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Corpi in cammino. Passi d’avvenire sotto e sopra la terra nei territori minerari

Centro minerario di Valle Imperina

Centro minerario di Valle Imperina

CIP

di Paola Atzeni 

Premessa

Raccontando delle mie discese in miniera lascio a chi mi accompagna la scelta di interpretare se si tratta di percepire i rischi del corpo in miniera o piuttosto quelli della miniera in corpo, ovvero della miniera incorporata e addomesticata attraverso il camminare che fa diventare ogni persona sicura per sé nello spazio accidentato. Indico l’esperienza di sé nel sottosuolo, a partire dal camminare. Dico anche di una fase della miniera prossima alla dismissione, per indicare la prospettiva della multi-temporalità mineraria, emergente soprattutto per le miniere dismesse. Tale multi-temporalità riguarda il rapporto fra presente e passato, congiunti in una contemporaneità resa visibile nella connessione dei rischi che premono per produrre futuro sicuro.

Il quadro dell’antropologia mineraria alpina indica alcune questioni cruciali come il farsi umani, il farsi donne di miniera in un universo androcentrico e, soprattutto, il farsi persone e gruppi capaci di produrre futuro vitale, insieme alla produzione di minerali, grezzi o commerciabili. I percorsi antropologici dell’Agordino (F. Spagna 2003) consentono di vedere le fratture socio-culturali fra dirigenti dominanti e operai sottomessi, specialmente attraverso i cottimi Bedaux con i loro specifici contenuti di ulteriori rischi, in un mondo di penurie di salute e di vita. Tuttavia, gli storici minatori dell’Agordino mostrano originali elementi di creatività con un proprio alto profilo culturale. Sapevano integrare il lavoro minerario con particolari lavori agro-silvo-pastorali e sapevano creare speciali solidarietà.

Storiche integrazioni culturali, territoriali e sociali aprono il futuro agli abitanti e all’accoglienza turistica, come appare soprattutto dai sobri racconti di minatori. Nuovi modelli culturali di futuro durevole dell’abitare e del lavorare e del vivere, condiviso democraticamente, possono essere realizzati marcando anche vari modelli di turismo. In particolare, il completamento delle bonifiche delle discariche minerarie, nelle miniere dismesse, può orientare il profilo culturale di un sistematico turismo rigenerativo. Tale opzione consente nuove patrimonializzazioni e innovative eco-territorializzazioni, produttive di nuovi mondi di vita. Nel quadro del turismo rigenerativo, possono situarsi i modelli di turismo esperenziale e polisensoriale. Nei robusti fili interconnessi dei potenziamenti del sé, l’industrializzazione occhialistica può incrociare quella mineraria, per esempio volendo conoscere modelli culturali che miglioravano il poter vedere e il saper vedere nelle oscurità del sottosuolo.

Agordo

Agordo

Il mio racconto

Sono scesa cinque volte nel sottosuolo della miniera carbonifera di Nuraxi Figus, che si trova nel Comune di Gonnesa e nella parte sud-occidentale della Sardegna. L’ultima volta risale al 2006-2007 quando avevo già 66 anni. Si attendeva una chiusura incombente e la direzione della miniera accoglieva volentieri attività universitarie di studio e di documentazione. Ho in mente, più che la lunga vestizione, più che la discesa nel sottosuolo con la gabbia e il percorso in autovettura nelle strade illuminate, il mio non facile camminare. Lo ricordo in certe zone oscure, forse più vicine al fronte d’estrazione.

Rammento bene, ancor oggi, quel modo di camminare che richiedeva un’attenzione specifica ad ogni passo, un’attenzione non facile nei rischi celati e incombenti che la lampada a casco non giungeva a illuminare. Rivivo i momenti in cui riuscivo a stabilizzare ogni passo e a superare le discontinuità della pavimentazione o le asperità dei ciottoli. Via via acquisivo padronanza di comportamento. Ad ogni passo avevo consapevolezza di aver risolto una specifica difficoltà. Sapevo di assicurarmi non solo un passo, ma anche il proseguimento verso il futuro del mio percorso.

