di Grazia Messina
Roma, 20 dicembre 1955. Il ministro italiano per gli Affari Esteri Gaetano Martino e il ministro del Lavoro della Germania Federale Anton Storch firmano, dopo mesi di non facili trattative diplomatiche, l’accordo bilaterale che porterà manodopera italiana nella Germania lanciata verso un rapido recupero economico [1]. L’Italia dal suo canto confida in copiose rimesse per rimettere in sesto le finanze interne e nell’attenuarsi delle tensioni sociali diffuse da nord a sud in quell’incerto dopoguerra.
In questi settanta anni gli espatri non si sono mai interrotti. La Germania rimane la principale destinazione europea degli italiani. Ai primi emigrati del secondo dopoguerra si sono aggiunti nel nuovo millennio «i cosiddetti nuovi mobili del lavoro o, ancora, quelli per cui la migrazione è una sorta di ‘avventura’» [2], rendendo ancora più articolata e numerosa la nostra presenza nel Paese tedesco.
Molti di loro provengono dalla Sicilia. E come in tutte le scelte migratorie, anche in questo caso non si può prescindere dall’individuazione dei processi espulsivi e attrattivi se si vuole avviare una comprensione del copioso movimento tuttora in atto.
La regione aveva contribuito com’è noto in modo significativo agli esodi dalla fine dell’Ottocento soprattutto verso le Americhe, con una contrazione significativa nel ventennio fascista per la politica autarchica e nazionalista di Mussolini. Con “l’emigrazione assistita”, come verrà definito quest’ultimo cammino del Novecento nato nell’immediato dopoguerra, si ridava slancio alle partenze aggiungendo l’Australia tra le mete transoceaniche, ma soprattutto si puntava a trasferimenti di lavoratori e risorse all’interno dell’Europa. Masse di uomini con una prima formazione di base e contratti già in tasca si misero in fila, pronti a rispondere alle pressanti richieste industriali di una Germania che, ancora divisa, doveva fare i conti col ridotto apporto lavorativo interno.
Le premesse tra Sicilia e Germania
Per risalire all’inizio del lungo cammino verso la Germania, bisogna procedere da ciò che accadeva in Sicilia, e in particolare nella fascia orientale, nei primi anni di quel difficile dopoguerra, «più precoce e quindi più lungo che nel resto d’Italia, con tratti di forte specificità rispetto al quadro nazionale» [3]. Perché da quel contesto acquistò corpo e motivazione d’intenti il fiume umano che prese a scorrere ripetendo «Germania Germania» [4].
La guerra aveva lasciato un’isola devastata, segnata dal 1943 al 1945 dal doppio controllo tedesco-angloamericano. Fame, mercato nero, contrabbando, ritorsioni sui civili, bombardamenti su paesi e campagne e una pesante inflazione gravavano soprattutto sui ceti popolari e sui contadini che nei campi parcellizzati della costa ionica faticavano a ricavare il necessario per la sopravvivenza. Prima di quegli anni di morte e terrore nel siracusano si coltivavano ulivi, agrumi, vigneti, cereali ed era assai diffusa la pastorizia: i pastori si spingevano in estate fino a Catania per cercare la ‘ristuccia’, le stoppie del grano coltivato rimasto sui campi dopo la trebbiatura, alimento ricercato per le pecore e le capre [5].
Ormai regnava però ovunque molta povertà, con terre abbandonate e pesantemente danneggiate dai bombardamenti che dal 1943 avevano colpito soprattutto questa costa dell’isola. Con la riapertura delle Camere del Lavoro e con i primi insediamenti territoriali dei partiti del CLNN, si confidò nel decreto del 1944 del ministro Fausto Gullo, espressione del governo di unità nazionale, che prevedeva l’assegnazione ai contadini delle terre incolte o mal coltivate e con cui si contava di aumentare finalmente le derrate alimentari nelle città assediate dalla fame. Le speranze sembrarono aumentare nel 1945, quando si aggiunse un secondo decreto con lo scopo di migliorare le condizioni dei contadini affittuari legati a contatti di mezzadria.
La reazione della destra agraria alle nuove disposizioni fu però pesantissima: con l’aiuto della mafia vennero colpiti capilega, sindacalisti, dirigenti di cooperative, cercando di soffocare con diffuse violenze il massiccio movimento di lotta per l’occupazione delle terre incolte che aveva trovato spontanea espressione negli anni 1944-1947 e poi tra il 1949 e il 1951, «con i sindaci in testa alle manifestazioni e nell’occupazione delle terre in molti paesi della Sicilia, per ottenere dai prefetti l’assegnazione e la spartizione delle terre» [6]. Scontri, uccisioni e minacce di ogni genere determinarono un clima di intimidazioni, aggressioni e pesante controllo, in particolare su quelle fasce popolari che avevano a lungo atteso giustizia e libertà, con l’esito di fare ulteriormente aumentare la disoccupazione e la miseria, insieme alla percezione di una nuova sconfitta. Gli esiti delle elezioni amministrative non portarono a loro volta garanzie di lavoro e pacificazione sociale. Per molti si palesava la delusione di fronte ad una ricostruzione ancora fatta di ingiustizie, iniquità, spregiudicati compromessi.
