di Valeria Salanitro
Anche quest’anno la città di Palermo si è adornata per celebrare il rituale urbano dedito alla Santa Patrona Rosalia. La 401° edizione dei festeggiamenti si è inserita in una macrocornice antropologica densa di concreta e simbolismi di ogni sorta: prodotti culturali, macchine sceniche, figuranti, colori, musiche e rappresentazioni di icone ed elementi votivi, emblemi e luminarie rievocanti lo spirito baroccheggiante del ‘600.
Il tema che faceva da collante in questa rovente settimana di luglio, che dal 10 al 15 ha trasformato la città in un teatro a cielo aperto, è stato “La bellezza”. In tutta la sua opulenza e magnificenza, la città di Palermo ripropone le celebrazioni rituali di quell’evento, che aggrega e disgrega i panormiti sin dai primi giorni. Un tripudio di simbolismi efficaci e rievocazioni storicizzate oltre che revisionate, ma anche molta attenzione ai dettami contingenti del secolo dell’esacerbazione e dell’esternazione/concretizzazione del potere politico ed ecclesiastico che nell’epoca del Barocco decretava il nuovo sistema agiografico e taumaturgico del capoluogo siculo.
Ma qual è la storia di S. Rosalia Vergine Panormita? Quali sono gli oggetti e gli apparati di questo rituale scenico? Qual è lo scarto tra le celebrazioni urbane e il pellegrinaggio al Monte Pellegrino che prende vita in occasione della solennità del 4 settembre? La rappresentazione iconografica che ruolo ha in questo contesto rituale? Quali sono le immagini del Festino in un’ottica visuale e antropologica? Nel seguente contributo, cercheremo di decostruire miti, segnare linee di demarcazione e/o continuità tra passato e presente, ed evidenziare la rilevanza politica, sociale e antropologica del rituale urbano che, per antonomasia, rappresenta la città del Porto.
Preceduti da rituali cerimoniali ecclesiastici nella cattedrale di Palermo, gli eventi in cui si articola il festino urbano sono molteplici e cadenzano l’intera settimana rituale in cui gli oggetti e le pratiche dediti alla Santuzza accompagnano ogni performance. Nella bellezza in cammino, tematica scelta in questa edizione, Rosalia trionfa con canti, mostre fotografiche, rose e luci piriche. Apparati devozionali che costellano la rappresentazione del ritrovamento delle ossa della nobile Sinibaldi e la salvezza della città in quel secolo di epidemie.
Quel metalessico bisogno di Santi patroni: la decostruzione/ri-costruzione di un rito
Per enucleare le origini e le variabili contingenti che decretarono la nascita del Festino, è necessario tracciare le coordinate cronologiche e sviscerare il contesto storico culturale del ‘600 in cui si trovava Palermo. Una stratificazione sociale degna di nota, in cui potere politico e potere ecclesiastico sancivano le sorti di un popolo di mercanti e pescatori, dediti alla sopravvivenza e vittime di mali esistenziali legati alle epidemie e alle carestie in cui l’altro Stato viveva. Una borghesia attenta e un potere clericale uniti per istituire un riferimento religioso che mancava in città. La ri-costruzione dell’istituzionalizzazione del Festino e l’iscrizione al registro del sistema agiografico della Santuzza, deve passare da quel contesto di precarietà ontologiche e politiche.
Come osserva Rodo Santoro, il Senato (d’intesa con il Governo regio e la Curia Arcivescovile), oltre ad apprestare i provvedimenti sanitari, sociali e di ordine pubblico, doveva dare delle risposte di ordine “culturale” che fossero di immediata e facile presa sulla popolazione tutta [1]. E poiché all’epoca le congregazioni religiose di fedeli proponevano continuamente dei santi patroni da proclamare, il 23 marzo del 1630, Papa Urbano VIII emanò il decreto per l’elezione del santo patrono. Questa doveva essere fatta dal Consiglio generale della città a votazione segreta e il “candidato” doveva essere scelto tra i santi già onorati dalla Chiesa e non già fra i beati, inoltre a decretarne la vittoria, non bastava solo la devozione dei fedeli, bensì che il santo avesse compiuto opere miracolose nei confronti della popolazione e che avesse origini locali [2]. Pare proprio che nella seconda metà del ‘600, nessuno dei santi invocati con messe e processioni avesse adempiuto al compito taumaturgico. Ciò segnò il declino delle quattro sante antiche patrone della città (S. Oliva, S. Agata, Santa Cristina e Santa Ninfa).
