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Cosa scrivere da antropologo, come scrivere sull’Alzheimer

-ph.-Licia-Taverna.

Foto Licia Taverna

di Stefano Montes

Il narratore dunque si lascia narrare

Derrida, Il fattore della verità, 113

Vorrei produrmi qui in «uno studio sul come pensare il pensare» (Bateson 1979: 92) e al contempo perdermi nel suo corso al fine di individuare le direttrici teoriche e pratiche di tessitura culturale insite nelle dimensioni cognitive ed emotive [1]. È un tentativo e non so bene quale tema, a questo fine, selezionare. Cosa scrivere senza scadere nell’ovvio? Cosa scrivere senza ricadere nel già detto altrove, all’incirca o pressappoco? Cosa scrivere in movimento cognitivo andante, teoricamente pregnante? Scrivere – vorrei – come fosse musica e non altro: come fosse rock lancinante. Beh, per cominciare, più umilmente, dovrei lasciarmi andare all’evidenza dell’ovvio: immergermi nelle sue necessità teoriche, nel quotidiano partecipare e osservare. Vivere rasenta l’ovvio e il dato: genera automatismi e routine. Che ben venga, però, se le sue pieghe – invisibili, ai sensi assuefatti – sono adeguatamente setacciate dall’etnografo a caccia di significativo quotidiano nel suo darsi! Sia pure l’ovvio allora: in quanto dissimulatore di sensi insospettati o celati da recuperare e mettere in questione.

Come scrivere, di pari passo, per non cadere nell’oblìo di se stessi e degli altri, nella distanza generata dalla scrittura ben concepita, codificata, ma dimentica – per questa stessa ragione – dell’esperienza vissuta, da ripensare? Un bel quesito su cui riflettere nell’atto stesso in cui si versa e diventa piega multi-prospettica, «mondo di catture più che di clausure» (Deleuze 2004: 135): proprio mentre scrivo, traspongo su carta e lascio agire i ricordi mettendoli in scena. La memoria è infatti corta e bisogna alimentarla nel quotidiano divenire. Guai a doverla perdere! Cosa ne sarebbe di noi, poveri illusi, privi di quelle coordinate spazio-temporali radicate nel vissuto singolo e collettivo intimamente denso di cultura? La cultura stessa è infatti «memoria non ereditaria della collettività, espressa in un determinato sistema di divieti e prescrizioni» (Lotman, Uspenskij 1975: 43). Cosa scrivere tenuto conto di tutto questo? Di quali divieti e prescrizioni dovrei tenere conto al fine di meglio mettere a fuoco su qualche – infimo, sfuggente – aspetto dell’esistenza che mi interessa tanto in chiave antropologica?

L’esistenza di un individuo, al pari della cultura che lo impregna, è memoria di ‘ciò che è stato’ e pianificazione di ‘ciò che si vuol fare e diverrà’: oscillazione – inevitabilmente mnestica – dei diversi piani temporali e spaziali, debitamente categorizzati e praticati, remissivamente assimilati o intenzionalmente stravolti. E io? Oscillo: oscillo e tergiverso come sempre. Oscillo il più possibile tra «classificazione […] e studio dei processi» (Bateson 1979: 192): tra un ricordo e l’altro, tra una proiezione futura e un’altra appena trascorsa. Dovrei, a tal fine, perseverando e rimuginando, sedendo e mirando, scrivere ancora sull’esistenza in divenire e l’esperienza disseminata del religioso nel quotidiano o – sicuramente più lieve – sul ‘fuori campo’ e l’anarchica ricerca antropologica; oppure ancora, come già in passato, sui lavavetri e l’assopita indifferenza del prossimo, per strada o in auto, passeggiando e riflettendo. Passeggiare? Come fossi altro, non soltanto quel me stesso che penso di essere? Riflettere come non fossi origine delle mie intenzioni? Magari, più modestamente, potrei tornare a scrivere sul valore della prossimità e della distanza nella prospettiva di un esiliato quale Kundera oppure, più proficuamente, sulla manipolazione mediatica prodotta nel campo della migrazione.

 Moti insospettati (ph. Licia Taverna)

Moti insospettati (ph. Licia Taverna)

Non saprei, non vorrei, non dovrei scrivere, la memoria vacilla, anch’io al suo seguito. A che pro scrivere, d’altronde? Mi rifiuto per principio: sono insofferente alla banalità del male, al pensare spensieratamente oggettivato, all’umano preso con le pinze del calcolo. Scrivere non è sovente che una leggera increspatura della quieta superficie di un mare sociale le cui arcane profondità sono invece in moto insospettato. Scrivere cosa poi? A qual fine? Vorrei scrivere sullo scrivere in sé, se solo non avessi un timore malcelato: «Appena comincia a pensarsi, il linguaggio diventa corrosivo» (Barthes 1980: 78). E io non vorrei cedere al linguaggio in rivolta, non vorrei lasciarmi andare alla sua aggressione erosiva, elementare, esogena. Mi piacerebbe, semmai, addomesticare con pazienza il linguaggio per trasformare ‘un possibile articolo da scrivere’ in una ‘dolce riflessione sull’atto stesso dello scrivere’: spostando l’accento dal risultato bell’e pronto al suo corso, dal sistema al processo, dal testo allo scrivere.

Insomma, tenuto conto del principio secondo cui la «natura dell’atto intellettuale può essere descritta nei termini di una traduzione» (Lotman 1993: 16), ritradurrei le mie intenzioni odierne in articoli rivelatori di tracce del passato a me caro. In che maniera? Per l’appunto, traducendo pensieri su pensieri, traduzioni in traduzioni; risalendo, così, di significato in significato, al mio atto intellettuale: ben sapendo che «il significato non è altro che questo mettere in relazione» (Lévi-Strauss 1988: 198). E allora, con rimotivata convinzione oggi, riprenderei l’argomento del ‘fuori campo’ insistendo sull’inaspettato incidere della foto come traccia che si sovrappone alla scrittura etnografica. Dovrei – estraniandomi – rimettermi a pensare per immagini, ma non so, non voglio, tanto non devo, non posso. Sono sempre più irrequieto e «lo sguardo cerca: qualcosa, qualcuno. È un segno inquieto» (Barthes 1985: 302). Nonostante l’irrequietezza, mia e dello sguardo, dovrei catapultarmi in quel vissuto i cui segni sono altrettanto inquiete immagini nella mia mente?

