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Convegni e altre kermesse intellettuali: “arte del potatore” e rinascita post-pandemica

9788807882043_0_0_770_75per non ricominciare

di Lia Giancristofaro

Corpi intermedi: esilio domestico e individuazione dei “rami secchi”

Dopo aver esperito per oltre un anno la casa e il web come il centro di una nuova socialità; dopo aver considerato l’avvenuta parificazione dell’eccitante vita metropolitana rispetto a quella che si conduce nella tanto vituperata periferia; dopo aver scoperto che, in una nuova vita hikikomori fatta di identità in remoto e volto mascherato, spendiamo meno di quello che guadagniamo; dopo aver vissuto per oltre un anno senza riti, senza feste, senza viaggi, senza vacanze e senza abiti sfavillanti, possiamo oggi considerare avvenuta la risemantizzazione della realtà.

Non torneremo come prima. Divenuti intermediari di un tempo domestico, abbiamo imparato a tagliare i rami secchi, a sfrondare inutili ridondanze dalle nostre vite. Abbiamo letto moltissimo, siamo entrati nelle tempeste dell’info-demia, abbiamo pensato, valutato, telefonato, pubblicato su Facebook e analizzato le risposte e i commenti: abbiamo pensato molto, e riposizionato il nostro “essere al mondo”.

La caratteristica dell’intellettuale è quella di essere un outsider, un contestatore, un esiliato. È nel dissenso che dobbiamo cercare il significato della sfida che ogni intellettuale lancia alla società, come sottolinea Edward Said [1]. Se guardiamo gli intellettuali alla luce della nostra storia più recente, e se ci confrontiamo con alcune figure emblematiche del secolo (Gramsci, Sartre, Adorno), scopriamo che a lasciare il segno sono sempre gli esiliati. Mentre tanti intellettuali professionisti pongono il proprio lavoro al servizio dell’ordine costituito, dando vita a cordate e meccanismi gregari, il vero intellettuale non può entrare in un simile branco, perché mette continuamente in discussione la realtà. Il vero intellettuale si fa autore/attore di un linguaggio diverso, che porta in sé la vocazione di dire la verità al potere. Per questo, l’intellettuale non è mai del tutto escluso ma nemmeno integrato, trovandosi sempre al bivio tra la solitudine e l’allineamento con una cordata.

I sorrisi sono importanti, come pure i riti e i grandi e piccoli incontri. La festa è il momento che più riesce a rinsaldare legami sociali e reti affettive [2]. Quest’anno ha messo a dura prova la vita sociale, segnata dalla cancellazione di pressoché tutte le feste e dall’introduzione di criteri rigorosi e selettivi di accesso ai luoghi domestici. La tecnologia ha permesso di supplire tramite il web, ma nei gruppi resta impressa la sensazione di incompletezza. Manca la partecipazione, manca il sorriso, mancano le espressioni dei visi, mancano gli abbracci e il calore dei corpi. Saltare un giro, bloccando per un anno o due i compleanni, i Natali, le Pasque e le altre feste comunitarie, porta a un esame collettivo di coscienza.

Le comunità, proprio come l’intellettuale, sono per la prima volta a un bivio: il bivio tra una nuova forma di solitudine e un ri-allineamento gregario allo stile di vita precedente, di cui alcuni sentono tanta nostalgia. Lo stile di vita individualistico e de-ritualizzato porta assuefazione, perché offre la soddisfazione di affrancarsi dai vincoli comunitari. Funziona come un pigiama: a furia di indossarlo, lo percepiamo come talmente comodo che non vuoi più toglierlo, e non riusciamo più ad indossare i nostri abiti normali, divenuti stretti e rigidi. E arriviamo a guardare come un gigantesco ramo secco tutto il nostro armadio: un bagaglio consolidato nel tempo di habitus, autodefinizioni, ruoli e memorie che abbiamo conservato gelosamente con la naftalina, allontanando le fameliche tarme e rallentando la spietata distruttività del tempo.