Gli accordi bilaterali che il governo nazionale stipulava in quegli anni specie con Paesi europei [7], rappresentarono per molti l’occasione che in Sicilia non avevano ancora trovato: un lavoro regolare per un futuro dignitoso, finalmente libero dai condizionamenti politico-mafiosi che continuavano a segnare la vita nei borghi e nelle campagne. Dopo gli anni del contenimento migratorio imposto dal fascismo, gli isolani misero così di nuovo in conto la decisione di partire, per salire con numeri crescenti sui lunghi serpenti ferroviari che li avrebbero portati in Belgio, Francia, Svizzera, Germania. Era l’inizio dell’emigrazione “assistita”, che conteneva tuttavia non poche analogie con i precedenti movimenti d’espatrio [8]:
«[..] anche nelle partenze degli anni 1950 c’è un elemento che ricorda quelle di fine Ottocento. Se allora aveva giocato il fallimento del movimento dei Fasci, nella definitività della scelta migratoria conta la sensazione di una nuova sconfitta politica e il ruolo dell’illegalità mafiosa come garante degli equilibri di potere. Si parte dunque perché non si può influire sullo sviluppo democratico dell’isola e perché ci si vuole allontanare dalla Mafia […]» [9].
L’accordo bilaterale del 1955 Italia- Germania Federale, l’ultimo firmato dal nostro Paese per orientare il movimento emigratorio, prevedeva la presenza di una Commissione tedesca in Italia a cui veniva affidata la selezione dei lavoratori, sulla base di competenze acquisite e di un titolo di studio adeguato. La Commissione lavorò inizialmente nel Centro di emigrazione di Milano, per trasferirsi il primo giugno 1956 a Verona, dove fu creato un centro di accoglienza che arriverà ad offrire 900 posti letto, con affluenza di oltre 1.000 persone al giorno[10] . Tra il 1960 e il 1966, a seguito del periodo di crescita economica della Germania Federale e del maggior bisogno di manodopera per la costruzione del muro di Berlino, un ramo della Commissione tedesca fu attivo anche presso il Centro di emigrazione di Napoli [11].
Le richieste di lavoratori provenivano inizialmente dal settore agricolo ed edilizio del Niedersachsen, Baden-Württemberg e Nordrhein-Westfalen. Dai primi anni Sessanta il settore agricolo venne superato da quello edilizio e dall’industria meccanica, con numeri in rapida crescita in poco tempo: «I lavoratori italiani erano passati da circa 220.000 del 1961 a circa 450.000 del 1973 e, alla stessa data, la comunità italiana consisteva di circa 620.000 persone» [12].
Dopo una prima fase di lavoro stagionale e conseguente pendolarismo dei Gastarbeiter [13], a seguito della costruzione del muro di Berlino e di un crescente bisogno di forza lavoro nella Germania Federale, i contratti offrirono agli immigrati garanzie di maggiore durata e stabilità, tanto da permettere il trasferimento di intere famiglie che avrebbero presto preso la decisione di una residenza permanente in Germania.
Cosa è cambiato da allora? Poco e tanto, si potrebbe dire. La Germania rimane infatti la principale destinazione dei siciliani [14]. Ha attratto nel nuovo millennio molti giovani per la conquista di una formazione qualificata e di gratificanti percorsi professionali. E il movimento di espatri non pare aver subìto un rallentamento neanche a seguito della recente crisi del mercato del lavoro tedesco, che negli ultimi tempi segna in modo più marcato le aspettative e le opportunità per chi accede dall’esterno:
«[…] oggi la maggioranza degli italiani è occupata nei servizi e in alcuni casi si assiste alla formazione di un nuovo proletariato in questo comparto dell’economia. Pur mostrando alcuni aspetti positivi come l’incremento dell’occupazione nel settore dell’informazione e delle telecomunicazioni, dell’istruzione e delle attività professionali, scientifiche e tecniche, gli italiani – come altri gruppi di stranieri – non di rado vengono impiegati in attività di livello inferiore alla loro qualifica e in campi caratterizzati da un’elevata incidenza del part-time, da una certa precarietà e da salari bassi. Non è un caso che nell’aprile del 2022 il tasso di disoccupazione, che fra i tedeschi era pari al 4,8%, fra gli italiani raggiunse l’8,5%» [15].
L’apporto delle fonti orali
Anche nello studio delle migrazioni, come per tutti i processi umani che hanno trovato espressione nella storia, risulta importante il contributo offerto dalle fonti orali, assai utile per procedere ad analisi più articolate nello scandaglio della loro ineliminabile complessità.
Tante le esperienze che sono state e ancora vengono consegnate su quegli anni di nuova emigrazione dall’Isola, con i racconti dei diretti protagonisti, le biografie, i memoir, le ricostruzioni familiari. In molte di esse si ripresentano dinamiche assai simili a quelle dei precedenti espatri: la ricerca di un lavoro e di un benessere personale, la possibilità di risparmiare e aiutare con le rimesse le famiglie lontane, l’opportunità di una nuova vita, seppure in un Paese destinato a rimanere il più delle volte ‘straniero’.