Nutro una qualche diffidenza, al momento, delle immagini che si offrono allo sguardo – allo scatto troppo facile del mio apparecchio fotografico – che cerca di coglierle in un battibaleno, mentre io vorrei, di contro, rallentare, rifletterci, ruminare, rosicchiare il visibile attraverso spunti di scrivibile e pensabile. Del tutto d’accordo: se «potrà esserci un modo migliore per permettere al mondo reale di includere in sé quello delle immagini, esso richiederà un’ecologia non soltanto delle cose reali ma anche delle immagini stesse» (Sontag 1978: 156). Del tutto d’accordo, ma non siamo a questo punto: io non sono a questo punto. In alternativa, per gradi bathmologici, recuperando connotazioni su connotazioni, potrei semmai fare finta – con me stesso – di essere un antropologo d’impostazione classica al fine di toccare ancora il bel tema relativo al valore culturale della collera in contrappunto spaesato con il soggettivismo lévi-straussiano. E però – vallo a capire in anticipo! – non ho la briosa certezza di saper mescolare, una volta di più e col gradiente richiesto, ‘antropologia sostanziale’ e ‘linguistica strisciante’. Altrimenti mi potrei rimettere a lavorare sull’angosciante conflitto – parlo di sensibilità e razionalità – esperito qualche tempo fa in visita a un campo di concentramento trasformato in museo della memoria. Ci sono stato ben due volte: sarei giustificato dalla mia stessa esperienza di visitatore scombussolato al cospetto della nuda vita. No, direi di no, fin troppo tormentato, non ci ho dormito sopra, me ne guardo bene!

Between-places-ph.-Licia-Taverna.

Between places (ph. Licia Taverna)

Sono sempre tentato di fare – come scrive Behar – un’antropologia che spezza il cuore e riconosco di essere sempre «between places, between identities, between longings and illusions, one foot in the academy and one foot out» (Behar 1996: 162). Proprio per questo, però, desidero sottrarmi a me stesso, alla mia vulnerabilità, scrivendo d’altro e d’altri, come se fosse un inoltro di messaggio di cui sono in parte ignaro, in attesa di una rivelazione che si fa attendere. Improbabile, infelice attesa? Una questione certamente più allegra, in questo senso, potrebbe riguardare la dimensione multisensoriale vissuta in spiaggia e l’esotismo etnografico. Che magnifica sensazione lasciarsi andare all’insorgere delle sinestesie in corso d’opera mentre il corpo sospende la sua presa sull’individuo che riflette liberamente sull’esperienza vissuta stabilendo nessi tra (teorie dei) sensi, flussi di pensiero e dell’azione! Proprio una bella sensazione da cui trarre vantaggio per andare oltre – alcuni – testi e concetti. Ma non è sempre così.

Becker, da parte sua, ricorda infatti che una delle strategie più comuni di ricerca in etnografia consiste proprio nell’affidarsi a concetti debitamente scelti (Becker 2007). E io ho scelto? Io, in spiaggia, al contrario, mi lasciavo andare a un lévi-straussiano va e vieni tra l’esperienza vissuta e alcuni concetti che si sgranavano – sfumavano inesorabilmente – sulla spinta dell’intrecciarsi dell’insolita dimensione percettiva e agentiva prodottasi sotto il sole cocente e il vento sferzante della giornata: mi dibattevo felicemente tra l’esperienza che vivevo e il teatro di operazioni mentali in tumulto. In pieno spirito antropologico, mi avvalevo della «soggettività più intima come di un modo di dimostrazione oggettiva. Poiché è pure un fatto oggettivo che lo stesso individuo, che si è abbandonato all’esperienza e si è lasciato modellare da essa, diventi il teatro di operazioni mentali, che, senza abolire le precedenti, trasformano l’esperienza in modello, rendendo possibili altre operazioni mentali» (Lévi-Strauss 1978: 50).

Che magnifica sensazione zigzagare tra tratti della cultura – non più dati per scontati, non più assunti con la distanza del solo intelletto o con la prossimità dell’esperienza in sé – esperiti in prima persona nell’intersezione sregolata di sensi, percetti e atti mentali! D’altronde, da dove potrebbero provenire i tratti modellizzanti della cultura «se non dal comportamento di un uomo o una donna o un bambino?» (Benedict 1946: 219). Tutto quadra teoricamente e praticamente, si potrebbe dire e lo dico, ma adesso siamo in pieno inverno, lontano dalla piacevole brezza marina e dal picchiare inebriante del sole estivo. E io sono metereopatico: oscillo con l’oscillare del tempo. Non posso che aspettare il bel tempo e il favore dell’ispirazione. Di cosa parlare allora – oscillando di nuovo e daccapo, in prospettiva dislocata, sempre più disseminata – nel prossimo numero della rivista? Mancano pochi giorni alla consegna e la memoria non mi sorregge in quella che vorrei fosse un’alta proiezione nel futuro a partire dall’ancoraggio passato da richiamare poco a poco: nell’agio della lentezza che si fa strada da sé, per sé. Dunque radicarsi per proiettarsi? Potrebbe essere un’idea. O radicarsi più che proiettarsi? Come scrive Geertz, scoccando una freccia teorica contro Clifford, «è forse troppo presto abbandonare le radici per le strade» (Geertz 2000: 118). È troppo presto anche per me, nonostante i miei viaggi e trasferte, escursioni e stravolgimenti, collage cliffordiani e bricolage lévi-straussiani. Il ritorno ha sempre la meglio: felice o infelice che sia.