Ma un miracolo bussava alle porte di Palermo. Era il 1624 e in quell’anno di morbosa pestilenza che attanagliava la città, furono ritrovate le ossa di Santa Rosalia nella grotta del Monte Pellegrino. L’evento sorprendente e miracoloso, spinse i cittadini commossi alla richiesta di riconoscimento delle ossa e dei miracoli compiuti dalla Santa. Richiesta fatta dall’allora arcivescovo di Palermo Cardinale Doria. Nessun riconoscimento fu compiuto ad eccezione dell’accordo giunto il 27 luglio del 1624. Mentre la peste continuava a mietere vittime, mentre le ossa della Santuzza erano misconosciute dalla Chiesa, il Pretore Don Vincenzo Bosco riconobbe e accettò Santa Rosalia come Patrona della città. Il riconoscimento ufficiale delle reliquie avvenne però, il 22 febbraio 1625, quando l’arcivescovo Doria le consegnò al Senato cittadino e furono riconosciute dagli esperti ecclesiastici [3]. Ma cosa accadde durante le ricerche? Due furono gli episodi significativi avvenuti nel 1624 che sancirono la successiva nomina della Santuzza.
A fianco dell’eremo di Monte Pellegrino, era stato costruito un convento di Francescani, ai quali era stata affidata la custodia della grotta e le ricerche delle ossa della vergine romita. A questi si unirono terrazzieri e una donna, tale Gerolama La Gattuda, la quale l’anno precedente era in pericolo di vita e durante uno stato febbricitante ebbe una visione: una giovane donna risplendente, che la rincuorò e le disse di salire sull’eremo per pregare. Le visioni si susseguirono, quando migliorata dalla malattia, Gerolama ebbe in viso la Madonna e subito dopo la Santuzza, la quale le riferì il punto esatto in cui si trovavano le ossa. Fu allora che i devoti cominciarono a cercarle senza sosta e fu allora che dopo giorni e giorni di fatica furono ritrovate e consegnate alla Curia che le custodì in Cattedrale. Le ossa delle Santuzza non avevano però salvato i panormiti da quel flagello che si era abbattuto su Palermo. Una nave proveniente da Tunisi, attraccò al porto della città. Portava con sé appestati e mercanzie contagiate. Nell’immediato il popolo decise di ridurla in cenere, ma il morbo aveva già preso possesso della città.
Il secondo episodio si inserisce proprio in questo scorcio temporale. Mentre la città era morsa nella stretta del morbo pestilente, un giovane saponaro Vincenzo Bonelli, sconvolto per la perdita prematura della moglie quindicenne, si reca sull’eremo di Monte Pellegrino e decide di farla finita gettandosi dal dirupo. In quel giorno di disperazione, accade un evento straordinario. Il pretore aveva già riconosciuto e accettato le ossa della Santa come autentiche, era stata affiancata alle altre Sante, ma il miracolo, ancora, non era compiuto. La visione mistica del saponaro, però, avrebbe scardinato gli eventi, con una clamorosa notizia. Fu in quell’istante che Vincenzo Bonelli ebbe un’apparizione. Era lei, Rosalia. Rivolgendosi al saponaro, lo distolse dal suicidio e gli mostrò la grotta nella quale era vissuta. In seguito, pregò Vincenzo di riferire un messaggio molto importante al Vescovo di Palermo e, infine, per dimostrargli che quanto preannunciato sarebbe stato vero lo avvertì sulla sua morte, che sarebbe avvenuta di lì a breve per via delle peste. Il messaggio diretto al Vescovo era perentorio: «Avverti l’Arcivescovo e il Senato che la peste avrà fine quando le reliquie del mio corpo saranno trasportate per le vie di Palermo. Così vuole Iddio!». E fu così, che dopo aver mietuto 9.686 vittime, il flagello della peste fu debellato, quando, il 15 luglio del 1625, Palermo accolse tra le sue vie del Cassaro e del Foro Borbonico, le Reliquie della Santuzza [4].