Ogni tanto si aggiunge comunque una tessera diversa. Una testimonianza raccolta di recente permette di fare luce anche su aspetti del vissuto migratorio meno ricorrenti nei ricordi dei nostri emigrati. In essa si delinea infatti uno dei percorsi che hanno permesso ai siciliani in Germania di aggiungere alla necessaria autonomia economica anche il traguardo di una formazione civica e sindacale da spendere a sostegno e promozione delle comunità di nuova residenza e lavoro.
Franco Albani parte ̶ e riparte ̶ da Carlentini, nel siracusano, per la Germania (ci sarà infatti una parentesi con un tentativo fallito di rimpatrio in Sicilia). Nel suo racconto propone uno spaccato dei due poli del viaggio d’emigrazione, entrambi fondamentali nel processo di maturazione che lo ha caratterizzato. E se per lui partire ha determinato l’avvio di un nuovo corso della vita, un tale cambiamento non è stato legato solo al lavoro trovato in Germania, con ricadute esclusivamente volte ad un benessere a carattere personale e familiare. La sua esperienza operaia e sindacale nella Mercedes si configura piuttosto pian piano come l’opportunità che attendeva sin da quando bambino cercava di aiutare la famiglia con piccoli guadagni, costretto più avanti a leggere gli errori di calcolo non certo casuali nella busta paga del padre e a vedere in seguito fallire i coraggiosi tentativi d’impresa commerciale con lo zio. In Germania Franco acquista conoscenze e competenze per fare squadra con gli altri operai, promuove la conquista di una comune consapevolezza sindacale e politica, indica agli altri una strada da percorrere insieme per il recupero della dignità negata ai più deboli, costretti a lasciare casa affetti e terra perché ciechi di futuro, ma ancora umiliati in terra straniera. Dedica ore del tempo libero per apprendere il tedesco, diffonde la conoscenza dei diritti dei lavoratori nei Consigli di fabbrica, collabora alla pianificazione delle rivendicazioni per le 35 ore di lavoro che negli anni Ottanta dalle fabbriche tedesche raggiunsero gli operai delle industrie italiane. Come lui stesso preciserà con le sue parole più avanti, riscatta l’idea di una giustizia sociale proprio attraverso la partecipazione attiva nel tessuto sociale e professionale che l’esperienza migratoria aveva indirettamente favorito.
Con linguaggio schietto ed essenziale, sempre lucido, Franco indica aspettative, ostacoli, discriminazioni ma anche traguardi del percorso sempre assai arduo che i migranti hanno in ogni epoca conosciuto. Nella sua volontà d’azione emerge quell’«universale singolare» in grado di dare valore e senso alla progettualità umana [16].
La testimonianza di Franco Albani [17]
Sono nato a Carlentini, in provincia di Siracusa, un paese di 13.000 abitanti situato in collina a 25 km sud da Catania. La maggior ricchezza di tutta la provincia sono le piantagioni di arance, limoni, mandarini, olive. II paese è tagliato fuori dal flusso turistico balneare, e sempre alle prese con la grave crisi della sua agricoltura.
Sono il più piccolo della famiglia di 5 figli, mio padre contadino lavorava nella piantagione di arance, dove tutto era imposto dal suo padrone, una parte del lavoro era in mezzadria e gli permetteva di lavorare nella sua terra, frumento, olive, ortaggi, e alla fine tutto dipendeva sempre dalla raccolta che faceva, lo pagava con una parte dei prodotti che raccoglieva. Mia mamma, casalinga, lavorava a casa, oltre ai figli da crescere; la differenza fra me e mia sorella più grande era appena di nove anni, allora non avevamo nemmeno l`acqua potabile a casa. Per lavare la biancheria, la portava al lavatoio a un chilometro da casa; per il pane, impastava la farina e poi la portava dal fornaio.
Potrei continuare a descrivere la situazione degli anni cinquanta in queste zone, mi ricordo della miseria di allora, fortunato era chi stava bene di salute. Alla fine dell’anno scolastico ci mettevamo tutti sul carretto con mio papà e andavamo con lui in campagna per aiutarlo o per fargli compagnia.
Dalla terza elementare avevo trovato un lavoro da un vicino di casa, lui vendeva il latte delle pecore che pascolava. Mi alzavo di buon mattino e dalle 05:30, prima di andare a scuola, fino alle 07:30 andavo a vendere il latte: come paga mi dava mezzo litro di latte e così poi prima andare a scuola facevamo la colazione dividendolo con mia sorella e fratello. Fino alla terza media andavo nel periodo estivo delle vacanze come aiutante dal sarto, un altro anno dal meccanico, poi dal pittore a smerigliare porte e finestre per 100 lire al giorno.
Dopo le scuole medie con mio fratello frequentammo per tre anni le scuole di addestramento professionale al CIAPI e imparammo un mestiere: mio fratello come congegnatore meccanico ed io come tornitore/fresatore. La nostra mamma si mise a lavorare ai magazzini di arance per poterci finanziare tutto l’occorrente che ci serviva, compreso il viaggio col bus, dovevamo andare a Siracusa 40 km distante da Carlentini. Le faccende di casa le sbrigavano le nostre tre sorelle. La nostra mamma ritornava alla sera tardi dopo 12 oppure spesso14 ore di lavoro, non c’erano neanche mezzi pubblici alle cinque di mattina e la sera tardi, cosi andava mattina e sera a piedi a sei chilometri distante da casa […].
