- Dialoghi Mediterranei - https://www.istitutoeuroarabo.it/DM -
Commento a un commento di Pizzuto
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 01:49 In Cultura,Letture | No Comments
Nelle mie chiose a Pagella, settima lassa di Testamento [1], cercavo per quanto possibile di individuarne in dettaglio la materia autobiografica (disseminata a piene mani in tutto il libro), rilevandone insieme la costruzione ad anello, aperta e chiusa sulla figura materna. Per decifrare l’epilogo, dove questa figura è appesa a «l’esile penna» e ai «metri ultimi elaborandi», mi ero avvalso di una lettera a Salvatore Spinelli (5 marzo 1949), dove Pizzuto annuncia di trovarsi a Palermo per i funerali della madre, Maria Amico, aggiungendo: «Appena una quindicina di giorni fa scrisse la Sua ultima poesia, incompiuta, che ti copierò e manderò. | Aveva 85 anni» [2].
Mi era parso pacifico associare questa «ultima poesia, incompiuta» ai «metri ultimi elaborandi» di Pagella, e di attribuire quindi alla voce di Maria Amico i lacerti lirici che vi fanno seguito: lo «Scendiamo a valle» (ribattuto da un «A valle. Scendiamo a valle») e soprattutto la sognante clausola «al verde lume dei campi» (musicalmente introdotta da un insolito punto fermo). La mia congettura sembrava perfetta, anche alla luce dei pochi versi conosciuti di Maria Amico (se ne parlerà più avanti), di certi suoi stilemi, e in particolare dell’incipit di Macchietta dal vero («Tra l’ampio azzurro, fra ’l verde dei monti»), prossimo al tono di quel cursus. Tutto sembrava tornare. Ma a questo mondo, disse il poeta, «nulla è mai davvero come sembra | ma almeno sette volte più complesso» [3]. Così un bel giorno il mio ingegnoso castello cartaceo crolla, come suol dirsi, rovinosamente al suolo. Accade quando mi avviene di compulsare, per una diversa ricerca, le Elegie ericine di Ugo Antonio Amico [4], padre di Maria Amico e nonno di Antonio Pizzuto, e di avere un sussulto dinanzi al diciannovesimo dei venti sonetti senza titolo che formano la raccolta. Lo trascrivo, ricordandone la dotta epigrafe («Ad gelidas fontes, ad amoeni jugera campi. – Pamph. Saxi, Carm.»):
Dunque, la mia ipotesi si dimostrava erronea. Dunque, battersi il petto. Dunque, affrettarsi a ritrattare, con tante scuse per l’abbaglio: è quel che mi affretto a fare in questa accogliente sede. Ma con qualche postilla che, lungi dal giustificarmi, si propone di collocare l’errore in una cornice, per così dire, di più ampia verità. Certo, i versi sono senza dubbio del nonno; e per di più il prelievo è esatto, anche nella reiterazione di quel «Scendiamo a valle» che nel sonetto transita dalla quartina iniziale all’ultima terzina, facendo sulle prime pensare che Pizzuto li abbia avuti sul tavolo, pronti per l’uso, e che la decisione di assegnarli alla madre, anziché al loro legittimo autore, non facesse per lui che rafforzare la temperatura emotiva del passo, riunendo in un unico afflato due persone profondamente amate (e largamente onorate nelle sue opere). Ma non è detto che le cose siano andate proprio in questa maniera. Alla pagina 130 del manoscritto originale del libro, che conserva tutte le lezioni che precedono il testo ne varietur destinato alla stampa, si legge una prima stesura, cassata, del brano, che recita «Andiamo a valle, al verde lume dei campi». Non è quindi da escludere che Pizzuto, in mancanza del libro, abbia convocato un remoto ricordo, di cui la mutazione da «Andiamo» a «Scendiamo» costituirebbe, diciamo così, la variante. Ora la memoria di Pizzuto era leggendaria (Contini dice che aveva «una salute di ferro»)[5], e non è affatto improbabile che i versi del nonno, letti o ascoltati a non molta distanza dalla loro pubblicazione, potessero affiorargli, via via precisandosi, dopo così tanti anni. Ma il fatto è che questo favoloso recupero, se di questo si tratta, non implica necessariamente che Pizzuto fosse in grado di stabilirne con certezza l’autore.
