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Che cos’è il Genius (Loci)? Fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione in luoghi da ri-abitare

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2020 @ 00:01 In Cultura,Società | No Comments

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Caffé Armungia

il centro in periferia

di Ester Cois

L’occasione armungese

L’emblematica battuta del celebre film Amici Miei (Monicelli, 1975), parafrasata nel titolo, si presta efficacemente, per assonanza e per etimo, a innescare una riflessione sulle dinamiche che attraversano le culture dell’abitare in luoghi esposti a fenomeni di contrazione demografica ormai di lungo corso, a partire dalla disposizione aggregata delle comunità territoriali coinvolte – parzialmente definita dalle tendenze statistiche – e dalle inclinazioni individuali dei soggetti che le popolano, rispetto alla scelta di restare, partire, tornare, o persino arrivare. E quando il “genio” trasla, in senso figurato, da nume tutelare di un sistema locale, a postura di significazione collettiva assegnata a quello stesso spazio, sia esso un paese o una regione storica o un qualsiasi ambito territoriale dotato di confini riconosciuti e condivisi, ecco che gli ingredienti che lo compongono divengono dirimenti per metterne a tema le fragilità o, viceversa, le persistenze. Continuando a seguire la falsariga dell’adagio cinematografico, i fattori che producono e riproducono il senso vitale dei luoghi, e che si oppongono alla loro graduale defezione dalla pratica residenziale alla mera memoria narrativa, sono almeno quattro.

Anzitutto, la fantasia. La sperimentazione di percorsi progettuali creativi in contesti in via di spopolamento sta segnando una stagione indubbiamente feconda, in quest’esordio di millennio, definendo una mappatura spontanea di esperienze di resistenza tra i piccoli centri, lungo tutta la penisola, che è stata solo parzialmente colta dalla geografia delle zone-pilota coinvolte nella Strategia Nazionale Aree Interne [1], inaugurata nel 2013 proprio con l’obiettivo di riposizionare i margini al centro del discorso pubblico sulle asimmetrie della crescita socio-economica (Carrosio, 2019). A farsene promotori sono attori diversi: imprenditori visionari e lungimiranti, associazioni di cittadinanza attiva, istituzioni locali capaci di interpretare il proprio ruolo all’insegna del sostegno di iniziative inedite nei territori amministrati e non solo della custodia immota di musei a cielo aperto. Dalle comunità ospitali [2] ai variegati itinerari del turismo esperienziale, dal recupero di filiere agro-alimentari e artigianali perdute alle cooperative comunitarie per la gestione del welfare rurale [3] (Mori & Sforzi, 2019), dalle soluzioni solidali per l’accoglienza residenziale di popolazioni vulnerabili, come nel caso della pratica del “mutuo inverso” [4], destinato a coorti anziane in uscita dalla segregazione abitativa esperita nei centri urbani di provenienza, fino a forme più o meno intermittenti di cittadinanza, capaci di intercettare la ricerca di stili di vita meno frenetici e più a misura di persona. Tutte espressioni di innovazione sociale (Mulgan et al., 2007), nell’ampia accezione coniata dalla Commissione europea (2013), quale «sviluppo e implementazione di nuove idee (prodotti, servizi, modelli organizzativi), capaci di corrispondere a bisogni sociali emergenti e di creare nuove relazioni o collaborazioni», che siano foriere di benessere individuale e collettivo e in grado di accrescere le possibilità d’azione per le stesse società locali (Murray et al., 2010), ottimizzando l’impiego delle risorse naturali e antropiche, in vista di un equilibrio tra competizione e solidarietà alternativo rispetto alle risposte insoddisfacenti del mercato e delle formule amministrative top-down (Anelli, 2018; Rizzi, 2020).

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Il nuraghe di Armungia

La seconda componente è l’intuizione. L’attitudine reattiva al rischio di evanescenza dei piccoli paesi passa anche attraverso l’affinamento della percezione dei saperi taciti, delle dotazioni dormienti e delle competenze inespresse di cui sono depositari. La (ri)costruzione della qualità sociale dei luoghi e la messa a sistema delle leve della loro attrattività, per chi decida di non lasciarli o di farne la propria destinazione, è definita dalla combinazione tra specificità paesaggistiche, ambientali, culturali, produttive, materiali e immateriali, che li rendono unici e non fungibili, e che consentono loro di conservare un vantaggio comparato, fondato sulla differenziazione, che continua a contraddistinguerli, anche in uno scenario globale sempre più tendente all’isomorfismo e alla standardizzazione (Meloni & Cois, 2020).