Ma l’eccesso di conservazione ha determinato altri eccessi. La pandemia evoca il contingentamento, la rivalutazione, la riconsiderazione. La pandemia invita a riscoprire l’essenziale per una nuova socialità, in esistenze che, come una vite impazzita, hanno prodotto infiniti e sterili polloni nei quali la linfa si disperde. Polloni che non porteranno frutti, e che vanno riorganizzati grazie ad una operazione di potatura.

La potatura è un gesto antico, una tecnica capace di tramandare la vita. Attraverso il taglio, che di per sé è un’operazione dolorosa, si dona una nuova vita alle piante, ma non solo: con la potatura si riesce a tutelarne la longevità, a regolare il carico di gemme e quindi la produzione dei frutti. In questo periodo dell’anno, i potatori di tutta Europa sfidano le avversità climatiche, si armano di guanti, forbici e pazienza, per effettuare il fatidico taglio che servirà a gestire e a indicare alle piante la strada “linfatica” da percorrere quando essa si sarà svegliata dal sonno invernale. Insomma, esiste un metodo ad hoc: una vera e propria “arte del taglio”, che la pandemia ci aiuta a riscoprire in molti ambiti della nostra vita.

71brfp6cfflCultura per passione o tornaconto? L’intellettualismo come fenomeno folklorico

Dice bene Faeta nel suo articolo Per non ricominciare: della cultura, come essa si è negli ultimi tempi espressa, dopo il mortale abbraccio con la pandemia non sentiamo alcun bisogno, e alcuna nostalgia. Oggi, le uniche piazze frequentate sono i social network: in queste piazze virtuali, le espressioni di odio, minaccia, polarizzazione e squadrismo mediatico si alternano alle espressioni di commozione per il sentirsi parte di una stessa fragile umanità, sottoposta all’attacco sconvolgente di un “nemico invisibile”. E in queste piazze virtuali risuonano, tramite scritture gergali, video autoprodotti, imitazioni e meme virali, narrazioni popolari già viste e sentite, leggende e superstizioni che meritano lettura e interpretazione antropologica. Oggi è possibile che un video, come un meme, registri milioni di visualizzazioni in poche ore; essi hanno sempre un significato politico (anche strappare una risata ha infatti un significato politico, a seconda delle narrazioni messe in campo) e si propagano per imitazione. Internet si muove in fretta, e la quantità di contenuti che ogni individuo visualizza ogni giorno è sempre più alta, meme compresi, soprattutto al tempo della pandemia e della riduzione della socializzazione “faccia a faccia”.

Mi occupo di cultura folklorica, o “del popolo”. Si tratta di una categoria politica assai precaria, ma non ho altri termini per circoscrivere il mio studio, che si inserisce nella tradizione disciplinare degli “studi folklorici”. Fatico molto a far accettare lo studio folklorico contemporaneo ai miei colleghi, specie a quelli più alti in grado, cui spetta il “giudizio” sugli altri antropologi culturali. Qualcuno, senza neppure leggere le mie etnografie, potrebbe definirle “imbarazzanti” solo per il fatto che esse dichiarano di esplorare il “folklore contemporaneo”. E questo stesso fenomeno è degno di essere esplorato, in quanto è esso stesso incarnazione di una forma folklorica, di un conformismo, di una stereotipizzazione, di una polarizzazione culturale.

Dalle mie etnografie, deduco che la cultura folklorica incorpora, reinventa e oltrepassa il messaggio intellettuale, offrendo in questo modo importanti informazioni sulle dinamiche culturali degli stessi antropologi. Uno studioso polarizzato e arroccato nelle sue posizioni produrrà un non-studioso altrettanto polarizzato e arroccato, e per di più sprezzante dello stesso studioso. Una piccola “svolta” nelle mie prospettive c’è stata una decina di anni fa, quando una parte consistente dei miei informatori mi ha dichiarato di non aver bisogno di antropologi, perché la popolazione è in grado di “studiarsi da sola” e di salvaguardare autonomamente le proprie tradizioni. Alcuni dei miei informatori hanno fortemente criticato il lavoro degli antropologi, leggendolo come incomprensibile, improduttivo, chiuso in sé stesso o addirittura finalizzato a “sfruttare” le popolazioni osservate. Oggi, insomma, una sorta di “maggioranza” non riconosce l’utilità di questo tipo di studio [3]. Dall’altro lato, c’è invece chi lo ritiene indispensabile, soprattutto per sé stesso.