Date le circostanze, giusto per cambiare inclinazione prospettica, potrei tornare a riflettere sull’inadeguatezza della parola a proposito del morire e sull’oggettivazione simbolica in quanto elemento d’intermediazione del sentire di un soggetto che non intende aprirsi al lettore se non per correlazioni, per esempio alla maniera di T. S. Eliot. La produzione di un messaggio e la sua simmetrica ricezione per interposta lettura – lo è ogni lettura che traspone accenni di alterità – abbisognano del giusto grado di trasposizione di senso e sentire, correlazioni oggettive e soggettive. Beh, proprio quell’equilibrio dei sensi e del senso che manca adesso a me! Sarei tentato di scrivere – invece, questo sì, per il piacere della memoria in vacanza felice – sul senso del passato e il vagabondaggio intellettuale.

 Vorrei oscillare (ph. Licia Taverna).

Vorrei oscillare (ph. Licia Taverna)

Avevo però promesso – le promesse hanno forza illocutoria, ricorda Austin – di aspettare il rinverdire delle sensazioni con un viaggio a New York. Non me ne verrebbe però niente di buono, cognitivamente e mnesticamente, senza prima tornare a passeggiare spensieratamente per la grande mela. La memoria si avvale della freschezza dell’esperienza – in funzione di ponte più o meno stabile – per operare un affondo nel passato, persino quello più lontano. E allora no, non è il caso, non so, ci dovrei pensare bene, sono al lavoro, sono nel caos, sono al chiuso in casa e non vorrei. E poi se scrivo, scrivo anzitutto per me stesso, per caso, per reazione a ciò che sarei se non scrivessi: per rivelare spizzichi di verità a me stesso nascosta nelle pieghe di una memoria fin troppo indipendente. Come irreggimentarla senza perderne la possanza di proiezione pianificatrice e la correlata rilevanza di traccia del passato da trascrivere? Dovrei risolutamente adeguarmi alla memoria, assecondandola, rispettandone i tempi della scrittura: «nella scrittura ci sarebbero due tempi. Un primo tempo che sarebbe il tempo della passeggiata, un tempo divagante, quasi dragueur, durante il quale si dragano i ricordi, le sensazioni, gli incidenti, li si lascia sbocciare. Poi ci sarebbe un secondo tempo, quello del tavolo a cui si scrive» (Barthes 1986: 335). Io vorrei però oscillare, mescolando i tempi e gli intrecci narrativi: pensare il meno possibile, lasciare affiorare i ricordi in modo disordinato, farmi sfiorare dalle emozioni, applicarmi a trascrivere senza rifletterci più di tanto, passeggiare con un taccuino in mano. Per liberarmi, liberarmi veramente del mio irrigidimento intellettualistico, sarebbe allora opportuno riprendere il tema dell’attendere inteso come forma di vita. In un pronto soccorso d’ospedale o dal medico? Ambedue toccati, attraversati, da tenere a distanza oggi per motivi che io stesso per buona metà ignoro e di cui non intendo intenzionalmente parlare per altra metà. Toccati e toccanti.

E dunque, se niente si attaglia, non scrivo, non devo, non voglio: non è proprio il caso, se l’argomento poco punge, direbbe Barthes. Né studium, né punctum insomma! Semmai, un più semplice ricorso al dialogo, mescolando auto-comunicazione ed etero-comunicazione. Rivolgersi a se stessi, in una sorta di linguaggio interiore, tenendo dunque conto del dialogo con altri? Perché no! Le «leggi immanenti e inconsce dell’auto-comunicazione palesano certi connotati strutturali» (Lotman, Uspenskij 1975: 122). Ne vale la pena, a conti fatti? Perché non saprei come mettere bene in atto questo proposito, pianificandolo, in maniera appropriata adesso che sono tutto preso dalla scrittura che sbriciola i pensieri in corso e le pianificazioni certe: dalla pianificazione all’atto, peraltro, esiste tutto un mondo di interazioni impercettibili che richiedono pazienza e ottemperanza per trovare espressione coerente su carta. Soltanto, vorrei scrivere per non pensare: non vorrei – questo no! – scrivere per infrangere la lingua dell’interiorità la cui consapevolezza genera smottamenti dell’essere. E dovrei farlo, nonostante tutto: nonostante il cattivo tempo e le preoccupazioni, dovrei interrogarmi su ciò che è interiore, oltre che esteriore, infrangendone le frontiere. Ma non posso all’istante che rimandare ad altro, rinunciare, riflettere col tempo, nel suo incalzare a tempo, inseguendolo fuori asse, pur ammettendolo: la «plurilinearità del discorso è una delle proprietà costitutive dell’esercizio della lingua» (Bergounioux 2004: 228) da esplorare con tutti i mezzi possibili, sia antropologici sia linguistici.

Devo allora dare tempo al tempo. Respirare lentamente. Farmi carico del respiro con l’occhio della mente. Osservarlo entrare al mio interno, fuoriuscire al di fuori: il respiro. Partecipare in modalità più ricettiva, seguirlo nel suo percorso: il naso, le vie respiratorie, i polmoni, il basso ventre. Io respiro. Mi adeguo, divento respiro io stesso, instaurando un dialogo con me stesso divenuto respiro, interrogandomi sui modi di interagire del mio corpo e sui modi del contesto di accoglierlo. Mi svuoto del troppo pieno, del senso di esterno e interno. Il discorso interiore è parte integrante della plurilinearità del discorso e ne sono consapevole. Ci sono dentro – nel quotidiano – persino adesso che tentenno e mi lascio andare al mio respiro per rilassarmi. Non posso arrestarlo nemmeno se lo pretendessi: né il quotidiano divenire, né il respiro o il mio discorso interiore. Mi rimetto allora, indeciso, al mio umore di domani. Attendo l’ora buia. Decido di dormirci su, mentre la notte stringe già piacevolmente d’assedio i miei propositi. Continua così, tra una lettura assorta e un proustiano dormiveglia, un dialogo con me stesso, ormai divenuto, nel tempo, d’ordine rituale, trasformatore di me stesso e delle mie stesse decisioni: d’altronde, «even in its interior dimensions, ritual has always been already dialogic» (Du Bois 2009: 336). Un solo elemento – il suo peso dialogico non è indifferente – scompagina adesso l’andazzo di apparente fluidità pacata che traghetto instancabilmente da un tema all’altro, da un capo di sperimentazione antropologica alla sua resa su carta meno contorta. Cioè?