Scendendo ora sotto la terra, vorrei indicare due questioni: il governo personale del muoversi fra rischi e sicurezze in cui si può procedere sulle orme della socio-antropologia del rischio (U. Beck 2001, 2003, 2017; M. Douglas 1985); la condizione di pre-dismissione dell’attività estrattiva per mostrare certe temporalità delle miniere (L. D’Angelo e R. Pijpers 2018). Dirò del camminare sotto e sopra la terra a passi d’avvenire. Terrò conto sia della valorizzazione del passato con il futuro alle spalle (T. Ingold 2024), sia delle precedenti critiche (Z. Bauman 2017) rivolte alle visioni situate nel passato, definite retrotopie. Si tratta di critiche che, invece, incoraggiavano ad andare avanti, per cambiare. Per certi aspetti mi oriento tenendo conto della posizione di Giorgio Agamben (2008) quando si domanda Che cosa è il contemporaneo?

Nel territorio Agordino tento di partire da certi rischi del presente (penso per esempio ai numerosi morti sul lavoro) per congiungerli a particolari rischi minerari al fine di individuare specifiche contemporaneità nelle miniere storiche che richiedevano soluzioni per assicurare futuro produttivo e personale. Sotto e sopra la terra cerco di intravvedere l’Angelus Novus di Walter Benjamin che avanza nel volo guardando ai suoi piedi le macerie del progresso. Tuttavia, insieme a certe mancate realizzazioni di progresso industriale, nei luoghi rischiosi delle miniere scruto per vedere le umane forze culturali che hanno prodotto, insieme ai minerali, tempi di vita immediati e futuri, sia per la miniera e sia per le persone che vi lavoravano. Guardo pertanto le opere infrastrutturali di impianti di eduzione delle acque e i sistemi di areazione e di armature, realizzati per merito di ingegneri e tecnici, fino al lavoro quotidiano di minatori che governavano vari rischi, specialmente di frane, nella variabilità delle rocce. Vedo un’archeologia industriale i cui contenuti d’intelligenza non sono solo sepolti negli oggetti, ma vivono soprattutto nelle materiali relazioni fra corpi e oggetti. Cerco, in realtà, di cogliere le esperienze culturali securitarie non solo sul piano dell’immediatezza, ma anche in una dimensione prospettica. Tento di scorgere come le soluzioni che avvengono nel presente aprono al futuro, all’avvenire.

Le miniere dismesse, in generale, indicano una loro presenza culturale che parla al nostro oggi reso insicuro, ma in cui si possono aprire nuovi tempi e nuovi spazi di opportunità per realizzare importanti percorsi di esperienze vitali, securizzanti sé stessi e il mundus. Si tratta di esperienze che si pongono in un piano d’immediatezza, ma costituiscono anche opportunità per nuove condizioni di futuro. Possono essere volte al futuro. Possono contenere passi d’avvenire. Individuale, ma non solo. 

Valle Imperina, centro minerario

Valle Imperina, centro minerario

Questioni aperte nell’antropologia alpina

L’ambiente dei rischi e delle sicurezze che congiungono le esperienze sotto e sopra, sopra e sotto la terra, è emerso nella rivista “La ricerca folklorica” n.71 del 2016, dedicata alla cultura dei minatori delle Alpi e curata da Glauco Sanga e Pier Paolo Viazzo. I minatori sono emersi nei vari studi come soggetti con un doppio significato, sia nel senso di assoggettati e sia nel senso di autonomi protagonisti, attivi e risolutivi, di un doppio mondo e di un doppio registro di rischi. Uno era interno e l’altro era esterno alla miniera. All’esterno riguardava specialmente i difficili percorsi invernali fra casa e miniera. Trascorsi quasi dieci anni da quegli studi, l’antropologia mineraria alpina non appare adeguatamente incoraggiata dalle istituzioni a cimentarsi con il territorio. Mi sembra pertanto necessario richiamare alcuni aspetti dei discorsi presenti in quel numero della rivista.

Le miniere del territorio Agordino sono state a lungo pregevolmente studiate, soprattutto per l’età preindustriale, da Raffaello Vergani che recentemente ne ha ripreso la narrazione storica nella rivista citata (2016). Antropologicamente ho potuto tener conto per la modernità industriale sia del saggio di Francesco Spagna e sia dei lavori di Enrico Giorgis (2012, 2016), il cui ultimo scritto compare nella rivista citata. In questo importante numero monografico, Pier Paolo Viazzo indica tre questioni aperte per lo sviluppo degli studi storico-antropologici sulle miniere alpine che vorrei richiamare brevemente.