Perciò, salvo alcuni specifici contesti amicali, non ho nostalgia delle riunioni pubbliche, delle conferenze e delle presentazioni. Due particolari riferimenti al corpo quale cruciale dimensione culturale riaffiorano tra i miei ricordi e mi provocano nausea. Il primo, è quello dei tavoli interamente declinati al maschile. Il secondo, è quello dei codazzi dietro al potente di turno. Ma non è il codazzo, né la mera declinazione al maschile che mi danno fastidio, in questo “sguardo da lontano” nel quale saltano davvero all’occhio le “stranezze” a cui sembravamo assuefatti: ciò che mi disturba, infatti, è il compiacimento dei protagonisti, troppo acuti per non percepire la ruvida tela dell’oscuro “cul de sac antropologico” nel quale si sono cacciati. In logica, si parla di contraddizione quando si identifica una proposizione con il suo contrario, ovvero se si considera una proposizione logica attualmente identica al proprio opposto. E questo corrisponde esattamente a ciò che fanno gli intellettuali che, sciacquandosi la bocca con Gramsci, anzi facendo addirittura i gargarismi con questo nome, praticano esattamente ciò che lo studioso considerava terribile: cioè, colonizzare il mondo con un potere autoreferenziale e latore di disuguaglianze. Ma il collutorio, come si sa, è un prodotto per l’igiene orale dalla funzione meramente preventiva. Non combatte la carie, semmai ne copre il lezzo. Perciò, ridurre il nome di Gramsci a collutorio, e nel contempo riprodurre potere, gerarchia e violenza simbolica, configura un metodo farmacologico per produrre un controllo totalitario e propagandistico su intellettuali fragili, spaventati, svuotati, impoveriti di risorse e dignità. Pensatori che, trovandosi al bivio tra la solitudine e l’allineamento con una cordata intrisa di melma e liquame, a questa si aggrappano disperatamente, senza minimamente considerare che, in taluni casi, è meglio percorrere la via della solitudine.

lo-sguardo-da-lontano_2020L’approccio antropologico necessita dello “sguardo da lontano”, come dice Lévi-Strauss [4]. Quale migliore occasione della pandemia per riflettere su questi fenomeni di socializzazione tra intellettuali e pubblico o, meglio, tra intellettuale e intellettuale? Certamente, lo sguardo antropologico rischia di realizzare una “ethnofiction”, una forma di conoscenza che, da un posizionamento “lontano”, evidenzia i tratti più patetici della cultura che studia, costruendo una rielaborazione letteraria piena di simbolismo fertilizzante per quanti siano lontani dal sistema culturale che si vuole esplorare. Ma non è questa la mia intenzione. Sappiamo bene che le leadership, le amicizie, le alleanze sono fattori necessari per la vita politica di ogni gruppo, e servono a gestire i conflitti interni alla stessa comunità.

Il rito dell’incontro, peraltro, permea le relazioni sociali e definisce i ruoli, i quali si esprimono nella postura dei corpi e negli stessi “codazzi”, forme di vicinanza che a volte possono sembrare una fastidiosa espressione di gregarismo servile e adulante. Tuttavia, lo studio e il confronto di questi contesti come specifici ambiti di interazione, anche rituale, offrono un’occasione di analisi proficua, soprattutto in funzione della loro ripresa post-pandemia.

relazioni-in-pubblico-1044Il gregarismo insostenibile: la nuova disciplina dei corpi nei convegni on line

Nel convegno, o nella presentazione di un libro, intesi come forma comunicativa e rituale, quali finalità hanno i corpi, e quali finalità ha la parola? In secondo luogo, quale trasmissione o costruzione di conoscenza essi tramandano? Quali schemi di potere? Come cambiano, essi, nel nuovo regime telematico della convegnistica? Cosa insegna la recente telematizzazione degli incontri intellettuali?

Direttamente e indirettamente, sono molti gli autori che hanno studiato le dinamiche comunicative tra intellettuali o, in senso lato, tra specialisti. Pensiamo alla tradizione weberiana ed interazionista, o a quella strutturalista, di origine durkheimiana. Personalmente, mi richiamerei principalmente a Erving Goffman, che propone una lettura incentrata sull’interazione di tipo rituale, mutuando la prospettiva di Émile Durkheim.