Ma chi era Rosalia, la vergine panormita divenuta santa patrona?
Rosalia Sinibaldi visse nel XII secolo. Figlia di nobile famiglia, da giovinetta fu ancella alla corte della Regina Margherita di Navarra, moglie di Re Guglielmo I di Altavilla. Quegli anni di corruzione al Palazzo reale di Palermo, mentre la giovane Rosalia visse a corte, la spinsero in un secondo tempo a ritirarsi in un eremo sul monte della Quisquinia, dove la sua famiglia aveva un feudo. In seguito si trasferì in un nuovo eremo sul Monte Pellegrino presso Palermo. Lì la nobile donna visse in condizioni di povertà ed eremitiche e proprio per la sua scelta, fu acclamata dalla popolazione, tanto da divenire da lì a poco santa [5].
Una donna dedita al prossimo, alla carità, che rifiuta l’opulenza per rispondere a Dio e alla richiesta di aiuto da parte dei più deboli, pertanto, dedicò la sua vita all’eremitaggio e alla contemplazione. Le cronache storiografiche narrano di una monaca appartenente all’ordine dei basiliani, ma in ogni rappresentazione iconografica, sia essa scultorea o tipografica, la Santuzza indossa un saio molto austero e appartenente all’ordine dei francescani. Il suo credo devozionale, come ci racconta Cascini [6] è meta-rappresentato dagli oggetti materiali che la raffigurano e che costituiscono ogni immagine prodotta dalla Santa: teschio, bastone, vangelo, una corona di rose. Semplicità e austerità, il connubio che connota l’effige di Rosalia Sinibaldi in tutta la letteratura storiografica e visuale. Il fatto che una donna nobile avesse abbandonato le vestigia più rinomate del clero monacale della città e del tempo, mostra i tratti di una donna devota a Cristo e avversa al potere istituzionale dell’epoca. Molto vicina alla dimensione religiosa del tempo, piuttosto che governativa, Rosalia rifiutò ogni forma di contratto sociale con i signorotti del tempo, per portare a compimento la sua missione confessionale. Dal punto di vista taumaturgico, Rosalia si rivelò, nel corso di tutto il periodo della sua esistenza e del suo eremitaggio, molto importante e risolutiva.
L’iconografia ecclesiastica, come si evince dalle molteplici raffigurazioni, mostra l’efficacia simbolica della Santuzza nel compiere atti miracolosi e sconfiggere il male. Guariva malati, salvava anime in pena, intercedeva per volontà divina e, infine, era spesso vicina alla Madonna, che la guidava nel suo cammino di fede. L’intera narrazione storiografica, come raccontano i cronisti che vissero nel ‘600, parla di una donna angelica, le cui sembianze celestiali fossero, talmente auree da rievocare quelle mariane. Non a caso, nel corso dei secoli succedutesi da quel 15 luglio del 1625, Rosalia diviene trionfalmente mariana nelle sue effigi, nei suoi indumenti e finanche nella potenza taumaturgica ed evocativa. Una concezione piuttosto altera, ma avversa alla consuetudine del sistema agiografico dell’epoca, la vide protagonista di uno scarto rappresentativo: Rosalia ermetica e Rosalia opulenta. Una Santuzza povera rappresentata nei carri allegorici e una Rosalia barocca, in quella statua marmorea, nel suo abito in oro in cui giace all’interno della teca nel santuario di Monte Pellegrino. Il ricorso alla vita ascetica, la funzione miracolosa poco contemplata, ed acclamata nel giorno del Festino di quel lontano fine Seicento, segnano il percorso di questa giovane vergine romita, Rosalia: Rosa e lilium. Quella rosa e quel giglio, che dominano spesso il carro trionfale affidato alle maestranze del capoluogo.