Il terzo elemento incorpora l’afflato pratico e operativo delle strategie di contrasto del depauperamento socio-demografico delle comunità locali: la decisione. Sembra velleitario immaginare prospettive di rilancio di economie asfittiche fondate sul solo impulso soggettivo, per quanto animato da aspirazioni assiologiche vocate al bene comune, nella forma delle esternalità positive delle intraprese private anche su scala comunitaria. Occorre che al guizzo geniale una tantum si connetta un piano di medio e lungo periodo, il più possibile partecipato dal basso e il più possibile sostenuto dagli apici amministrativi. Al netto dello storytelling epico sugli innovatori sociali, nessun agente di cambiamento potrebbe plausibilmente dare gambe e respiro a progetti di rigenerazione locale senza disporre dell’accesso a canali deliberativi efficaci, senza «una politica abilitante le condizioni per processi decisionali all’insegna del confronto, aperto, acceso e informato tra attori, centrali e marginali, tra politiche sociali, abitative, dello sviluppo e industriali, tra luoghi e processi high-tech e low-tech, così come tra diversi livelli istituzionali» (Barbera e Parisi, 2018: 315).

Infine, la velocità d’esecuzione. Pur senza attingere al bacino semantico della “rinascita” delle aree interne, ancora troppo incrostato delle vicende incerte connesse alle politiche per lo sviluppo del Meridione nel Secondo dopoguerra, appare evidente che qualunque ipotesi di riattivazione di territori fragili (Carrosio & Osti, 2017) debba fare i conti con la variabile temporale. In primis, perché imprimere un coordinamento sinergico e una sostenibilità sistemica alle costellazioni di micro-progetti, che punteggiano l’effervescenza contemporanea di un numero cospicuo di piccoli paesi, è richiesto dal quadro normativo degli strumenti di programmazione europea e nazionale per il sostegno dello sviluppo locale, dai diversi cicli del Programma Leader UE [5] alle forme di finanziamento a termine dell’imprenditorialità diffusa su scala regionale. Ma, su un fronte ancora più pressante, perché la longue durée del fenomeno dello spopolamento nelle aree di margine, lungo tutto il Novecento, ha subito un’accelerazione documentata al volgere dell’ultimo secolo, fino a prospettare il suo compimento terminale nell’estinzione annunciata di molti centri minori nel futuro prossimo venturo. Nel caso della Sardegna, è fin troppo nota la lista dei 31 comuni, tutti al di sotto dei 1000 abitanti, per i quali la rottura della continuità della relazione di pertinenza tra popolazione residente e territorio è stata preconizzata dalle proiezioni demografiche nell’arco di qualche decennio, a carte immutate (Bottazzi & Puggioni, 2013) [6]. Mutare le carte, ecco il nodo critico della posta in gioco. E fare presto, anche (Cois, 2016; 2020a).

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Armungia, nel cuore del Gerrei

Il comune di Armungia, situato nel cuore della regione storica del Gerrei, in provincia di Cagliari, si colloca per ragioni alfabetico-toponomastiche nella parte alta di questo elenco di comuni, con i suoi 450 abitanti alle ultime rilevazioni. Quale centro focale del Festival dei Piccoli Paesi [7], che dal 2016 costituisce un laboratorio di riflessione sulle più diverse esperienze nazionali e internazionali di lotta allo spopolamento e di condivisione di strategie di rinascita in centri demograficamente friabili, Armungia è stata una delle prime comunità locali a mettere in discussione l’ineluttabilità di quella lista dei cadenti, inserendo la sua voce in un più ampio dibattito sul senso stesso da attribuire al concetto di “estinzione” dei luoghi, su base esclusivamente residenziale. Proprio in quella che fu la casa di Emilio e Joyce Lussu, oggi abitata dalla terza generazione rappresentata da Tommaso e Barbara, nell’estate del 2019 si è rinnovato per il quarto anno consecutivo questo dialogo di resistenza, nel quale ha trovato spazio il contributo ripreso in queste pagine.