La prima questione riguarda la capacità di farsi umani nell’esperienza del sottosuolo. Si tratta dell’antropopoiesi per dirla con Francesco Remotti (2005) oppure dell’umanificare perfino nelle sottomissioni, per dirla con Tim Ingold (2015, 2024). In breve, riguarda pratiche per realizzare autonomi e distintivi “modelli minerari di lavoro ben fatto”, secondo le varie mansioni, potenziando il proprio sé. È una questione che, in un certo modo, parla al presente non solo minerario.

minierexIl secondo problema attiene alla presenza delle donne in un mondo lavorativo androcentrico. Le operaie di miniera lavoravano prevalentemente all’esterno delle gallerie, ai trasporti e ai diversi tipi di cernita. Le cernitrici operavano in una posizione strategica. La loro attività rendeva commerciabile il minerale. A parità di lavoro erano pagate meno di un manovale. Anche questa vicenda parla al presente, anche non minerario.

Il terzo tema comprende il governo dei rischi e l’antropologia dei rischi. Per quanto concerne l’antropologia e le esperienze umane nei e sui rischi minerari è necessario tener conto della differenza fra pericoli e rischi. I pericoli riguardano proprietà intrinseche di un determinato fattore, individuato come dannoso. Per esempio la caduta pericolosa di massi in una strada, marcata da segnali di pericolo. Alcuni pericoli prevedibili, fra l’altro per l’eduzione delle acque e per l’areazione, come ho detto, erano affrontati e risolti da ingegneri e da tecnici con opere infrastrutturali, secondo i contesti. I rischi, invece, concernono probabilità di un accadimento dannoso con le sue conseguenze. Il carattere probabilistico del rischio è collegato alla carenza di informazioni certe sui possibili accadimenti incombenti.

Nelle miniere storiche rischi quotidiani e continui erano assai numerosi e di vario carattere. Quelli infortunistici accompagnavano sia i rischi igienico-sanitari fra i quali la silicosi potenzialmente degenerativa, sia quelli trasversali ovvero organizzativi, determinati da ritmi o da stress lavorativi. Vari rischi riguardavano complessivamente il lavoro quotidiano di ogni minatore, anche nell’Agordino. Una medaglietta identificativa veniva prelevata ad ogni turno per essere sperabilmente riconsegnata in lampisteria a fine turno, per realizzare che la propria presenza aveva superato i rischi del sottosuolo. Le questioni poste per l’antropologia alpina consentono di interrogare meglio alcuni testi antropologici riguardanti il territorio Agordino. 

Agordinio, Forni fusori

Agordino, Forni fusori

Percorsi antropologici nell’Agordino

Francesco Spagna individuò nelle miniere dell’Agordino un primario momento critico di frattura culturale fra dirigenti, tecnici e operai. A suo modo di vedere, tale frattura culminò nella erosione della dignità del minatore. La rottura si realizzò con la dominanza dell’ideologia dello sfruttamento intensivo della manodopera, attraverso il controllo autoritario del lavoro, i cronometri e le multe del taylorismo e del minerario sistema Bedaux come variante del taylorismo, imperante specialmente durante il fascismo. L’imposizione dell’one best way, in quanto modello lavorativo egemonicamente imposto, aveva una portata di tendenza epocale e mondiale di ascendenza americana, come notava Antonio Gramsci nelle sue note su Americanismo e fordismo (1978). Che permanenza culturale possiede tale esperienza mineraria? Come possiamo metterne in luce la contemporaneità in quanto modello lavorativo accelerato che congiunge il presente al passato minerario?

Nel territorio Agordino può essere approfondita l’analisi delle differenze fra il modello qualitativo di lavoro, proprio di certi operai non favorevoli ai cottimi, e il modello quantitativo sostenuto da ingegneri, tecnici, addetti ai cronometraggi, e fatto proprio da certi operai, conquistati dai maggiori guadagni offerti dai cottimi. Sappiamo da Mario Perugini (2014) dell’onnipotente presenza della Montecatini con i cottimi. Egli racconta che in Maremma avvennero scioperi contro il sistema Bedaux nel 1932. A Gavorrano i minatori giunsero a invadere gli uffici della miniera e a distruggere le macchine che contabilizzavano i cottimi Bedaux. Cosa accadeva nel territorio Agordino nei confronti fra modelli quantitativi imposti e modelli qualitativi autonomi di lavoro? Cosa può essere portato alla luce come percorso di autonomia culturale da raccontare e valorizzare? Cosa possono rappresentare i minerari modelli quantitativi di tempi accelerati a fronte di quelli qualitativi, misurati nelle scelte e nelle esperienze consapevoli di turismo lento? 

