’acqua [5]: tutti eventi causati dall’opera umana. Visioni di scambio vicendevole risultano alquanto lontane dalla tradizione che, tacciandole di ingenuità (Gosh, 2020), dona loro le sembianze di favole non adatte agli adulti. Il rapporto tra umano e altro-che-umano è ben lungi dall’essere ritenuto orizzontale. Molti animali, come ad esempio cani e gatti domestici, vengono antropomorfizzati: piuttosto che imparare dal loro comportamento, quest’ultimo è interpretato alla stregua di quello di bambine e bambini, quasi fossero uomini e donne non ancora maturi e, dunque, da indottrinare (Ingold, 2019). Differentemente, altre culture come gli Ojibwa studiati da Irving Hallowell nel 1930 mettono in pratica un sistema di valori che li rende consapevoli della com-partecipazione col tutto. Questo popolo di cacciatori di pellicce originari del Canada centro-settentrionale crede che ogni ente esistente sia persona, ovvero che astri, agenti atmosferici, rocce, piante o animali siano a tutti gli effetti soggetti con cui intrattenere rapporti biunivoci esuli dal dominio e dallo sfruttamento (Hallowell, 1966)[6].
Nel 2019 l’ambiente è stato consumato come se si avessero a disposizione 1,7 Terra (Van Aken, 2020). Una pesante ipoteca sul futuro delle generazioni future, figlia di immaginari materialmente fallimentari, ma nella pratica ancora ciecamente in voga. Alla luce di questo semplice e drammatico dato, posizioni costruttiviste per cui la realtà è una costruzione sociale o posture realiste che postulano l’esistenza di un mondo separato al di fuori delle nostre rappresentazioni non sono più sostenibili. L’idea stessa di accesso al mondo, che presuppone un contesto separato in cui entrare, dovrebbe essere ripensata. A giudizio di Van Aken, la crisi ambientale potrebbe, dunque, definirsi una crisi culturale, un insuccesso della tradizione di pensiero:
Le reazioni di sgomento nel confronti degli eventi climatici e il permanere della messa a distanza dell’ambiente, dunque, sono fenomeni culturali che si alimentano reciprocamente. Bisogna, però, puntualizzare che la crisi della parola non corrisponde tautologicamente alla crisi ambientale. Mantenere la dicitura di crisi ambientale potrebbe ricondurre verso posizioni costruttiviste, per cui le modificazioni climatiche esisterebbero solo in funzione di quelle culturali. In questo senso, la crisi ambientale non è nemmeno una crisi, poiché non si tratta di un processo esclusivamente culturale e di breve periodo, ma un lungo intensificarsi di (nter)reazioni ambientali alle strutture del fare umano. Definire qualcosa una crisi rimanda all’emergenza, ma il processo è iniziato più di duecento anni fa: da allora l’economia del carbonio è rimasta ben salda nelle pratiche e nell’immaginario collettivo e tuttora non sembra arretrare. Allo stesso modo, termini come lotta o sfida allontanano dagli obiettivi di inversione, dato che mantengono la messa a distanza dell’ambiente. Il tutto partecipato resterebbe, così, quell’antico nemico, vinto e invisibile, che fa da sottofondo silente ai luoghi fintamente asettici che abitiamo; un nemico che, sporadicamente ma sempre più frequentemente, rialza la testa per sorprenderci con la potenza delle sue catastrofi; un nemico che necessariamente deve diventare un alleato, pena la sopravvivenza. Se una crisi è in atto, è una crisi politica, culturale e sociale: politica perché le istituzioni recepiscono e si muovono con velocità minore – quando non opposta [7] – rispetto al cambiamento climatico; culturale, poiché l’odierno ideale di benessere, paradossalmente, va in direzione contraria al benessere stesso, proprio perché la società ne ha fatto la sua ossessione; sociale perché i soggetti fragili del Pianeta – umani e non-umani – sperimentano sulla propria pelle i risvolti dolorosi di secoli di incuria.
L’altra faccia della spirale
Nelle condizioni presenti, si deve prendere atto del fatto che il cambiamento innescato attraverso due secoli di lavorio umano non può certamente essere invertito a breve termine. Se nel 2019 sono state consumate 1,7 Terre, è utopico credere che nel 2020 si sia usufruito dello 0,3 restante. D’altro canto, proprio in virtù della relazionalità di cui abbiamo ragionato, il Pianeta non può essere interpretato come un Eden incontaminato e fantastico, ma deve essere riscoperto come luogo vissuto da coloro i quali ne hanno fatto casa. Incessantemente e indistintamente tutti, umani e altro-che-umani, necessitano di interazioni per esistere, nutrirsi, ripararsi e preservarsi. Allo stesso modo, la cultura dell’avanguardia tecnologica non è certo da demonizzare, piuttosto deve essere strumento vantaggioso dell’inversione di rotta: difatti, se ben praticata, permette di superare le malattie, scoprire l’impensato, giungere a nuove forme di serena contaminazione.
La critica, che è prima di tutto un’autocritica, punta il dito verso la resilienza, la passività e l’inazione, verso quei certi sistemi di potere e quelle certe retoriche, senza dimenticare, però, il torpore individuale scaturito dalla collocazione fisica e concettuale del disastro climatico entro luoghi esotici, lontani o irraggiungibili. I disastri ci hanno già raggiunto. I disastri sono qui e ora. I disastri sono familiari. Il nostro fare quotidiano riproduce una pesante eredità che fatichiamo a riconoscere: eppure essa è fortemente deleteria a noi stessi e alla collettività. L’assenza di strumenti linguistici consoni a interpretarla ne determina negazione e rimozione, ma nella cecità e nel diniego ci riscopriamo complici. La convinzione che la capacità di rispondere agli urti deformandosi sia già un traguardo non produce la reazione auspicata, piuttosto è compagna silente di un meccanismo che ha tragicamente mostrato i propri limiti, ma non per questo cessa di funzionare.
Se una direzione contraria è possibile, non ci si può permettere il lusso di sostare inerti in attesa di conoscere il verdetto di questa lenta agonia climatica dalle proporzioni planetarie. Nel vortice dissennato dei negazionisti del surriscaldamento o dei costruttori delle frontiere, degli incendiari seriali o della deforestazione delle transnazionali, è necessario schierarsi (questa volta sì per lottare) sull’altra faccia della spirale, al fianco dei movimenti giovanili, delle culture che praticano il rispetto degli equilibri terrestri, delle comunità scientifiche che collaborano a livello internazionale e di quella parte della società civile e delle istituzioni [8] che ancora credono che si possa lavorare insieme verso un futuro non ancora inesorabilmente scritto. Qui risiede il germe della trasformazione auspicata, la chiave d’avviamento di una nuova tradizione dagli effetti benefici per ogni ente esistente. Qui si riconosce il lato giusto della Storia.
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