Mirino (ph. Licia Taverna).

Mirino (ph. Licia Taverna)

Da buon amico, con l’efficacia conativa di sempre, Tonino mi ha ricordato che, con la mia assenza nel prossimo numero della rivista, avrei spezzato il flusso di (mia) scrittura che dura ormai da tempo. Eppure, sembrava ieri! Ricordo ancora il primo articolo scritto per la rivista divertendomi a mescolare azzardati assaggi di Joyce e ribelli spizzichi di Deleuze: sul tema dei flussi di coscienza come forma di divenire e sul divenire come pensare sregolato. Ne è passato di tempo e di articoli e di tentativi di effrazione di metodo e d’azione. E io sono cambiato nel frattempo? E chi può dirlo! Scrivo sullo scrivere, scrivo per non pensare, scrivo per essere altro, volteggiando da un tema all’altro: il vissuto e la necessità della sua traduzione semiotica, l’intervento del caso e l’ordine sregolato del pensiero, l’improvvisazione e il parallelo raccordo dialogico, l’apparente incongruenza tra implicita agentività e impossibile inazione in vacanza, il corpo come strumento di conversazione nel quotidiano, la vita come oggetto di studio antropologico e l’adeguatezza degli strumenti antropologici. E mi rendo conto adesso – nell’affluire digressivo di ciò che verrà e di cui potrei scrivere – della loro qualità differenziale: un tema non sta mai in piedi in solitudine, fa da contrappeso a un altro, in contraltare o in contrappunto.

Non ne avevo contezza: la scrittura ha le sue tattiche di non immaginata via salvifica e di resa più o meno consapevole. L’equilibrio è instabile, ma è pur sempre un equilibrio! Me ne rendo conto adesso che non faccio altro che tuffarmi nel passato di ciò che è stato scritto – inquieto come il mirino traballante di una macchina fotografica pronta allo scatto – rivivendolo, riaccendendo la mia memoria, riconfigurando nella mia testa alcuni temi in modo inatteso. Me ne rendo conto nel momento stesso in cui percepisco la distanza insussistente che vorrei invece porre tra me e mia madre, tra la mia esplorazione della memoria e la sua carenza di radicamento nel passato, tra la mia apparente sanità e la sua strana malattia dissipatrice dell’accaduto. Ancora, in chiave materna, un ‘doppio vincolo’ di batesoniana memoria? Oppure, invece, un principio minimo di freudiana liberazione messo in opera da associazioni incontrollate? Cedo, penso e scrivo e vorrei invece rilassarmi. Sono teso e atteso? L’uno e l’altro. E così, suppongo, come in passato, potrei adesso continuare per contrapposizioni e decentramenti, naufragando dolcemente, oltre la linea dell’orizzonte della coscienza, nella memoria magmatica del già avvenuto da trasporre all’infinito. Così, certo, potrei tornare a parlare della passeggiata e della correlata costruzione dello spazio: della sua difficoltà a renderli in testo scritto, passando dall’esperienza alla sua riformulazione. Certo, potrei. Così come potrei mettermi alla prova nuovamente sul senso dell’abitare come forma di appropriazione della cultura: della difficoltà di comprendere l’abitare in quanto elemento intimo e al contempo culturale. Certo, potrei, ma non è il caso: al modo di Bartleby – improbabile commistione d’azione e sospensione – direi che «avrei preferenza di no» (Melville 1991: 12).

Avrei preferenza di no (ph. Licia Taverna).

Avrei preferenza di no (ph. Licia Taverna)

Non ho proprio voglia di memoria agentiva, non voglio esserne sopraffatto, desidero capire cosa succede se essa si azzera invece, dialogando con me stesso come fossi un altro: pur sapendo – a proposito di intenzioni – che non «sempre si sa quali scopi le azioni e le parole intendano ottenere» (Duranti 2001: 130). Le intenzioni sono anche del – appartengono anche al – contesto in cui ci si trova ad agire. E io ci sono in pieno – fiume arginato dal regime linguistico – nel contesto del dialogo interiore: in mezzo, per metà. Tonino avrà intuito le mie intenzioni non teleologiche, la mia esitazione non finalizzata a alcunché, il mio desiderio di stare lontano dagli inizi e dagli epiloghi? Se devo scrivere, scrivo sullo scrivere rimanendo negli interstizi, in una modalità più prossima alla scrittura automatica: lasciando dunque che il narratore sia narrato dalla sua scrittura. O no? Tournier difende un’idea di scrittura – quella dell’artigiano – instauratrice di un dialogo col lettore, molto diversa dalla scrittura di coloro i quali «écrivent comme ils respirent, comme l’abeille fait son miel, accomplissant ainsi une fonction qui leur est naturelle et qui est probablement nécessaire à leur équilibre» (Tournier 1981: 11). Secondo Ernaux la scrittura non ha – non dovrebbe avere – niente a che vedere con ciò che manteniamo nell’intimo, sepolto al nostro interno, ma con il dono del testo agli altri, al lettore: «je me projette dans le monde, au-delà des apparences, par un travail où tout mon savoir, ma culture aussi, ma mémoire, etc., sont engagés et qui aboutit à un texte, donc aux autres» (Ernaux 2003: 60).

Condivido l’idea che la scrittura debba avere un destinatario con cui interagire, con cui proiettarsi nel mondo: questo destinatario, tuttavia, può ben essere chi scrive e il rapporto intimo con il suo essere nel mondo attraverso un corpo che respira naturalmente e che si vuol cogliere – certo, non facilmente – come fosse una sorta di lettura. Io posso dire io. Io uso la scrittura come corrispettivo di un dialogo interiore. Io, qui, mi potrei limitare «a una lettura particolare (come ogni lettura?), la lettura del soggetto che io sono, che credo di essere» (Barthes 1988 : 27). Lo sto facendo mentre interrogo il mio passato – sotto forma di saggi già scritti – e me lo chiedo e non a torto mentre il tempo vola! E dove va? Che posso saperne? Io posso dirlo senza saperlo. Io dico “io” senza volerlo. Io sono letteralmente sommerso dagli articoli scientifici da scrivere, in tonalità più convenzionale, con le dovute citazioni e i ben congegnati – tutto sommato inutili, se non a fini concorsuali – rimandi teorici. E io non vorrei, non dovrei, non potrei concedermi alle ibridazioni concettuali che mi accingo invece a predisporre, una volta cinto meglio d’assedio il tema intravisto per la rivista: la memoria dimentica di se stessa, della persona, del mondo. Sarebbe una distrazione, una liberazione dalle convenzioni?