Una visione degli intellettuali incentrata sull’interazione di tipo rituale rende visibile il ponte che unisce la prospettiva macro, di tipo strutturale, a quella micro, delle interazioni quotidiane, le quali formano e informano la persona, e avvengono anche su Facebook e altri social media. Oggi, anzi, avvengono principalmente su questi strumenti. Negli ultimi mesi, ho osservato molto gli antropologi, notando come i loro “like” si muovano in gruppo: in parole povere, essi tendono a compiacersi e omogeneizzarsi tra di loro, e a considerare le azioni del proprio gruppo, prima ancora di esprimere il proprio gradimento. Insomma, essi non vogliono rischiare, con un “like” messo autonomamente, di legittimare gli esterni, forse considerati “impuri”, e si scambiano forme di reciproco gradimento (talvolta adulatorio) in circuiti piuttosto ristretti. Pur senza osservare i corpi, questa analisi può fornire risultati sorprendenti, instradandoci nella visione olistica di Gregory Bateson, la quale mette in discussione le dicotomie attorno alle quali si è evoluto il paradigma corporeo: mente e corpo, coinvolgimento e distacco.

81ns26rg7hlLa conferenza, o anche la presentazione di libro, intese come “situazioni sociali”, o meglio ancora come una «istituzionalizzata presa del diritto di parola in cui un parlante comunica le sue idee su un tema» [5], rappresentano una straordinaria occasione del riunirsi e del trovarsi insieme. Questa forma di riunione, tipica comunicazione frontale e focalizzata fra uno e molti soggetti, si costruisce su dinamiche molto vicine ad altri esempi di interazione, come la difesa e il rafforzamento dei ruoli. La comunicazione avviene in specifiche forme e secondo un certo stile. Alcune persone detengono un diritto di parola maggiore rispetto al pubblico, e l’intera situazione si basa su un distacco dagli oratori, che vengono però osservati dalla platea. Si tratta, in ogni caso, di occasioni celebrative di “chi parla”, in quanto costui è esponente di un “ceto” davanti al quale (e per il quale) egli manutiene la propria autorevolezza. L’andamento dell’incontro viene abilmente pilotato in modo da evitare gli inciampi e da sviluppare dinamiche mirate a rafforzare i ruoli e la facciata, anche professionale, dei partecipanti. I retroscena vengono occultati e, sotto le luci della ribalta, splende un’immagine di contegno, decenza e deferenza anche sui protagonisti più affaticati dal lavorio di questa teatrale “fabbrica di reputazione scientifica”, il cui stile è elaborato ed espressivo [6].

Ogni convegno, come pure ogni presentazione libro, è una forma di controllo sul linguaggio, ma anche sui corpi e sugli spazi. La prospettiva antropologica, eliminando da ogni corpo i suoi connotati di natura per fargli assumere quelli della cultura, dell’agency e del condizionamento, trasforma l’evento in un “testo” e lo conduce ad uno status “esplicito”. La vulnerabilità degli individui diventa cerimoniale, anziché fisica, dunque il posizionamento dei corpi esprime una forma di violenza organizzata gerarchicamente. Si tratta di un linguaggio corporeo sottile, che passa attraverso il luogo in cui ci si siede (attenzione: anche la fila di sedie ha il suo connotato ideologico) e la distanza che le persone frappongono fra loro, evitando gli “impuri” come se fossero appestati, e strusciandosi estaticamente tra aggregati della stessa cordata. Ogni dettaglio è espressione delle dinamiche di potere/sapere, come direbbe Foucault, ma anche dell’habitus di ogni persona, come direbbe Bourdieu [7].