Dopo aver finito il professionale nel giugno del 1972 con altri due amici compagni di scuola, la voglia di poter trovare un posto di lavoro era immensa, e quindi passammo tutta l’estate con Biagio e Claudio chiedendo a tutte le ditte metalmeccaniche della zona di Catania e Siracusa se gli serviva della mano d`opera. Alcune ditte ci facevano fare le prove alla fresatrice o al tornio, una ditta faceva fare a tutti i giovani che si presentavano sempre le stesse prove, proprio pezzi i quali gli servivano e che mettevano da parte come riserva, la risposta che davano, era sempre la stessa: «Per adesso abbiamo un po’ di crisi e non assumiamo nessuno, siamo in difficoltà, ma non appena la situazione migliora vi manderemo un invito».
La partenza per la Germania
Verso gli inizi di settembre Biagio ci fece sapere che mediante dei parenti, era venuto a conoscenza che in Germania esattamente a Sulz am Neckar c’erano molte ditte metalmeccaniche e una ditta cercava operai con qualifica di tornitore/fresatore e che se entro la fine di settembre fossimo disposti a trasferirci, ci avrebbero aiutato anche a trovare un posto per dormire. Non appena informai i miei genitori che volevo andare a far fortuna in Germania, fu come se per loro il mondo le fosse crollato: a che cosa sono valsi i sacrifici fatti per te, tutto inutile! Loro non volevano assolutamente che me ne andassi e mi dicevano se resti qua ti manteniamo noi finché possiamo, tutti i giorni la stessa storia si ripeteva e infine mia mamma si metteva a piangere.
Noi avevamo deciso di partire dopo l’estate perché a casa non se ne poteva più, sempre gli stessi discorsi, all’ultimo minacciai i miei genitori che se non erano disposti di prestarmi 100 mila lire solo per l’inizio finché avrei guadagnato qualche soldo, li avrei restituiti e se non me li davano loro me li sarei procurati da qualche altra parte.
Con la 600 di Biagio ci mettemmo in viaggio, quattro giorni ci impiegammo per arrivare a Sulz am Neckar, per attraversare le Calabrie ci volle tanto tempo, oltre a un guasto della macchina non c’erano nemmeno le autostrade allora. Arrivati a Sulz trovammo pure paesani e molti altri italiani disposti ad aiutarci alleviando le difficoltà che incontravamo non conoscendo la lingua tedesca nel sbrigare i documenti.
All’inizio in fabbrica cercavo di farmi capire con quelle poche conoscenze dell’inglese apprese alla scuola media. Dal mese di ottobre fino al giugno del 1973 cambiai tre ditte, l’impatto con la realtà, la disciplina, la puntualità e perfezione nel mondo del lavoro che non conoscevo furono il motivo per il licenziamento…il non essere puntuale, alle 5:30 dovevo timbrare il cartellino, con quel freddo ghiaccio e neve che io in Sicilia non avevo mai visto e provato. L`ambiente era buono, però dopo il lavoro avevo contatti solo con italiani: bar, ristorante, circolo, cinema discoteca, tutto in italiano. Non mi sembrava proprio di essere in Germania. Infine dopo la rottura di un rapporto con una ragazza italiana che frequentavo decisi di cambiare aria, di andarmene a Wolfsburg dove c’era un amico d’infanzia il quale lavorava alla Volkswagen e mi disse che la ditta assumeva operai.
Così fu proprio come lui mi aveva descritto; mi ospitò nell’appartamento che si dividevano in quattro, una cucina in comune e con i servizi igienici. Dopo il terzo giorno d’arrivo, andai a passare la visita e la settimana dopo mi assegnarono un posto per dormire, non negli appartamenti dove abitava il mio amico, bensì nelle baracche di legno. Una stanza, quattro lettini, due armadi, un tavolo con quattro sedie, i servizi igienici così pure la cucina erano in comune che ci dividevamo con altri 20 lavoratori di diversa nazionalità. Queste baracche erano i posti per i nuovi arrivati e non appena c’erano posti liberi ci dissero che potevano assegnarci gli appartamenti, alla grandissima Volkswagen per gli stranieri che lavoravano in fabbrica, se un giorno avessimo avuto un po’ di fortuna mi sarei potuto trasferire anch’io un giorno là.
Mi ricordo che quando mi alzavo di notte per andare ai servizi e di come il pavimento di legno scricchiolava così pure quando rientrava qualcuno di notte o a tarda sera, mi svegliavo e non potevo più dormire. Lavoro a turno, il mio lavoro era di prendere il serbatoio della benzina che mi ammassavano da una parte, eravamo in due e dovevamo agganciare i serbatoi ad una catena che scorreva sopra di noi ad un aggancio dove venivano trasportati fino a destinazione per essere montati. Dal settembre del 1973 feci questo lavoro fino al marzo del 1974 poiché ricevetti la lettera di presentarmi per le prestazioni del servizio militare. Avrei potuto anche rinviare, ma non lo feci perché il lavoro che facevo non mi piaceva affatto, così decisi di rientrare in Italia, però non mi licenziai, la ditta mi rilasciò un documento dove mi assicurava di riassumermi se dopo il servizio di leva entro quattro settimane mi sarei presentato all’ufficio personale.