Ci sono finalmente: sono pervenuto – insospettato fattore della verità – a ciò che intimamente sapevo già. Io sapevo. Lo sapevo e esitavo. La memoria è un operatore essenziale di accumulazione di informazione, così come un mezzo fondamentale per la comunicazione e lo scambio sociale: «l’uomo nella lotta per la vita è inserito in due processi: nell’uno interviene come consumatore di valori materiali, di cose, nell’altro invece come accumulatore di informazione. Ambedue sono necessari all’esistenza» (Lotman, Uspenskij 1975: 28). Senza memoria, questo processo di accumulazione e scambio, materiale e simbolico – costitutivo dell’essenza dell’esistenza individuale e della stessa cultura – non sarebbe possibile. Così penso, allora cedo, dunque scrivo al condizionale, alla maniera di Perec ne Les choses, il quale, nell’epilogo – significativo per i miei e suoi fini – lascia per forza di cose prevalere il futuro: «il ne leur sera pas si facile d’échapper à leur histoire. Le temps, encore une fois, travaillera à leur place» (Perec 1965: 115). Al suo pari, non oppongo più resistenza, cedo al lavorìo del tempo: lasciando che le disincantate sensazioni impregnino i nudi pensieri in corsa; lasciando che il ricordo, simile a raggi di sole, indichi – nello scorrere di minuti frammenti di vita – ciò che a me stesso è ancora poco visibile e deve essere debitamente interpretato tramite una discontinuità o l’altra del defluire della scrittura. Capitolo. Cedo. Cucio pezzi di flussi ideativi e li smonto daccapo, nel tempo, nell’attività frenetica del pensare e scrivere, per tenere fede a spizzichi di intenzione: «il tempo [per i Nuer] è una relazione tra le attività» (Evans-Pritchard 1975: 149). E così è per me: intesso relazioni tra attività disseminate nel passato e nel presente, riconvertite e tradotte. Mi piego, cedo e cucio, mentre si profila per me il racconto di una capitolazione. Mi arrendo? Mi sfrondo dell’eccesso di dettagli? Meglio prendere debita misura delle intenzioni, rimandare: per non parlare di memoria, propria e altrui, affondando in sensazioni e ricordi, trascrivendoli in testo, mantenendoli a distanza, naufragando nel processo del loro affiorare mentre si scrive, mentre si ascolta e si intende preporre fini.

Dettagli (ph. Licia Taverna)

Dettagli (ph. Licia Taverna)

La memoria ripropone, al presente del vissuto, temporalità parallele: talune già esperite, tal’altre soltanto presentite. Presentite? Beh sì, come è successo a Myerhoff nella sua ricerca sul campo in un centro per anziani dove, attraverso i soggetti che studiava, ha avuto la possibilità di immaginare se stessa, in futuro, con i problemi che comporta l’invecchiamento: «an opportunity to anticipate, rehearse, and contemplate my own future» (Myerhoff 1978: 19). Studiare gli anziani, dunque, per capire come potrà essere la propria vita in futuro, con il bagaglio di memoria che rimane? Sul campo e fuori campo, la memoria si configura come un va e vieni incessante di dimensioni temporali, sovrapposte e contrapposte, rivissute e anticipate, continue e discontinue. Sul campo e fuori campo, la memoria è un ritorno di esperienze da ripensare, magari prima ancora di averle effettivamente vissute. La memoria sovente anticipa il futuro più che, semplicemente, rimandare al passato in sé. Orienta in taluni casi verso il futuro e – ricorda Deleuze a proposito di Proust (Deleuze 1967: 8) – «interviene [...] come mezzo di un apprendistato che la sorpassa sia negli scopi che nei princìpi». Non esiste via di fuga possibile, per giovani e meno giovani, al passare del tempo e al riposizionarsi della memoria verso il passato o il futuro, al ritorno del vissuto e all’apprendistato che proietta nel divenire: «Prima o poi, ognuno è condotto a interrogarsi sulla sua età, che sia sotto un aspetto o un altro, e dunque a diventare un etnologo della sua propria vita» (Augé 2014: 15). Per questa stessa ragione, sarebbe un bene interrompere un flusso di persistenza – sollevato dall’intermittente, benefico sorso di caffè macchiato – per capire cosa succede nell’assenza: nella discontinuità, nell’apparente non affanno dell’interruzione rivelatrice.

Dovrei smettere, perciò, di andare in cerca di continuità: una chimera. Dovrei smetterla di scrivere per qualche tempo: inseguendo il campo e la cultura come insieme complesso che include tutto tranne la vita stessa. In fondo, la «cultura, coi suoi segni che organizzano e orientano, […] non è in ultimo che un modo di vita determinato» (Miceli 1982: 612). Si tratterebbe allora, nei miei futuri progetti, di capovolgere l’assunto posto talvolta in rilievo in antropologia – la cultura nella sua astrattezza – e ripartire dall’individuo, dalla vita e dalle forme di discontinuità che la caratterizzano. Dopo tutto, «il mondo del senso, dell’organizzazione e comunicazione non è concepibile senza discontinuità, senza soglia» (Bateson 1979: 202). Interrompere serve a riflettere sul tempo e sugli interstizi che lo caratterizzano. Forse sì, forse no. Oscillo. Mi blocco. Oscillo ancora. Mi gratto sulla fronte, sulla spalla: sulla pelle. Tergiverso. Indugio: sulla soglia del tempo che passa. Appiccicato alla sedia, il computer al mio cospetto, non replico a Tonino e penso – per tutta risposta a me stesso – a una soluzione rammendatrice: potrei uscire allo scoperto, capovolgendo l’ordine lineare delle cose, interrompendo la sua azione causale, riallacciando al contempo con la memoria, con la scrittura più fluida e impertinente. Tentenno. Cedo. Sbotto: immergendomi, lasciandomi prendere alla sprovvista dal passato, proiettandomi in un possibile futuro non ancora intravisto.