La questione dei cottimi riguardava anche l’esperienza delle operaie di miniera. Si dice che nel 1909, o forse fino al 1910, prima della messa in opera del frantoio, esse spingevano i vagoni fuori della miniera o lavoravano alla cernita. Viene raccontato che tante donne facevano quel mestiere. Si ricorda Eta, una donna fragile e minuta con la schiena diventata curva, che aveva la pensione e portava orgogliosamente la medaglia della miniera. Il cosiddetto “orgoglio di mestiere”, era assai richiamato anche in riferimento a certe prestazioni del sottosuolo. Su quali elementi di capacità professionali era elaborato, perseguito, esibito, individualmente o collettivamente, tale orgoglio secondo le mansioni, i tempi e i luoghi? Come le capacità minerarie e alpine delle donne dell’Agordino possono orientare modelli di turismo consapevole o esperienziale?

Forni Fusori – Miniere Valle Imperina

Forni Fusori , Miniere Valle Imperina

Riprendendo il problema dei rischi minerari nell’Agordino, sembra rimangano alcune ombre, relegate in una dimensione celata o appena evocata in quanto “poco ufficiale”, se si segue la narrazione di Francesco Spagna. In un incidente persero la vita cinque minatori. Frane e gallerie ostruite dall’acqua rimangono esperienze episodiche sottaciute. Per dirla in breve, vari modi minerari di problem solving, di quotidiano cimento securitario nell’attività estrattiva, potrebbero mostrare il surplus di produzione culturale che accompagnava i minerali estratti. A proposito dei cottimi, deve essere sottolineato che l’accelerazione dei tempi produttivi distraeva o indeboliva l’attenzione dagli elementi qualitativi dei rischi, mentre accentuava l’inspirazione di polveri nocive. Pertanto le temporalità lavorative e la correlata politica dei tempi, secondo la localizzata distribuzione dei rischi e delle sicurezze, richiedono ulteriori indagini approfondite per tratteggiare il profilo delle culture minerarie locali, sia egemoniche e sia subalterne, con la loro portata di surplus di produzione culturale per un turismo esperienziale opportunamente orientato e alimentato da gratificanti occasioni di problem solving.

Una seconda faccenda importante, indicata sia da Francesco Spagna e sia da Enrico Giorgis, riguarda le esperienze contrastanti fra l’egemone assetto di monocoltura estrattiva e le organizzazioni policolturali dei minatori. Gli operai individualmente univano il lavoro estrattivo a quello nei campi, nel bosco, nell’allevamento. In tal modo, forse, rispetto alla vita nel sottosuolo realizzavano compensazioni offerte dallo spazio aperto. L’aspetto dei rischi vitali per le penurie alimentari determinate dai bassi salari era fronteggiato dalla sicurezza alimentare, fornita dall’integrazione territoriale realizzata dai minatori del territorio Agordino. I loro mutevoli dispositivi che tendevano ad associare miniera-campi-bosco-allevamento, erano d’importanza vitale per la produzione di cibo. A questi aspetti possono essere congiunte le abilità e le eccellenze locali delle donne nelle pratiche alimentari, quotidiane e festive. Mi domando se alcuni significativi percorsi individuali casa-miniera-campi-bosco di certi minatori possono essere documentati e valorizzati in primo luogo con grandi mappe informative da esposizione. Mi chiedo inoltre se può essere realizzata una specifica segnaletica, artisticamente colorata a pavimento stradale, o in altri modi che facciano emergere speciali percorsi individuali securitari in quanto marcatori vitali delle persone e del territorio. Si tratta di trovare alcune esperienze più agevoli da documentare per vicinanze, percorribilità, visibilità o altro ancora. Per quanto l’impegno possa presentare alcune difficoltà, mi pare di grande rilevanza documentare, espositivamente e in situ, le creative forme di integrazione territoriale vitale, realizzate da numerosi minatori nel corso delle loro esperienze minerarie e assai rilevanti per un turismo culturale attento alla creatività.

img_3246Al polo opposto di tali sicurezze, e in una logica complementare di rischi all’aperto, si possono situare le discariche minerarie. Importanti bonifiche sono state fatte. Tuttavia, pare che rimanga non poco da fare. In tal caso, sembra necessario rilanciare una stagione di nuovi impegni per le bonifiche minerarie non realizzate, in cui Agordo possa essere capofila in una rete nazionale attiva, orientata alla produzione di un futuro ambientale durevole, democraticamente condiviso. Nuove realizzazioni bonificanti possono assumere un valore culturale esemplare nel quadro di un turismo consapevole, ambientale e naturalistico.