Nel maggio del 1975 un mese dopo il congedo puntuale mi ripresentai in fabbrica e ripresi così a lavorare nello stesso reparto. Nel mese di luglio venni a conoscenza mediante dei volantini che distribuivano in sei lingue in fabbrica, ci informarono che a causa della crisi corrente, chi si autolicenziava fino alla fine di settembre gli spettava una buona uscita di quasi 10.000 marchi. Non ci pensai più di una volta, così che lavorai fino alla fine di agosto il tempo per sbrigare tutta la documentazione così pure i formulari da presentare all’ufficio di collocamento di Carlentini.
Il rientro in Sicilia
I miei genitori e famiglia furono felici di rivedermi tornare e in poco tempo con la somma di denaro ricevuto mi comprai del terreno per potermi un giorno costruire una casetta, e volli ritentare con la speranza e la fortuna di trovare un posto di lavoro in qualsiasi parte della Sicilia per rimanerci, ne ero più che convinto, casa mia è sempre casa mia.
Con i documenti ricevuti dalla Germania andai a iscrivermi disoccupato e mi dettero buone speranze di trovare un posto di lavoro. Ogni settimana andavo a timbrare all’ufficio di collocamento, pertanto il tempo passava però di proposte concrete non ne ebbi che dopo alcuni mesi decisi di cercare un lavoro privato per tirare avanti, nella speranza che un giorno mi arrivasse l’invito di presentarmi in qualche ditta.
Mio zio mi fece sapere che nelle campagne vicine al paese cercavano una persona di fiducia per amministrare l’irrigazione dell’acqua di un pozzo in comune di parecchi proprietari della zona con piantagioni d’arance. Detto e fatto, lavorai in quella contrada per circa un anno, la paga era che ogni proprietario del giardino o di quel pezzo di terra dopo la somministrazione dell’acqua mi dava un po’ di frutta, verdura, insomma un po’ di quello che la terra offriva […].
Trascorsero più di due anni dal rientro in Sicilia, avevo provato molti lavori umili e vedendo che era difficile o per dirla chiara impossibile rimanere per sempre qui al paese, non avendo nessuna alternativa ed essere permanente insoddisfatto, con un altro amico intanto maturava in noi la voglia di rompere per sempre con il nostro paese nativo, lasciando tutto quello che conoscevamo per andare a cercare in qualche altro posto anche se a noi sconosciuto così pure senza conoscenza della lingua e su questo, bene o male ne avevo fatta già esperienza.
Il ritorno in Germania
Sono ritornato in Germania nel febbraio del 1978. Nei mesi precedenti avevo provato di lavorare con mio zio il quale aveva a Lentini un magazzino di arance, lui comprava direttamente dai coltivatori e gli servivano operai per la raccolta, imballaggio e spedizione. Spesso venivano persone strane che volevano fargli come un’assicurazione dei beni e gli garantivano che non gli sarebbe mai successo nulla. Tutto ciò non piaceva affatto e mi fece prendere rapidamente la decisone di abbandonare di nuovo per sempre la Sicilia.
Partii con due amici col treno da Catania, loro avevano contatti con un amico paesano che già da alcuni anni era emigrato in Germania, aveva trovato lavoro alla Daimler Benz di Sindelfingen.
A causa di una serie di scioperi ferroviari, molto frequenti a quell’epoca, purtroppo arrivammo alla stazione di Boblingen 28 ore dopo del previsto, erano le 22,30 e non ci fu possibile dopo tante telefonate (allora non esisteva il telefonino). Mi ricordo ancora quella notte, la neve era alta, i nostri indumenti non erano adatti alle rigide temperature. Andammo di fronte alla stazione da un albergo, eravamo stanchi ed affamati. Con le poche conoscenze che avevo appreso quando venni per pochi mesi prima del servizio militare, cercai di spiegargli la nostra situazione, ma il gestore non fu disposto di essere pagato in lire. Era già mezzanotte e uscimmo fuori con le valigie e con la neve che fioccava sulle nostre teste. Infreddoliti e bagnati come dei pulcini dopo un bel po’ trovammo riparo davanti ad una piccola bottega che aveva un balcone grande che ci riparò dalla neve, ma non dal freddo.
Nel fondo della notte gelata fummo segnalati alla polizia per la sosta sospetta, dopo gli accertamenti dei documenti gentilmente se ne andarono. Il giorno successivo, soltanto nel pomeriggio riuscimmo a rintracciare il nostro paesano, che dopo ci portò a casa sua. Dopo esserci riscaldati, cenammo insieme e ci informò su cosa fare. Lui conosceva una famiglia italiana che ci poteva affittare temporaneamente un garage con due lettini, un lavandino purtroppo solo con acqua fredda, ma potevamo riscaldare l’acqua con un fornellino elettrico per poterci lavare […]. In seguito, dopo alcuni giorni che avevamo girato e chiesto in varie fabbriche, trovammo lavoro in una fabbrica di motorini alla catena di montaggio a 25 km distanti dall’abitazione provvisoria.