Le temps pour moi (ph. Licia Taverna).

Le temps pour moi (ph. Licia Taverna)

Ecco. Ci sono. Potrei scrivere per non pensare: invece di pensare per scrivere o pianificare per realizzare, potrei fare l’esatto contrario. Potrei scrivere per non pensare al cosa fare, alla memoria che si azzera: all’Alzheimer. E così di seguito: alla memoria dimentica di se stessa, alla cancellazione delle radici, alla revoca progressiva dell’identità. L’Alzheimer è l’antitesi della memoria: è l’oblio di sé, d’altri. E io potrei scrivere per tenere inoltre a bada i pensieri che corrono all’Alzheimer e alla memoria intaccata: di mia madre priva della sua identità d’un tempo. Potrei scrivere per dimenticare: lei che non è più lei. E io sono io? Contro l’identità? Si fa presto a dirlo: nel nome dell’interconnessione e delle differenze. Siamo ancora lontani dall’elogio del radicamento accordato alla/dalla memoria e dalla sua esplorazione come forma di discontinuità temporale d’ordine oscillatorio. Più umilmente, per meglio decentrarmi, scrivo allora a partire dal mio vissuto di individuo alle prese con una persona cara, ammalata di Alzheimer, in preda al passato lontano, dimentica di quello più recente. Perché mai? Perché cedo adesso dopo tanto oscillare? Perché so che potrei scrivere – non vedo altra soluzione – in attrito con me stesso e la malattia di mia madre, con la cognizione in atto e in potenza, nella sua trasposizione scritta: per combattere in qualche modo il rosicchiare lento della memoria.

Mia madre soffre di Alzheimer, mia madre non è più se stessa, mia madre non è più sorretta dalla memoria del tempo. Cedo, scrivo, non tergiverso. Non ha più la memoria di un tempo: lei. Proprio lei: così attiva. Che contraddizione: essere una persona e non radicarsi più nella propria identità di una volta: perché la memoria fa difetto. Che strano contrasto essere ancora in vita e situarsi già al di fuori dal tempo. Fuori dal vivere, fuori dal tempo? «Quando il cielo basso e cupo pesa come un coperchio/sullo spirito che geme in preda a lunga noia/e abbracciando il cerchio di tutto l’orizzonte/ ci versa una luce più triste delle notti» (Baudelaire, “Spleen LXXVIII”). Che sconcerto! Scriverci – dovrei – per soffrire? Piuttosto, direi, per avvalermi degli effetti catartici, benché ossimorici, forniti dalla scrittura: per tentare di sciogliere il doppio legame che ne risulta. Non è infatti tutta la scrittura – anch’essa, al pari dell’Alzheimer – una vincolante contraddizione posta tra il vissuto che scorre in divenire e l’interposizione semiotica data dal trasposto su carta (o altro medium) nella sua forma comunque discontinua? Bateson non ha tutti i torti a parlare di discontinuità. E ancora: non è forse la memoria un contraddittorio dibattersi tra il necessario ricordare che mantiene integra l’identità e l’indispensabile oblìo che fa spazio ad altro e sottrae territorio all’io? Culturalmente e individualmente, alla memoria fa da contrappeso l’oblìo: all’una è necessario l’altro. Come sottolinea Augé: «la nostra relazione con il tempo passa essenzialmente attraverso l’oblìo» (Augé 2000: 39).

Sarebbe difficile vivere se non si mettesse automaticamente in opera un meccanismo di selezione del ricordo e un simmetrico processo di accumulazione e di cancellazione dell’eccesso. Nelle Finzioni, raccontando la storia di Funes, Borges va nel senso di Augé: riconosce il valore dell’oblìo e della migliore qualità di vita in cui ‘dimenticare’ e ‘ricordare’ si accordano giusto spazio. Dopo una caduta da cavallo, Funes rimane infatti immobilizzato, ma acquisisce di contro una memoria eccezionale. Non gli importa molto della disgrazia in sé: ciò che lo preoccupa è proprio l’acquisita nuova memoria che lo tiene però incollato a un presente troppo «ricco e nitido» dal quale non può distogliersi con facilità (Borges 1961: 102). Per vivere, in diversa prospettiva, più ‘normale’, è necessario invece potersene distaccare e oscillare tra il presente in corso, la memoria del passato e il futuro pianificato. Funes, grazie alla sua memoria elefantiaca, può persino ricostruire un’intera giornata, ma non può riuscire a farne sintesi o astrazione di dettagli. Non gli riesce nemmeno di dormire bene perché, a questo fine, è necessario – afferma il narratore – distrarsi dal mondo, dai suoi infiniti, minuti particolari che rimangono nei meandri della sua memoria. Insomma, Funes non riesce a dimenticare e, con ciò, non riesce nemmeno a lasciarsi andare a una benefica oscillazione temporale, a simmetriche sintesi e astrazioni: se non ci si può distrarre dal mondo, poiché si è incollati ai dettagli, non si può nemmeno avere il dono della distanza che consente di inquadrare le cose nel loro insieme. Il narratore sospetta che Funes non sia nemmeno «capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati» (Borges 1961: 105).