La domanda sulle possibili reazioni locali ai cottimi ne suscita altre. Vi fu un discorso medico che riguardava gli specifici effetti dei cottimi sui polmoni e sulle silicosi? Il medico Giuseppe Vallenzasca, che scrisse qualcosa di corpi e miniere nel 1823, non conosceva gli effetti dei cottimi sui corpi umani. Dopo gli studi di medicina del lavoro, sappiamo che l’accelerazione lavorativa era accompagnata da quella respiratoria e che quest’ultima determinava una maggiore inspirazione di polveri nocive per la salute e per la vita, Infatti, alla silicosi potevano associarsi gravissimi fenomeni polmonari degenerativi. Molti problemi di mancate sicurezze vitali nel sottosuolo della modernità mineraria rimangono ancor oggi piuttosto inesplorati. Tuttavia, la loro documentazione può suscitare nuove attenzioni per un locale e specifico turismo salutare. 

L’autore poneva un terzo importante problema. Affermava che l’immaginario classico della miniera andava sicuramente rivisitato «mettendone però in risalto le connotazioni negative e gli aspetti drammatici». Attualmente, non si può che concordare con lui. Le strategie di vita nell’indigenza, la necessità di sottrarsi alla spirale del lavoro minerario e di trovare percorsi alternativi a quelli mortiferi del sottosuolo, la stanchezza di respirare la «pussiéra» della miniera che faceva ammalare di silicosi, l’integrazione con altri lavori all’aperto per mitigare gli effetti nocivi dell’attività sotto la terra, la mobilità migratoria, potevano apparire come storici dinamismi resistenti e/o difensivi, assai rilevanti per affermare l’esigenza di produrre un vivibile e durevole futuro personale, democraticamente condiviso con gli altri e anche con la natura. Sarebbe interessante una rivisitazione sugli aspetti drammatici a partire dalle vite dei minatori, come egli sosteneva, partendo dalle difficoltà attuali per produrre un futuro durevole, democraticamente condiviso oltre l’umano. Infatti, tale rivisitazione potrebbe aprire nuove conoscenze su inaspettate capacità di produrre tempi di vita sicura le quali, nascoste nel buio del sottosuolo dell’Agordino, possono orientare passi del ben vivere locale, anche turistico, nella contemporaneità. 

Le interviste che accompagnano il saggio antropologico di Francesco Spagna, realizzate fra il 1991 e il 1993 a seguito dei campi internazionali giovanili dal Club Unesco di Padova, sono state trascritte e organizzate tematicamente. Nell’introduzione alle testimonianze si precisa che il salario era a cottimo negli anni 1944-45, ovvero dopo la guerra e nel post-fascismo. Si afferma che gli operai erano spesso ingiustamente multati. Si sostiene che esisteva una storia «poco ufficiale di incidenti pericolosi, di frane, di minatori rimasti prigionieri in gallerie ostruite dall’acqua e salvati all’ultimo minuto a forza di pale e picconi». Di tale dimensione «poco ufficiale» sarebbe auspicabile acquisire maggiori elementi conoscitivi. In un incidente persero la vita cinque minatori. Gravi, nei ricordi, erano le condizioni di salute e numerose le morti premature dei minatori dovute alla silicosi, nei tempi difficili della miniera. 

Gallerie, miniiera dell'Agordino

Gallerie, miniera dell’Agordino

Cosa raccontavano i minatori dell’Agordino nelle interviste? Essi parlavano dei lavori alla ripiena, a forare la roccia e a caricare l’esplosivo per estrarre la pirite, ad armare in legno con gambe e cappello nei posti asciutti e arieggiati, e anche con l’acqua acida che bruciava le rotaie mangiandosi il ferro ed erano guai se una sola goccia andava agli occhi. Dicevano inoltre delle frane e dell’importanza delle armature e dell’acqua acida e calda che bruciava la schiena. Nominavano i fori, la gelatina, il caricamento delle mine, l’argilla per chiudere i fori e poi la miccia con i colpi in successione o con un colpo solo per otto o dieci cariche. Aspettavano che partisse il colpo, che passasse il fumo per rientrare a disgaggiare, cioè per disancorare le rocce instabili. Era questo il mestiere del minatore, narrato molto sobriamente. L’elenco di notizie richiamava prestazioni di esercizio funzionale, come da mansionario, mentre le prove lavorative come esperienze di sé stavano nel buio, quasi come capacità e talenti securitari celati in una personale intimità culturale. 