Furono due anni di faticosa esperienza, fatta di sacrifici sia nella vita fuori dalla fabbrica poiché ci mancava tutto: pentole, piatti, posate, ecc,, e così pure nella monotona catena di montaggio e sempre tenuto sott’occhio dal capo controllore, il quale non era mai soddisfatto sul mio modo di lavorare […]. Una volta alla settimana telefonavo con la mia mamma che sempre si preoccupava e chiedeva sul mio stato di salute e come venivo trattato, se l’abitazione fosse adeguata. Le rispondevo spesso che mi trovavo benissimo, non mi mancava niente, peccato che non sono venuto un po’ prima, le dicevo. Cercavo in tutto ciò che mi chiedeva di tranquillizzarla.
A sera, quando rientravamo dopo la lunga e insoddisfatta giornata alla catena di montaggio, le dita della mano non li sentivo più. Subito dopo aver mangiato qualcosa ci mettevamo a letto sia per la stanchezza e così pur per il freddo che faceva. Di notte dopo il primo sonno mi svegliavo per andare ai servizi, il freddo era così terribile che non riuscivo più a riprendere a dormire […]. Al lavoro la maggior parte dei conoscenti del lavoro erano stranieri, fra i quali c’erano molti siciliani, quasi tutti di Mirabella Imbaccari, in provincia di Catania.
Un giorno durante la pausa mi dissero che alla Daimler avevano bisogno di molti operai. Feci subito la domanda con un formulario da riempire e con il loro aiuto lo presentai. Non passarono due settimane che mi arrivò la risposta scritta in diverse lingue e mi invitarono per passare la visita medica. Nel giro di un mese iniziai alla Daimler, dove rimasi fino al giorno della pensione.
Fui portato al reparto della verniciatura, un grandissimo reparto di dieci catene lunghissimo e in ogni catena c’erano una ventina di operai con diversi compiti da svolgere. Il mio compito era che quando le auto ancora calde uscivano dai forni ogni due minuti, dovevo controllare la parte assegnatami, se c’erano colature o sporcizia, levigare/smerigliare per poi indirizzarle alle prossime stazioni, oppure alla riparatura oppure a riverniciare di nuovo la parte rotta.
Nei primi tempi sembrava interessante, dopo alcuni mesi era diventato così monotono ed insieme a molti altri compagni di lavoro incominciammo nelle pause a discutere sulla nostra situazione e sul cosa fare per rendere il lavoro più interessante. Mi fecero da portavoce del gruppo e chiesi un colloquio con il responsabile del gruppo […]. Non appena riuscii a fargli capire come avevamo in mente di fare il nostro lavoro lui andò in furia e da quel giorno cominciò a tenermi sempre sotto controllo, arrabbiato, e mi diceva: «Qua sono io che ti dico quello che hai da fare e dove devi lavorare, se questo non ti va puoi andartene in Italia, nessuno ti costringe di rimanere qua».
Gli risposi come meglio potevo e gli dissi: «Io non sono venuto qui solo per lavorare, qui ci rimango e con i miei colleghi non vogliamo essere solo un numero! Noi vogliamo partecipare, migliorare sia la qualità del lavoro per così dare un migliore contributo di noi stessi, identificandoci su ciò che si deve fare». Lui ci pedinava ininterrottamente. Non potevamo fare nulla senza un suo permesso e solo lui decideva quel che si doveva fare!
Così passavano i mesi, la paga era molto più alta di quella della fabbrica dei motorini e questo faceva sì che potevo continuare a lavorare, ma non con soddisfazione. Un giorno vedemmo un volantino appeso sopra l’orologio per timbrare la presenza, con l’informazione in otto lingue che dopo due settimane tutti i lavoratori iscritti al sindacato della IG Metall potevano eleggere un rappresentante fiduciario come rappresentante del gruppo e al più presto potevano essere fatte delle proposte per la candidatura.

Germania 1983, Franco con i fiduciari italiani eletti della IG Metall durante un incontro di formazione sindacale
L’indomani nella prima pausa molti paesani mi vennero incontro e mi dissero: Tu sarai il nostro fiduciario, hai la nostra piena fiducia. La voce si sparse e così anche molti altri colleghi di lavoro turchi, greci, spagnoli, tunisini, portoghesi mi invitarono a mettermi in lista. Anche loro avevano notato parecchie vote che ero pronto come meglio potevo nel prendere posizione per il miglioramento delle nostre condizioni, destinati solo a subire, se nessuno sarebbe stato disposto a rischiare e prendere l’iniziativa.
Così fu, e fui eletto con la maggioranza dei voti dei lavoratori del reparto. Mi ritornò in mente quella volta la situazione di mio papà, che era analfabeta: il suo datore di lavoro ne approfittava, e quando a fine mese portava la busta paga mi chiedeva di controllare se i conti fossero giusti, vedevo che spesso non venivano conteggiate le ore di straordinario che lui aveva sempre fatto. Tutto ciò era inaccettabile. Purtroppo in ultimo doveva abbassare la schiena per poter sfamare la nostra famiglia: dove lavorava lui non c’era nessuna organizzazione dove poter reclamare.
