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Cirese e i margini

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 01:26 In Cultura,Letture | No Comments

 

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di Francesco Ronzon

La vita è buffa. Ho seguito l’ultimo anno di lezioni di Alberto Mario Cirese da studente. Ero appena arrivato a Roma da Verona. Un luogo che, dopo la Treviso di “Signori e Signore” di Pietro Germi, è uno dei più provinciali d’Italia. Per me l’urbe, gli edifici, l’Università, erano tutti segni di un centro politico, culturale, accademico ed intellettuale esplicito e conclamato. A partire dai maritozzi sino ad arrivare a Piazza Navona. E in questo scenario, ovviamente, figuravano anche le lezioni di Cirese. Ecco però che improvvisamente, anni dopo, mi viene fatto notare che proprio Cirese, uno degli esponenti di questo centro, era in realtà una scheggia di periferia infiltratasi nel sistema. Lungi dal lasciarmi basito, questa rivelazione mi ha aperto un’inedita prospettiva sulle cose (e sulle loro memorie). L’improvviso satori e la lontananza temporale hanno però avuto un effetto imprevisto ma prevedibile. I ricordi che sono emersi non hanno preso la forma di un quadro ma di un caleidoscopio. Ecco dunque qui di seguito un piccolo campionario in cinque “figure” di quella che nei miei ricordi è stata la perifericità dell’opera e del pensiero di A. M. Cirese.

1. Il lessico. Non file ma filze.

Io lego queste riflessioni sull’uso dell’italiano (periferico) di contro all’inglese (internazionale) ad un più ampio dibattito italiano post-bellico che includeva tanto de Mauro quanto Pasolini. E qui la perifericità è temporale. Per chi ha la mia età (55 anni) è un dibattito che ha un sapore di ratafià. Un’orgogliosa difesa di una (perduta) centralità linguistica dell’Europa continentale (Francia inclusa) nel dibattito intellettuale.

2. Il manuale Culture egemoniche e culture subalterne è un altro asse portante

Per quanto presenti, i testi e gli autori della manualistica antropologica classica, sono perifericizzati nel testo attraverso la loro immersione in una ulteriore massa di folkloristi europei e italiani usualmente posti ai margini del dibattito. La ciliegina finale è rappresentata dalla presenza di una vera e propria storia degli studi etnomusicologici in Italia intrecciata in modo trasversale al volume. Una scheggia aliena nell’impianto globale del libro che rende la trattazione ulteriormente insulare e spaesante.

cultura-egemonica3. Il Gioco di Ozieri

Operando una rottura con la middle level analysis e con il plurale tribale dell’antropologia mainstream (i nuer, i cinesi, i veneziani…) la lente analitica di Cirese ruota il punto di osservazione e mette a fuoco un piccolo e banale gioco popolare sardo che viene però a rappresentare la via d’accesso ad una riflessione più ampia. In primo luogo, sui modi locali di pensare alla vita e alla sorte. In secondo luogo, ancor più importante, sui modi di operare della mente umana tout court. Come nelle letture “micrologiche” di Walter Benjamin, sono gli aspetti marginali e perferici a rappresentare il centro dell’attenzione. La piccola porta da cui riflettere sulle grandi questioni. Anche in questo caso, si tratta di un’impostazione anomala, più vicina alla saggistica filosofica tedesca che non alla mappatura arealistica dell’antropologia tradizionale.

4. Modelli/Interpretazioni

In anni nei quali il centro dell’antropologia stava mostrando una sempre più forte attenzione verso la riflessività (umanistica, oggettivante l’osservatore, psicanaliticamente avvertita ecc. ecc.), la posizione di Cirese si poneva alla periferia del dibattito enfatizzando al contrario l’uso esplicito di modelli in stile top-down. Anche in questo caso ricordo in modo vivido Cirese insinuare con ironia che «se tutto è interpretazione, non capisco perchè non possano andare bene anche le mie interpretazioni basate su modelli». È curioso, peraltro, notare come Cirese, in questa critica diffidenza verso la riflessività post-moderna, si venga a trovare paradossalmente in compagnia di autori da lui non amati come Geertz e Clifford. Entrambi ben consci dei limiti fondativi della riflessività e ironici sulla sua ingenuità epistemologica (chi controlla il controllore, o se si preferisce: il cattivo infinito dell’homunculus cartesiano che osserva un homuculus che osserva un homunculus che osserva…). Dal punto di vista periferico di Cirese ho l’idea che esplicitare i modelli analitici rappresentasse per lui l’unico modo onesto per non nascondersi dietro a riflessività basate su scenari (narrativi, umanistici, fenomenologici) lasciati impliciti o presi per autoevidenti.

81ya30tuj9l5. Universale/Nomotetico

Ho lasciato per ultimo uno degli snodi forti del pensiero di Cirese. L’idea che l’antropologia possa usare le informazioni raccolte sul campo non a fini ideografici ma nomotetici. Lasciando da parte l’effetto vintage di questi due termini (vedi l’orgogliosa perifericità linguistica del punto 1), ricordo che Cirese articolava l’area di interesse dell’Antropologia facendo ricorso in perfetto stile popolar-provinciale a due proverbi. Da un lato “mogli e buoi dei paesi tuoi”, dall’altro “tutto il mondo è paese”. Anche in questo caso si tratta di una posizione marginale nell’attuale quadro internazionale. Se si escludono alcuni autori e riviste importanti ma numericamente minoritari, le storie raccontate dall’antropologia sono usualmente centripete: un gruppo sociale viene analizzato nel presente del suo evolvere, lanciando tutt’al più uno sguardo a ritroso sulla sua storia. Le analisi di Cirese a cui ho assistito, invece, erano quasi sempre centrifughe. Le informazioni sul presente erano asciugate e sgrassate per lasciar emergere aspetti sempre più astratti e generali (alla luce dei modelli di cui al punto 4).

Come vi avevo anticipato, si tratta di punti che nascono all’insegna di un paradosso: sono le memorie di uno studente che pensava di essere finito al centro del mondo ma che era invece allegramente seduto ad ascoltare la sua periferia. E, ovviamente, ciò lascia intendere tante cose circa l’instabilità gestaltica del vivere (oltre che del rapporto centro/periferia).

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
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Francesco Ronzon, professore di Antropologia Culturale presso l’Accademia di Belle Arti di Verona e l’Arab-American University di Ramallah (Palestina), ha condotto ricerche sul campo ad Haiti, New York e in Italia. Tra le sue pubblicazioni: Cultura e Cognizione. Un approccio Ecologico (Quiedit 2009), Presenze. Oggetti, pratiche e cognizione nel Vodou degli immigrati haitiani a New York (QuiEdit 2009) , Taxa e Taboo. Identità di genere e pratiche cognitive nell’Italia del Nord-Est (QuiEdit 2010).

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