Seguendo il rapporto dei minatori con certi oggetti, per esempio con la propria lampada a carburo, sappiamo che questa era un oggetto di particolare cura per fare una fiamma lunga e illuminante, migliore di quelle a olio. Tuttavia, rimangono in ombra le distintive abilità personali acquisite nel governo delle lampade a carburo, o in generale a fiamma libera, e poi a fiamma protetta fino a quelle a casco, se vi furono. D’altra parte, alcuni rischi del contesto, sono raccontati come ansia, per esempio per l’acqua alla gola, considerati i possibili allagamenti. Tale ansia è richiamata piuttosto che raccontata. Un fatto importante come l’incendio di una miniera rimane un episodio evocato, elencato ma non raccontato. Si dice qualcosa di più sulle carenze di cibo. In miniera si mangiava un panino al formaggio o al salame, e si portava un litro di caffè e acqua. Il vino era poco perché caro. I soldi non bastavano e le multe erano un sistema di trattamento da schiavi. In Valle Imperina c’erano pochissimi diritti, poca tutela. Si doveva fare a meno delle scarpe. Si costruivano zoccoli di legno, le dàlmede. Quali penurie del presente, più prossime a quelle minerarie fino a mostrarcele contemporanee, possono offrire una nuova metrica di turismo riflessivo, capace di evitare eccessivi consumismi? 

Molte sono le notizie, tutte sono importantissime. Tuttavia, nello statuto culturale del minatore agordino non si scoprono ancora pienamente, nei racconti fin qui documentati, mutamenti di valore professionale e sociale, acquisiti attraverso il governo dei rischi minerari. Permangono ancora tenebre che rendono invisibili eventuali esperienze, più o meno contro-strategiche, fallite o riuscite, nell’affrontamento delle inuguaglianze di tempi di vita, che caratterizzavano le esperienze minerarie dell’Agordino. In questo senso, le temporalità del difficile poter vivere minerario possono offrire, per contrasto, modelli di innovative accoglienze con vari eventi, intimi e pubblici, per un “ben vivere” condiviso da abitanti e turisti. 

Invito a saper vedere i rilucenti luoghi della miniera, destinati solo a chi sa vedere. Perciò penso all’esperienza della Essilorluxotica, con i suoi valoriali culturali di sicurezze visive, realizzate con i tutelanti occhiali del nostro tempo, con alti profili estetici. Mi domando se un’ulteriore pista di ricerca può forse essere aperta sul poter vedere e sentire meglio minerario, in condizioni generalmente rischiose. In Sardegna i bravi minatori esaltavano particolari capacità di aver occhio, tenni ogu, e aver orecchio, tenni origa, per scrutare i rischi celati. Al di là dell’estetica, le esperienze dell’occhialistica possono avere una genealogia culturale che le riconduce a certi bisogni storici dei minatori di poter vedere e sentire meglio, bisogni ora generalmente diffusi ai quali può giungere da questa azienda una certa risposta? 

Museo Mineralogico

Museo Mineralogico

Le caratteristiche creatività culturali da qualificare e potenziare nel territorio Agordino 

Segnalati necessari sviluppi della ricerca e della documentazione opportunamente orientati al futuro, è assai confortevole constatare la rilevanza di elementi culturali che possono essere immediatamente qualificati e potenziati. I minatori e le popolazioni del territorio Agordino mostrano indubbiamente specifiche abilità e valori culturali di alto profilo antropologico, degne di valorizzazioni adeguate. Manifestano storicamente e antropologicamente, per dire in sintesi, creative capacità sia nell’integrazione dei territori e sia nell’inclusione delle persone in una sfera solidale. Si tratta di elementi culturali i quali non solo marcano la storica unicità culturale dell’Agordino, ma anche manifestano e rappresentano straordinari valori emergenti per produrre nuovi modelli culturali territoriali di futuro durevole e condiviso democraticamente.