Il fatto è che Pizzuto fu allevato in una casa (quella, mitica, del palazzo Di Napoli, ai Quattro Canti) in cui la poesia era decisamente di casa. La coltivava pubblicamente, anche in ambiti ‘ufficiali’ [6], Ugo Antonio Amico, protagonista della vita culturale palermitana del secondo Ottocento (ma si era formato nel Seminario di Mazara): insegnante in varie scuole secondarie e (negli anni 1892-1912) libero docente di letteratura italiana all’Università di Palermo, pedagogista, cultore di tradizioni popolari, traduttore di classici, corrispondente, fra gli altri, di Giosuè Carducci, Luigi Settembrini, Niccolò Tommaseo, Alessandro D’Ancona, Guido Mazzoni, Mario Rapisardi. La coltivava in privato, talvolta affidandola a esigue edizioni non venali, sua figlia Maria. La coltivò, almeno fino all’adolescenza, con «odi o sonetti nessuno senza l’emistichio “il mio giardino”»[7], lo stesso Pizzuto, anche in forza del fatto che a «mesi 22 e giorni 5» era stato senza saperlo promosso autore (dal nonno «che parla a nome del nepote»), con il nome de plume (o, piuttosto, ‘implume’) di «Bebè», del seguente sonetto Per la solennità onomastica del dottor Giuseppe Pitrè [8] (sì, il celebre antropologo):
Tra parentesi, quell’emergenza sanitaria rimase negli annali di famiglia. Pizzuto ne farà un delizioso quadretto di Si riparano bambole (dove l’«atro malore» viene chiamato «febbre infettiva»), restituendo, dopo l’inconsapevole e incolpevole omaggio in versi, un sapido profilo del suo ‘salvatore’:
La poesia era dunque «di casa» anche perché spesso e volentieri fioriva come prolungamento degli intimi affetti e delle più calde amicizie. Pizzuto ne fu ‘vittima’, non solo nell’occasione appena descritta, ma addirittura alla nascita, festeggiata in un cartoncino di quattro facciate [10], In Antoninum Pizzuto et Amico pridie idus majas MDCCCXCIII natum Epigramma, con forbiti versi latini di Emanuele Armaforte a specchio di quelli italiani dovuti a Ugo Antonio Amico:
Un indicativo florilegio di questa produzione ‘domestica’ è offerto dai Canti dell’anima di Maria Pizzuto Amico, stampati per le «Nozze D’Alia-Pitrè – XX aprile 1904» (il matrimonio di Maria Pitrè, figlia del «dottore», la «Maria mia», ricordata nell’affettuosa premessa) [11] e in gran parte votati a scene familiari. Versi vivaci e ben scritti, con le ‘buone maniere’ che il bieco Novecento si incaricherà di travolgere, ma fatalmente convenzionali, già d’antan prima ancora d’esser licenziati. Vi trovano posto il «nido pigolante e pauroso», minacciato dal «nibbio insidïoso» che «piomba, e dà di becco!» (Alla fontana), il natìo paesaggio di Erice, con i «corimbi, e i verdeggianti | Rami che serpon su per le ruine» (Ad un ramo d’edera), la «chiesetta | Dell’antico villaggio» (Macchietta dal vero), la «poverella dalla guancia emunta» (Impressioni), i «profumati petali d’un fiore», «l’alma, avvinta da secreta pena» (Così, che darà a sua volta il titolo a un romanzo di Pizzuto) [12], e persino una manierata «Imitazione dal Francese» (Se tu il volessi!). E vi fanno spicco i trepidi bozzetti dei figli colti nelle piccole evenienze della vita quotidiana, come in Nevica!» («È tanto freddo, dicono i bambini»), in Ai miei bambini che dormono («L’aurata | Chioma, a la bimba mia, casca fluente | Sul guanciale; la mano abbandonata | L’altro ha sul petto del fratel dormente»), in I miei bambini studiano («Il mio grandetto [cioè Pizzuto] inteso a le parole, | Cerca aggettivi e nomi: ’l fratellino | Scarabocchia le sillabe, le sole | Ch’or ora apprese, e mette all’i il puntino. || Sopra un foglio di carta la piccina | segna, in azzurro, innumeri fregacci»), un amoroso Ritratto del babbo («Fronte aperta, serena, ove il pensiero | Nettamente si svela: occhio azzurrino, | Rosea guancia gentil, bel naso, altero | Viso, che sprezza l’onta del destino»), l’affranto Pel genetliaco del Babbo, concepito «Dell’alma Roma entro a le antiche mura» e fermato sul rammarico di una separazione sofferta («Ahi! Son lontana! E senza te nel pianto | Vivo e sto così muta e così mesta… | Perché viver non è se non t’ho accanto»), il premuroso auspicio per l’amica pianista (Ad Anna Sofia Amoroso) [13]: «Creatura gentile, che dei suoni | Chiudi in petto la vergine armonia»; «Segui: corri il cammino ove ti chiama | L’onor dell’arte: se ti sprona amore | Non puoi fallire a glorïosa fama!». Ma il pezzo forte della collezione resta per noi Uccellino cattivo!, alessandrini a rima non a caso baciata, diretti in epigrafe «A Baby mio lontano» (sempre il nostro Pizzuto), e non a caso ricordati in Si riparano bambole [14]:
Ugo Antonio Amico non era da meno; era anzi il precursore e il modello di questa innocua ‘perversione’. Anche a scorrere le sole Elegie ericine, la predominanza delle res familiares salta subito all’occhio, a partire dal sonetto d’esordio, che rimpiange la «felice | Età, quando le mie voglie moleste | Con carezze acquetò la genitrice», e ne evoca le sante parole («Sospirando dicea: Frena quest’ire, | Così tormenti di tua madre il core… | Figliuolo mio, così mi fai morire»), proseguendo con l’epicedio del «fratel mio» (il cognato Rocco La Russa caduto in una battaglia garibaldina: «E tu prode tra i forti | Muori! Bell’è morir nel campo, quando | Vivere in servitù val mille morti»), con la «Casa del padre mio», dove «è la mia madre | Che a sé mi vuole, e in mezzo a le sorelle | Vien, battendo le palme, il vecchio padre», fino al ‘ritratto di famiglia’, dove trovano posto le figlie Bice e Stella, tristi per l’assenza di Maria andata sposa: «ella ne l’amor del suo Giovanni | Gode, e tra il verde di montana villa | C’invita de le pergole a l’ombria», e alla poesia epilogale, consacrata ai «figli» e alla «dolce consorte»: «Voi de la vita mia siete ghirlanda! | E così dal piacer l’anima è vinta | Che in mezzo a voi saria dolce la morte!». Vi si aggiunga l’amorevole plaquette allestita per lo sposalizio di Maria [15], suddivisa fra la traduzione in endecasillabi sciolti di un frammento dall’Africa del Petrarca (Siface) e due apposite poesie, la prima delle quali, un sonetto, si conclude: «Pur, divisa da me, non sarai sola; | Perché lassù, per quella piaggia aprica | L’anima mia ti segue, o mia figliuola» [16].