 Awareness (ph. Licia Taverna)

Awareness (ph. Licia Taverna)

Ciò pone due quesiti: che vuole dire pensare? Che vuol dire conoscere? Per pensare e conoscere veramente, è necessario fare sintesi, mettere in opera astrazioni, limare dettagli, prendere le distanze, avvicinarsi nuovamente al mondo: insomma oscillare, nel possesso della memoria. Si potrebbe obiettare, in ultima analisi, che il mondo di Funes è inventato da un abile narratore di finzioni qual è Borges. Invece, questo racconto di Borges può essere letto in parallelo – tanto è grande la coincidenza di ipotesi e verifiche – con la ‘storia vera’ del mnemonista, studiato da Lurija, il quale aveva difficoltà a dimenticare e veniva, anche lui, sommerso dai dettagli che lo rendevano diverso, che modificavano il suo modo di pensare: «un uomo che ‘vede’ tutto, e sente tutto con modalità sinestesiche, non può percepire le cose, vedere gli altri o sentire se stesso come tutti noi» (Lurija 1979: 100).

Tirando le somme, avviandomi verso una parvenza di conclusione, direi che oblìo e ricordo sono parte integrante di uno stesso meccanismo regolatore del senso di identità e del senso del tempo. Mia madre è talmente dimentica di se stessa – della sua immagine – che, davanti lo specchio, pensa di parlare con qualcuno altro e gli chiede spiegazioni riguardo alla sua presenza soffocante: il meccanismo regolatore del tempo e dell’identità è sconnesso, il rapporto tra immagine e realtà inceppato. Si tratta di una sorta di regressione rispetto allo stadio dello specchio di cui parla Lacan? O si tratta, piuttosto, di una frattura semiotica insanabile, tra il significante e il significato, che non consente più di situare nel corretto modo i referenti del mondo? Mia madre mi chiede, di tanto in tanto, cosa ne è stato di suo padre, ormai morto da tempo: le rispondo che non è più tra noi, che ne è passato di tempo, che non potrebbe essere vivo. Mi risponde “anche lui?”, rendendosi forse conto del fatto che qualcosa non va nella sua memoria; al contempo, però, ho l’impressione che pensi che non vada così male se io me ne faccio carico: io posso farle da memoria portatile e lei può interrogarmi a piacimento sulle sue carenze mnestiche, come quando mi chiede “come ci sono arrivata fin qui?” oppure “dove abito adesso?”. E mi disorienta, però, perché è come se fossi brutalmente posto di fronte all’essenza del tempo, alla mia vulnerabilità rispetto al suo scortarci verso il morire. E così posso pure capire Ernaux quando dice della madre affetta di Alzheimer: «Elle est le temps, pour moi. Elle me pousse aussi vers la mort» (Ernaux 1997: 77). E condivido – per quanto strane possano sembrare a chi non ha avuto esperienza – le parole di Klare, anche lui con una madre ammalata: «Ci sono continuamente momenti toccanti, sorprendenti e perfino illuminanti. A volte anche schiettamente comici. Imparo molto da mia madre» (Klare 2015: 9).

Anch’io imparo molto da mia madre e, dicendolo, mi stupisco ancora della consapevolezza che ho acquisito, tramite lei, dello scorrere del tempo e dell’identità, del morire e del vivere. Perché, al fondo, riflettere sull’Alzheimer significa riflettere sul senso del vivere di un individuo senza passato o, comunque, con un passato che si sgretola sempre più e lo annega nell’indifferenza altrui data dall’assenza di memoria purtroppo tanto importante nella nostra società di massa. Qual è il vero punto dolente in definitiva? Non c’è più possibilità di scelta per l’individuo ammalato di Alzheimer, non c’è più possibile oscillazione tra (recupero del) passato e (proiezione nel) futuro: non c’è più il piacere di risiedere nel presente e di goderselo liberamente con la coscienza di chi può dondolare ancora nel futuro o nel passato. Non si oscilla più, non c’è più dondolìo. Lotman scrive che «Comprendere il senso equivale a comprendere un linguaggio» nella sua interezza (Lotman 1994: 23). Pur accettando questa ipotesi sistemica, devo ammettere che l’Alzheimer spiazza – sembra non avere senso – proprio perché, socialmente e culturalmente, appare una patologia i cui effetti si situano, almeno di primo acchito, al di fuori di un linguaggio coerente.

 Libere associazioni (ph. Licia Taverna).

Libere associazioni (ph. Licia Taverna)

A dirla tutta, l’Alzheimer è una vera e propria sfida al senso in sé e al senso del vivere con una memoria che dovrebbe invece, normalmente, fare da cemento sociale. A questo riguardo, un punto va ulteriormente sottolineato. L’esplicita «disposizione a cercarsi fuori di sé» (Buttitta 2003: 54) si costituisce in parallelo con l’implicita necessità di ‘doversi inseguire’ nella memoria in modo duplice: la memoria che ogni singolo individuo ha di se stesso in dipendenza dalla memoria che gli altri hanno di noi, e viceversa. Questo duplice meccanismo – sorta di specchio di continua ricostituzione dell’identità e alterità – s’inceppa nel caso dell’Alzheimer: un malato di Alzheimer, infatti, si relaziona con gli altri attraverso il suo modo di situarsi nel mondo in quanto persona con una memoria vacillante il cui altrui riconoscimento è altrettanto vacillante. Come scrive Tonkin, in un bel libro dedicato ai modi secondo cui individui e società costruiscono il loro passato, «ciò che gli esseri ricordano è legato alla loro identità» (Tonkin 2000: 136). Se ciò è vero in generale, nel caso dell’Alzheimer diventa particolarmente sconcertante, fuorviante, destabilizzante per amici e parenti. Mia madre ricorda ancora, ma a modo suo: sovrapponendo eventi, confondendo persone vive e morte, producendo relazioni tra cause ed effetti inappropriate. E ciò continua a disorientarmi, nonostante tutto, anche in chiave antropologica.