Gli apparati simbolici e i luoghi del Festino
In ogni rappresentazione liturgica che si rispetti, l’esordio e l’epilogo sono affidati alle maestranze di abili fuochisti, scultori, attori e teatranti che portano in scena il culto votivo materiale dedito al Patrono di turno. L’edizione di quest’anno, non fa eccezione. Da sempre, infatti, il rituale urbano è uno spettacolo nello spettacolo, in cui luci ed ombre adornano gli spazi urbani della città. Ma quali sono gli apparati simbolici e quali erano nei secoli della proclamazione santifica di Rosalia? Quali luoghi raccontano le sorti della Santuzza e rievocano percezioni e sentori del passato?
Un dato costante che si presenta nel corso dei secoli, dopo l’editto del Cardinale Doria è, indubbiamente, il carro allegorico. Rosalia veniva trainata da buoi o da cavalli in un carro dalle ruote robuste per il Cassaro nei secoli successivi al ritrovamento lungo il Foro Borbonico (atto di congiunzione tra la terra e i rituali legati alle festività agrarie); e in seguito viene trainata da portantini, segno che lo scarto religioso e votivo è avvenuto. I primi carri trionfali erano molto ricchi, grandi e finanche dotati di macchine piriche, avevano funzioni e finalità differenti: acclamare, ma soprattutto stupire. Dai racconti di Rodo Santoro, sappiamo che, a seconda delle scelte governative del Senato, gli scenari che facevano da sfondo alla festività erano più o meno rappresentativi del volere dei signori del tempo. Amato e Lauria, furono i protagonisti indiscussi degli anni che seguirono al trionfo della Santuzza. Gli architetti commissionati destavano stupore con i loro apparati simbolici. Basti confrontare le immagini in bianco e nero che la cronaca ci offre, in cui un grande simulacro della Santa domina dall’alto e osserva i fedeli.
Se ai carri fu riconosciuta un’importanza fondamentale nella rappresentazione del culto della vergine romita è ai fuochi e, quindi, all’epilogo festivo, che nel corso dei secoli i panormiti hanno concesso il primato celebrativo. U jocu di focu, ebbe forte valenza e funzione aggregativa sin dalle prime realizzazioni. Lo spettacolo pirico, dapprima messo in scena con maestose macchine piriche che calcavano la Marina, e in seguito portato in cielo dai quariddari dell’hinterland, sono l’ennesimo apparato simbolico del rituale laico che vede protagonista l’universo igneo in chiave devozionale. Dalla funzione domestica del focolare, il gioco di fuoco segna il passaggio rituale di festività e cadenze calendariali specifiche, che divengono simboli di questa celebrazione [7].
Come osservano Buttitta e Petrarca [8], i bummi [9] sono appannaggio degli uomini che disegnano sul cielo e che elargiscono i simboli di questi quadri onirici dediti ai Santi. Un colpo scuro, degli sbruffi, delle candele romane e finanche il finale dello spettacolo pirico con l’intramontabile masculiata, segnano l’estasi festiva e lo spazio/tempo del rituale urbano dedito alla Santuzza. Una grammatica dei fuochi, che riporta i fedeli alla sfera del patos e della speranza, dell’aggregazione e della disgregazione in una logica identitaria di appartenenza e simbolismi. Marcatore simbolico del rituale festivo il fuoco anche in questa edizione segna la fine delle celebrazioni in cui i luoghi della terra e del mare si incontrano e si scontrano tra onde d’urto e immagini piriche, immagini votive e musiche ritmiche e assonanti ai dipinti celestiali.