Dal momento che fui eletto come fiduciario sindacale del gruppo, iniziai per primo a frequentare tutti i corsi d’informazione e formazione necessaria in lingua italiana che offriva il sindacato dei metallurgici IG Metall.
Per prima cosa la conoscenza, e capire come funziona il sistema del lavoro in fabbrica in Germania, diritti e doveri, il ruolo del fiduciario sindacale, così pure le leggi di codecisione sullo statuto aziendale, i contratti collettivi, gli accordi stipulati in fabbrica, perché sapere è potere. Era importante potere reclamare conoscendo l’ambito delle regole, così come si devono rispettare le regole stradali per la sicurezza di tutti. Da allora iniziò pian piano per me un altro capitolo, uno scopo. Da adesso potevo avanzare proposte e richieste nell’ambito delle competenze del gruppo dove ero stato eletto, senza essere ignorato dalle maestranze e con l’appoggio della nostra organizzazione.
Non dovevo solo reclamare, bensì proporre che cosa volevamo. Così fu che passo dopo passo iniziai con il nostro lungo cammino, senza smettere di credere a ciò in cui credevo e con la coscienza che solo uniti avremmo potuto ottenere qualche miglioramento.
Ci eravamo accorti che mentre i tedeschi assunti da poco tempo venivano ad occupare nei nostri reparti i lavori più leggeri, con responsabilità e ovviamente con una migliore retribuzione, noi stranieri restavamo perennemente sugli stessi posti di lavoro, con pochissime possibilità di avanzamento di qualifica. Importante era per me la certezza di avere il mio gruppo di lavoratori pronti ad agire ed essere solidali nel caso del conflitto per il malcontento.
In ultimo conta sempre, con che cosa abbiamo contribuito a migliorare le nostre condizioni, la nostra forza non è stato solo un caso. Noi ci abbiamo creduto, e consapevoli che solo restando uniti e lottando, passo dopo passo abbiamo ottenuto anche dei successi, ma tutto ciò non è garantito, devi essere sempre pronto a difenderli. Chi lotta può anche perdere, colui il quale non lotta ha già perso in partenza.
Sono state a volte le difficoltà, gli ostacoli da superare con compattezza e con dignità che ci hanno dato la forza di non mollare. Anche quando pensavamo di non farcela abbiamo continuato a lottare, non è stato neanche un miracolo. Non avevamo nessuna altra alternativa.
Così pure io, non ho avuto altra alternativa nel lasciare la mia bella Sicilia (marzo 2025).

Stabilimento Mercedes di Sindelfingen, un momento della manifestazione di protesta sindacale per il nuovo piano aziendale, 2009
Una storia che si ripete
Credo che la diretta testimonianza di Franco, qui riportata in forma ridotta per esigenze di spazio, contenga vari spunti per ulteriori riflessioni. Le sue descrizioni generano sensazioni intense e non di rado assai amare, destinate di solito a prendere il sopravvento nei racconti del vissuto migratorio. Eppure, ascoltandolo e leggendo i suoi fitti appunti, scritti su un piccolo quaderno con grafia minuta, sono stata colpita soprattutto dalla persistente energia e volontà di riscatto, dal bisogno spontaneo di aiutare chi sembrava relegato ai margini, nel lavoro come nella società, da quell’appello interiore, ancor prima che pubblico, alla solidarietà che lo ha guidato nell’impegno sindacale. È stata questa la leva più potente che mi ha indotto a scriverne, raccogliendo per mesi i suoi ricordi, invitandolo a recuperare foto e riferimenti, per poi ricopiare fedelmente quell’italiano in corsivo che lui non aveva mai abbandonato, nonostante i quaranta anni in Germania.
Dopo aver ricevuto racconti come questo, la nostra storia d’emigrazione (in Germania come in ogni altra parte del mondo) non appare poi così diversa da quella dei tanti che oggi cercano speranza d’avvenire, pane lavoro e dignità, lasciando miseria e umiliazione nei luoghi di origine.
È una storia che si ripete, certo con dolore e fatica ma anche con tanto coraggio, anche se spesso, e da più parti, non lo si vuole riconoscere.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Per la Germania Federale si trattava della prima intesa postbellica per il reclutamento di manodopera straniera. Avrebbe firmato tra il 1955 ed il 1968 otto accordi bilaterali: oltre che con l’Italia, con la Grecia e la Spagna nel 1960, con la Turchia nel 1961, con il Marocco nel 1963, con il Portogallo nel 1964, con la Tunisia nel 1965 e con la Jugoslavia nel 1968.
[2] Edith Pichler, Identità europea, elezioni e partecipazione politica tra gli italiani in Germania. Tradizionali migranti o moderni expat?, «AltreItalie» luglio-dicembre 2024: 18.
[3] Salvatore Lupo, I caratteri del lungo dopoguerra in Sicilia tra vecchia e nuova politica, «Studi Storici Siciliani» n. 3-4 2024: 12.