E non era da meno il figlio e «nepote», di cui rimane una coppia di eleganti sonetti, probabilmente vergati in età non adulta, anche se imprecisabile (guarda caso «Festeggiandosi l’onomastico della Poetessa Maria madre del Poeta Baby»), e ben ripartiti fra un Pensiero del figlio e una Risposta a lui delle rose in cui lo ‘stile di famiglia’ impera sovrano, dalla prima quartina del primo («Ti saluti il bel sol ridente e d’oro | ne l’aura settembrina intiepidita, | e brilli come ’l sol questa tua vita | sì fatta di virtuoso almo decoro») al microfono argutamente offerto, nel secondo, ai fiori donati: «Figliuol, noi siam sei trepide sorelle | che il vivo sole e ’l dì lieto sorprese; | portaci a Lei, è gentil, le rondinelle | ci hanno beccate con le alucce stese!» [17]. A queste antiche imprese sarà ricondotto l’autobiografico Pofi di Si riparano bambole, quando, costretto, a «denari contati, e avaruccio altresì», a un regalo di nozze, si risolve a «comporre un acrostico, un sonetto acrostico per gli sposi»:
Per inciso, l’autoironica ripetizione di questa consuetudine ‘tribale’ non fa qui che confermarne la persistenza: i nomi degli sposi di cui si parla sono quelli del figlio e della nuora di Pizzuto, unitisi in matrimonio durante la composizione del libro e quindi vivi referenti sia del ricercato «sonetto acrostico» che dell’episodio in cui si incastona. Persistenza che si dirama in certe prestazioni di Pizzuto narratore, ad esempio in Vaud [18], ‘inno’ all’ospitalità dell’amica Madeleine Santschi, o in Tre case [19], ‘ringraziamento’ per un felice soggiorno milanese.
Potrei continuare. Ma è chiaro che siamo in presenza di un singolare consorzio, certo diverso dalla Dead Poets Society di L’attimo fuggente, ma ugualmente solidale, ugualmente devoto a una liturgia trasmessa di generazione in generazione (e officiata a suo modo anche dalla figlia di Pizzuto) [20].Una pratica assidua, che è sì un retaggio di certo Ottocento (quello che celebrava il culto dell’eterna bellezza, che adornava di eletti pensieri i fogli d’album, che venerava biblioteche e musei, che si riuniva intorno a un pianoforte per ascoltare romanze del Tosti o arie di Francesco Cavalli) [21], ma che ha anche, come si è avvertito, un aspetto mitemente ‘patologico’. Un’ex allieva di Ugo Antonio Amico ricorda:
Lacrime che Pizzuto, erede e complice di questa sensiblerie (di cui fu testimone Gianfranco Contini) [23], si vide forse spargere sulla cartellina in cui incideva il finale di Pagella. Nel loro eloquio obsoleto, nella candida fede che li impregna, quei poveri frammenti erano le sue madeleines, facevano prodigiosamente rifiorire per lui, e per lui solo, tutto un mondo scomparso, tutta la perduta felicità della sua belle époque ormai travolta dal Tempo. E a questo punto l’attribuzione di quei versi ‘ritrovati’ importa poco. Quel che importa è che le modeste, adorabili spoglie sono i ‘nomi tutelari’ di un dolcissimo viaggio, la ‘discesa’ che lo ricongiunge ai suoi poeti morti. In questa penombra il poeta vivo, e già virtualmente morto nel suo Testamento, le ricompone. Leggiamo:
______________________________________________________________
_______________________________________________________________
Article printed from Dialoghi Mediterranei: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM
URL to article: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/commento-a-un-commento-di-pizzuto/
Click here to print.
Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.