In sintesi, non posso che essere d’accordo con Cohen (Cohen 1998): non solo l’Alzheimer, ma qualsiasi altra forma di demenza senile, e la vecchiaia stessa nella sua ampiezza, è un soggetto centrale per l’antropologo perché solleva questioni fondamentali, relative alla costituzione del sociale e delle parallele forme di solidarietà. Questa è la ragione per cui è pericoloso, come avviene spesso nel caso di questa patologia, porre l’accento soprattutto sui sintomi, perdendo di vista la persona: nella «malattia di Alzheimer scompaiono i neuroni e scompare anche l’individuo» (Borri 2012: 168). Al fondo, esiste l’esigenza antropologica – direi particolarmente giustificata in questo caso – di mostrare che le diagnosi biologicamente fondate vanno prese in conto senza trascurare i vari significati attribuiti culturalmente (Leibing, Cohen 2006). Insomma, se è importante non perdere di vista la persona, è altresì importante procedere per comparazioni interculturali che mettano bene in risalto le reazioni che produce questa malattia nei diversi contesti sociali. Nel suo studio comparativo, per esempio, Cohen sottolinea, non sorprendentemente, l’ambivalenza della cultura americana nei confronti della demenza, così come lo smarrimento prodotto nella cultura indiana nel momento in cui si sgretola la famiglia moderna e viene meno la presa in carico degli anziani che ne fanno parte. Per quanto riguarda il ricordo, va precisato ancora che esso ha una duplice funzione: contribuisce a costituire l’identità individuale e fonda di pari passo gli elementi di fondo della socialità nella sua interezza. Inoltre, come già anticipato, quasi al pari di un bene materiale, il ricordo viene accumulato ma anche scambiato: se ciò è particolarmente evidente nei riti di passaggio, non è meno marcato nella minuta ritualità del quotidiano, per esempio quando ci si incontra e si mette in opera lo spettacolo del “ti ricordi?”. Infine, come si è visto, il ricordo non va soltanto considerato in sé – in quanto positiva rievocazione, nel presente, di un passato lontano che ci appartiene e costituisce – ma, anche, in quanto traccia di una assenza che implica una effettiva mancanza, uno sgretolamento del senso dell’essere persona. Ciò mi tocca particolarmente. Parlare di mia madre ha infatti significato tuffarsi nel passato vicino e lontano, in quei processi mnestici diventati, ormai, meno consapevoli per mia madre affetta dall’Alzheimer.

Detto questo, accennare a mia madre, alla sua patologia, non è stato un intento pianificato sin dall’inizio: ho iniziato a scrivere, in chiave di automatismo surrealista, senza averne la necessaria consapevolezza, senza sapere bene dove mi dirigevo. È sempre necessario fare precedere i piani alle azioni o gli intenti certi alle svolte casuali? Io so soltanto che, negli ultimi anni, ho scritto parlando in prima persona, tenendomi il più aderente possibile agli eventi presi in conto. Il vantaggio derivante da questa strategia di ricerca – personale e antropologica – è quello di guardare agli ‘eventi in oggetto’ come simmetrica ‘costituzione della soggettività che li vive’: nel processo di acquisizione sempre maggiore di consapevolezza. Credo che uno dei compiti dell’antropologia sia proprio quello di produrre un effetto di crescita della consapevolezza personale di sistemi e processi. Io ho scritto, me ne rendo bene conto ora, per cominciare ad azzerare – doveva succedere prima o poi – il mio conto con la memoria, con il passato, mettendo a fuoco su una persona cara, nel disagio della malattia, facendomene carico da antropologo: per averne migliore consapevolezza. Se la teoria antropologica «is about raising awareness» (Hastrup 1995: 181), questo è certamente uno degli obiettivi da porsi, che io mi pongo da antropologo: se non altro per trarne vantaggio in funzione catartica.

Pensare il pensare (ph. Licia Taverna).

Pensare il pensare (ph. Licia Taverna)

In sostanza, questo che voi lettore state leggendo voleva essere uno studio sul pensare il pensare. E, sebbene in parte, mi sono attenuto al compito perché sono rimasto incollato il più possibile al processo del mio ‘pensare su cosa scrivere’ e quale tema selezionare. Ho passato inizialmente in rassegna la memoria che avevo di alcuni miei saggi valutando – ripensando ai – vantaggi e svantaggi prodotti dallo scegliere un tema piuttosto che un altro: ci ho pensato su mentre la mia mente si applicava, quasi in automatismo, alla ricerca di un princìpio di scelta che mi guidasse effettivamente. Pensandoci su, poi, mi sono lasciato andare al ‘gioco linguistico’ di una più consapevole scrittura automatica che consente una maggiore libertà rispetto alle costrizioni imposte da una coscienza pianificatrice, all’erta e regolatrice. ‘Come pensare il processo’ è, così, diventato – nel vivo della scrittura – ‘cosa scrivere da antropologo’ e ‘come scrivere su un tema’ che mi tocca particolarmente’: l’Alzheimer. Ho soltanto sfiorato alcuni aspetti relativi a questa patologia mettendone soprattutto in risalto il bilanciamento/sbilanciamento che riguarda la memoria. In questa prospettiva, il saggio può essere letto come una forma di resistenza al mio stesso scrivere sull’Alzheimer, al suo disagio. La scrittura da me utilizzata, molto prossima alla scrittura automatica, potrebbe naturalmente essere accostata al metodo delle libere associazioni. Se così dovesse essere, non sarei contrario perché, in fondo, le libere associazioni hanno – anche – una funzione catartica. Per finire, il testo è stato scritto, questa volta intenzionalmente, sotto l’egida della condizione. Alla maniera di Perec, in quale modo adempiere meglio a questo presupposto di partenza se non attraverso l’uso del verbo al condizionale che consente al contempo di mettere in prospettiva un atto realizzandolo già, in qualche modo, nel processo stesso dettato dalla condizione? Quale migliore espediente per volgere un intero testo – nonché la persona che lo scrive e forse pure il lettore che lo legge – nella direzione dell’oscillazione, del dondolìo liberatore?

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1] Per quanto sofferto sia stato il processo di scrittura – posto in essere in modo deliberatamente sregolato e ricapitolativo al fine di mettere a fuoco sui meccanismi impliciti delle operazioni mnestiche di un soggetto, me stesso, con ruoli sociali diversi – questo saggio intende essere un elogio più generale della memoria: della sua capacità di renderci umani, della sua forza instauratrice di interazioni. Lo dedico alla memoria, sempre viva, di Antonino Buttitta. In ricordo, soprattutto, di quel significativo pomeriggio del quindici ottobre duemilaquindici.
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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