In questo quadro culturale Agordino, in cui hanno propria luce gli oscuri rischi minerari trasformati in sicurezze di vita, gli interventi complessivi di bonifica delle discariche minerarie materializzano speciali rigenerazioni dei territori e delle persone, abitanti e visitatori. Le bonifiche possono costituire, a mio modo di vedere, se si vuole, l’avvio di un coerente sistema turistico rigenerativo con un preciso profilo culturale su cui si studia da tempo in varie parti del mondo e anche in Italia (M. Ferrero e I. Pinto 2023). 

08-_il_minatore__5003d09aa1ecaL’Angelo Novus della storia, che ho visto agli inizi del nostro dialogo, può volare nelle gallerie dei sottosuoli dell’Agordino. Può volare verso un futuro capace di giungere al nuovo in questo territorio minerario, proprio mentre guarda le macerie diffuse del progresso industriale e sociale promesso, con le sue connotazioni negative e i suoi aspetti drammatici accumulati specialmente nelle discariche minerarie. Si può procedere, a partire da quei luoghi complessivamente bonificati, realizzando nuove patrimonializzazioni e nuove eco-territorializzazioni delle storiche miniere. Le bonifiche dei contaminanti minerari, infatti, riguardano processi di nuova patrimonializzazione, rispetto alle patrimonializzazioni storiche prevalentemente rivolte alla ricostruzione del passato ereditato. 

Le neo-patrimonializzazioni minerarie, con i loro modi innovanti e “futuristi”, si dispiegano nel solco interdisciplinare aperto da Alberto Magnaghi per una nuova civilizzazione con un preciso carattere territorialista ecologico e pacifista, a partire dalla relazione umana con la natura. Tali innovative opzioni sostengono l’intreccio dell’antropologia mineraria con tale inedito ecoterritorialismo. Quest’ultimo, producendo nuovi contesti con nuove forme di vita, consente un nuovo statuto culturale alle miniere dismesse. Infatti, l’incrocio dell’antropologia mineraria con l’ecoterritorialismo fa emergere la contemporaneità delle storiche miniere negli aspetti di modernità incompiuta o rovinosa, specie nelle discariche, che toccano congiuntamente sia il nostro presente e sia il passato minerario, mentre rafforzano le urgenze per produrre futuro durevole, democraticamente condiviso. 

Nella multi-temporalità mineraria le complete bonifiche delle discariche costituiscono neopatrimonializzazioni minerarie ecoterritorialiste e pacifiste, suscitate dal pensiero di Magnaghi. Possono diventare rigenerative non solo di certe parti violate del territorio minerario Agordino, ma anche di abitanti e di persone in visita. Possono diventare determinanti per la produzione di un futuro durevole e democraticamente condiviso, in avvento e in avvenire: per un nuovo tempus e per un nuovo mundus, non solo locale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Viazzo P.P., 2016, La cultura della miniera tra storia e antropologia. Stato delle ricerche e questioni aperte, in «Erreffe» La cultura dei minatori delle Alpi, 71: 13-26.

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Paola Atzeni, è stata la prima docente in Italia di Storia della Cultura Materiale, cattedra istituita nel 1986 nell’Università Cagliari. Ha condotto le sue ricerche principalmente nelle dinamiche delle tecnologie e delle ontologie, indagando nel campo dei poteri e mettendo in vista anche il ruolo delle donne nell’esperienza della modernità mineraria. Nei tradizionali mondi agro-pastorali ha continuato a spostare l’attenzione su moderni processi di cambiamento in cui emergevano fenomeni di soggettivazione di genere, individuale e di gruppo, Fra i suoi lavori: 2007, Tra il dire e il fare. Cultura materiale della gente di miniera in Sardegna, Cagliari, CUEC, (1^ ed. 1988); 2017, Saper vivere. Antropologia mineraria della Sardegna nell’Antropocene,  2017, Saper vivere nel Gerrei minerario della globalizzazione, in Aa.Vv., Miniere e minatori nelle terre del Gerrei, Villanova Monteleone, Soter editrice; 2018, La cultura dei minatori delle Alpi. Una svolta negli studi antropologici italiani?, in «Lares», n. 2, maggio-agosto; 2022, Corpi Gesti Stili. Saper fare e saper vivere di donne eccellenti nella Sardegna rurale, Nuoro, Ilisso Edizioni.

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