71qo1mn1gylCol distanziamento e il confinamento, il nesso fra disciplina dei corpi e campo intellettuale finalmente si rompe, sollecitando il riposizionamento e la ri-contestualizzazione del processo conoscitivo. I sensi, soprattutto la vista e l’udito, continuano ad assumere un ruolo importante nel rispetto e nella riproduzione delle norme sociali di comportamento, ma nell’oscuramento degli altri sensi il pensiero viene sollecitato a sperimentare diverse relazioni per non perdere l’essenziale. Le ragioni “di riverenza” passano in secondo piano, l’atteggiamento dell’accorgersi va oltre la riflessività, diventando la via della consapevolezza, vocabolo che esprime compiutamente il “rendersi conto” di una vita intellettuale finora condotta in una condizione di metanoia, di specchiamento gregario e reverenziale, di inutile e frustrante tentativo di emersione e auto-riconoscimento in un ambiente che è, fondamentalmente, folkloristico. Dunque no: di queste modalità dell’incontro, non sentiamo la mancanza.

Nella nuova comunicazione virtuale, il rapporto fra spazi, corpi e interazioni schiude molte varianti, e tra queste c’è quella di una maggiore uguaglianza. Se nella maggior parte degli incontri faccia a faccia sono prevalsi l’irreggimentazione e il controllo, anche attraverso l’autodisciplina, diverse occasioni di incontro on line hanno mostrato una tendenza in senso opposto. La parola, il movimento e l’interazione fra i partecipanti sono apparsi più liberi; non ci sono posti in prima fila da occupare in tutta fretta accanto al potente di turno, e non c’è la possibilità di sedersi di fianco nella medesima cordata per un ineffabile contatto col corpo mistico del caposcuola, per quegli assurdi meccanismi di gregarismo e polarizzazione che tanto attirano gli intellettuali. Se si impoverisce l’energia del suo rituale, se si abbassa il suo stile, ne risulta potenziato il distacco, e questo, dal mio punto di vista, è un enorme vantaggio euristico per tutti, soprattutto per quanti hanno finora campato di “rendite di posizione”.

Tra effetti perversi e circoli viziosi, nella ripartenza post-covid non vedo l’ora di osservare “faccia a faccia” gli effetti pregevoli di questa fase transitoria di incontri telematici. Sperando che si tratti di una transizione dell’homo academicus verso l’homo aristotelicus, e non verso l’homo neuronale. Già, perché passare dalla società dell’umano alla post-società del determinismo neuro-scientifico è un rischio altrettanto pericoloso. Ma a quest’altro guaio penseremo domani.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
 Note
 [1] Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli 2014.
[2] Paolo Apolito, Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità, Bologna, il Mulino, 2014.
[3] Ho espresso queste idee in Populisme et polarisations. Notes théoriques sur le folklore et les institutions politiques, prefazione di Jocelyne Bonnet, introduzione di Laurent Sébastien Fournier, collana Ethnologie de l’Europe (diretta da L. S. Fournier), Parigi, Harmattan, 2020.
[4] Claude Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano, Torino, Einaudi 2011 [1983].
[5] Erving Goffman, Relazioni in pubblico, Torino, Einaudi 1982: 223.
[6] Cfr. Mary Douglas, Come pensano le istituzioni, Bologna, Il Mulino 1990.
[7] Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi 1994; Pierre Bourdieu, Campo del potere e campo intellettuale, Roma, ManifestoLibri, 2002.

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Lia Giancristofaro, Ph.D., DEA, è professore associato di Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Chieti-Pescara. Si occupa di diritti umani e culturali, di culture folkloriche e popolari e delle nuove responsabilità politiche delle ONG. In rappresentanza della Società Italiana per la Museografia dei Beni DemoEtnoAntropologici, ha osservato diverse sessioni dell’Assemblea Generale degli Stati-Parte della Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale. È autrice di numerosi studi. Le sue pubblicazioni più recenti sono: Il segno dei vinti, antropologia e letteratura nell’opera di Giovanni Verga, 2005; Riti propiziatori abruzzesi, 2007; Il rituale dei serpari a Cocullo, 2007; Il ritorno della tradizione. Feste, propaganda e diritti culturali in un contesto dell’Italia centrale, 2017; Cocullo. Un percorso italiano di salvaguardia urgente, 2018; Politiche dell’immateriale e professionalità demoetnoantropologica in Italia, 2018; Patrimonio culturale immateriale e società civile, 2020 (con Valentina Lapiccirella Zingari).

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