Ma i prodotti culturali del festino sono molteplici. É in tutta la celebrazione, sia eucaristico-sacerdotale, che laico-urbana, che ogni performance dell’evento viene accompagnato da un paesaggio sonoro articolato. I luoghi del festino sono portatori di canti devoti e litanie vernacolari. Il Cassaro, il Foro Italico, la Cattedrale, il Monte, il cielo, il mare sono le cornici paesaggistiche in cui prendono vita le voci dei panormiti. Il coro degli abbannianti dediti alla vendita di leccornie del tempo festivo: torrone, mandorle, zucchero filato, sfincione e dolci di ogni tipo, sono gli oggetti culturali di quel piano rituale e materiale che prende vita ogni anno. Una su tutte è la litania votiva che unisce i fedeli lungo il sentiero celebrativo, la più importante e la più significativa sul piano simbolico-liturgico:
/Notte e journu n’ta sta via, via Santa Rusulia!/
/Pi ogni passu e pi ogni via, viva Santa Rusulia!/
Mentre i fedeli si genuflettono davanti al fercolo della Santuzza, che osserva sul piano della Marina con il viso rivolto verso il Monte Pellegrino; si pensa già al 4 settembre. Giungere verso il luogo archetipo in cui spirò la Santa, attraverso l’acchianata ripida dei tornanti che circondano la montagna, è il suggello festivo e rituale, che conclude le celebrazioni liturgiche. La fontana, i sassi e persino le rocce, hanno un valore votivo e simbolico estremamente pregnante. I fedeli patiscono la fatica ogni anno, in occasione della solennità per rievocare e lodare la Santa Patrona morta nel 1170, pregando e ammirando l’opulenza e la sacralità del simulacro presente nel Santuario. Dimensione religiosa e devozione, spiritualità e grazie richieste, sono le determinanti della rappresentazione rituale e festiva di S. Rosalia Vergine Panormita.
Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
Note
[1] R. Santoro, Il festino di Santa Rosalia. La festa in onore della Santa attraverso i secoli, Dario Flaccovio editore, 2003, Palermo: 12.
[2] Ivi:13-14.
3] Ivi: 15-16.
4] Ivi: 23-34.
5] Ivi: 24-25.
[6] Cascini, G. De vita et inventione Sancta Rosolea, 1631, Palermo, e Di sancta Rosalia romita palermitana, 1651, Palermo.
[7] Per approfondire la questione delle immagini piriche nel festino, mi permetto di rimandare alla mia ricerca sul campo: Le immagini del Fuoco. Politiche di costruzioni identitarie, pratiche sociali e incorporazione nel festino. Biblioteca universitaria di Messina.
[8] I. Buttitta, Il fuoco, simbolismo e pratiche rituali, Sellerio editore, 2002; V. Petrarca, Genesi di una tradizione urbana. Il culto si S. Rosalia a Palermo in età spagnola, Palermo, 1986; Le tentazioni e altri saggi di antropologia, Borla edizioni, 1990.
[9] B. Palumbo, Politiche dell’inquietudine. Passioni, feste e poteri in Sicilia, Le lettere, Firenze, 2009 e «Fuoco devozionale e politiche dell’inquietudine. Cerimonialità, potere e politica in un centro orientale della Sicilia», in La forza dei simboli, studi sulla religiosità popolare, di I.E. Buttitta, R. Perricone, Palermo Folkstudio, 2006.
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Valeria Salanitro, ha conseguito una laurea magistrale in Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Pubblicità (curriculum Comunicazione Sociale e Istituzionale), presso l’Università degli Studi di Palermo; nonché un diploma in Politica Internazionale (ISPI) e uno in Studi Europei (I. Me.SI.). Ricercatrice indipendente, redattrice e autrice di molteplici contributi inerenti la Politica estera, le Scienze Umane e i Gender Studies. Ha collaborato con diversi Istituti e testate giornalistiche. Il suo ambito di ricerca verte sui Visual and Culture Studies e sulla Sociologia dei fenomeni Politici; si occupa di immagini declinate in senso plurale, nonché dell’uso politico delle medesime nel contesto internazionale. Tra le sue pubblicazioni scientifiche annoveriamo: La rappresentazione mediatica dello Stato Islamico, edito da Aracne 2022 e Immagini di genere. Donne, potere e violenza politica in Afghanistan, Aracne 2023.
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