[4] L’espressione è ripresa dal testo di Stefano Vilardo, Tutti dicono Germania Germania, Sellerio, Palermo 2007. L’opera, con le quarantadue poesie di Stefano Vilardo, fu pubblicata da Garzanti nel 1975 e riproposta da Sellerio nel 2007.
[5] Mario Blancato, L’avvio della nuova era a Sortino, «Studi Storici Siciliani», n.3-4 del 2024: 327.
[6] Ibidem.
[7] L’Italia aveva firmato tra il 1946 e il 1955 diversi accordi bilaterali: nel 1946 gli accordi bilaterali con il Belgio e la Francia, nel 1947 con la Gran Bretagna, la Cecoslovacchia, la Svezia, l’Argentina, nel 1948 gli accordi con il Lussemburgo, la Svizzera, l’Olanda, nel 1950 con il Brasile, nel 1951 con la Sarre (Saarland). Nello stesso 1951 si registrava l’Assisted Migration Agreement con l’Australia. Nel 1955 stipulerà il trattato con la Germania Federale.
[8] Si rimanda al mio Le relazioni nel vissuto migratorio. Tracce e voci di siciliani all’estero, «Dialoghi Mediterranei», marzo 2025. Una sfaccettatura politica distingue senz’altro quest’ultimo ciclo migratorio del Novecento dai precedenti, dato che si delineò da una serie di accordi intergovernativi (nel 1946 con il Belgio, nel 1947 con la Francia, nel 1948 con la Svizzera, nel 1955 con la Germania federale). Le prime partenze dall’isola riguardarono manodopera scarsamente qualificata e prevalentemente maschile (miniere, edilizia, industrie), che si spostava per brevi periodi lavorativi, con contratti stagionali a termine in cui si prevedevano rientri reiterati. All’emigrazione verso l’estero, dalla Sicilia si aggiunse dagli anni Cinquanta agli anni Novanta una massiccia migrazione interna verso il Centro e il Nord Italia, mentre proseguiva quella dalle aree interne alla zona costiera e urbana: tutti movimenti che hanno inciso in modo significativo non solo sulla demografia ma anche sul profilo socioeconomico dell’Isola.
[9] M. Sanfilippo, L’emigrazione siciliana, «Archivio storico dell’emigrazione Italiana», n.3, 2007: 85-86.
[10] G. Pontera, L’emigrazione italiana verso la Repubblica federale tedesca. L’accordo bilaterale del 1955, la ricezione sulla stampa, il ruolo dei Centri di emigrazione di Milano e Verona, «Storicamente», 2008.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Con tale termine venivano indicati i “lavoratori ospiti”, arrivati in Germania con contratti di breve durata.
[14] Secondo i dati AIRE sono stati 251.550 nel 2024, e si attestano al 30,4 per cento del complessivo movimento emigratorio dalla Sicilia.
[15] Edith Pichler, Identità europea, elezioni e partecipazione politica tra gli italiani in Germania. Tradizionali migranti o moderni expat?, cit.: 19-20.
[16] L’espressione, introdotta da Jean Paul Sartre, si riferisce all’essere nel mondo dell’uomo in quanto essere impegnato in un pro-getto, scaturito dalla sua fondamentale «gettatezza». Si può intendere come« il modo d’essere dell’uomo in quanto universale singolare è quello della praxis, intesa come azione che, da un lato, racchiude in sé l’influenza storico-sociale della struttura in cui è immersa e, dall’altro, esprime l’istanza progettuale e singolare dell’individuo, agendo su quella stessa struttura di cui aveva subito primariamente l’influenza» (Emilia Bezzo, L’universale singolare: l’ultimo Sartre tra esistenzialismo e marxismo, in «Arena Philosophika», 11 dicembre 2020).
[17] Ringrazio Franco Albani per il racconto della sua storia, ricostruito con paziente e ferma determinazione. Dopo un casuale incontro in Sicilia, Franco ha deciso di offrire il suo contributo attraverso l’invio di documenti e testi manoscritti, lunghe conversazioni telefoniche e un ricco scambio di email, permettendoci di seguirlo dalle campagne del siracusano alle condizioni lavorative dei nostri emigrati nel settore metalmeccanico della regione del Baden Württembergper. Viene qui riportato un estratto della sua testimonianza, ancora inedita, che ho volutamente lasciato nella sua forma spontanea e diretta.
________________________________________________________
Grazia Messina, direttrice della ricerca scientifica nel Museo Etneo delle Migrazioni di Giarre per la Rete dei Musei siciliani dell’Emigrazione. Laureata in Filosofia, Master in “Economia della Cultura” (Università Roma Tor Vergata), ha insegnato Storia e Filosofia nei licei statali. Promuove laboratori didattici e piattaforme digitali, con workshop nel territorio per la tutela della memoria storica. È autrice di articoli e saggi editi su riviste e volumi anche collettanei. Ha scritto con Antonio Cortese La Sicilia Migrante, Tau Editrice (2022). Nel 2023 ha curato la sezione “Sicilia” nel Rapporto Italiani nel Mondo (RIM 2023), edito dalla Fondazione Migrantes.
______________________________________________________________