xsave-the-date-mostra-riabitare-litalia-500x350-png-pagespeed-ic-3s9cupqlacL’occasione cognitiva è stata offerta dalla presentazione di un ricco volume collettaneo, intitolato Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (De Rossi, 2018), nel quale si compone, da più angolazioni disciplinari, uno sguardo disincantato ma al contempo consapevole sui fermenti diffusi in una versione della penisola di minoranza narrativa ma di pregnante rilevanza sostantiva, poiché accorpa un quarto della popolazione nazionale e ben i due terzi della sua superficie territoriale: quella delle aree interne, appunto, del Paese di paesi medi, piccoli e minuscoli, che si muovono da sé, talvolta in ordine sparso, ma in alcuni casi, sempre meno radi, lungo tentativi sistemici. Paesi che finora hanno sofferto maggiormente gli effetti centripeti della globalizzazione verso i centri urbani e metropolitani, ma che hanno anche spesso saputo generare esempi ben più concreti che romantici di auto-organizzazione su base comunitaria locale. Un’Italia difficilmente liquidabile come parte residuale del corpo del Paese, secondo una lettura ormai euristicamente stantia, e definita non dalla mera sommatoria di vuoti conteggiati secondo la rigida algebra delle anagrafi comunali, ma da spazi di addensamento di energie individuali e collettive che percorrono i luoghi anche oltre i margini e le cifre della residenzialità permanente. Un insieme mobile di vicende territoriali significative, di matrice prevalentemente rurale, cui questo libro offre una possibilità di convergenza d’intenti, un quadro interpretativo più coordinato e, soprattutto, una raccolta di strumenti applicativi per progettare politiche pubbliche di effettiva promozione dello sviluppo locale. Di questa fenomenologia di buone pratiche, il caso di Armungia ha costituito finora una buona metonimia, rivelandosi, esattamente come il libro, un contenitore di moltitudini, quanto a storie minime di persistenza attiva incastonate entro una Storia, a lungo dominante, che le dava inevitabilmente per perdenti.

poster-festivalIl Luogo: biografie territoriali in movimento

Non è una fotografia ad alta risoluzione, quella scattata dal complesso di contributi confluiti nel volume a cura di Antonio De Rossi. L’intento esplicitamente dichiarato, infatti, è quello di affrancarsi dalla pretesa didascalica di restituire un’immagine dell’avampaese fissata in un istante puntuale, ma anche dal mero esercizio di aggiornamento alla contemporaneità di metafore anatomiche che vivisezionerebbero il corpo nazionale, dislocando l’ossatura interna dalla più florida polpa altamente urbanizzata (Bevilacqua, 2018). Piuttosto, a proporsi è una sorta di streaming in divenire delle Italie in contrazione (Lanzani & Curci, 2018), una geografia delle transizioni fatta di flussi continui tra località rurali, città medie (Garavaglia, 2017), aree a geometria variabile di avanzamento economico, dove si dipanano entrambe le direttrici di un doppio movimento: di infragilimento, certamente, delle comunità territoriali più invecchiate, a seguito dell’emorragia delle coorti più giovani e della raggiunta irrisorietà del tasso di natalità, oltre che della coeva ristrutturazione al ribasso del welfare pubblico nelle aree decentrate; ma anche di ri-insediamento e ri-territorializzazione di attività e figure almeno parzialmente rinnovate, come nel caso dell’eterogeneo emergere di “nuovi” contadini, analizzato dal ruralista olandese Jan van Der Ploeg (2008). Questi ultimi sono contraddistinti da una robusta vocazione imprenditoriale in filiere agro-alimentari di qualità, capaci di intercettare bisogni di consumo di prodotti “tipici”, “buoni”, “puliti” e “giusti” e, a questo fine, ripristinate non come simulacri o feticci di un passato remoto pre-industriale, ma come moderne nervature di una forma specifica di mercato a elevata sostenibilità ambientale e sociale, sufficientemente competitiva alla scala di prossimità rispetto ai grandi imperi multinazionali dell’estrattivismo agricolo. Non si tratta che di una delle espressioni di rigenerazione in atto in territori interni poco inclini ad attendere docilmente l’auto-inverarsi delle proiezioni fatali che li connoterebbero in scadenza, di qui a pochi lustri, pur con tutte le asperità che gli atti di resistenza e di radicamento, in direzione ostinata e contraria, non possono eludere.

E se le biografie dei luoghi appaiono cangianti, anche gli strumenti analitici per rappresentarle devono dimostrarsi capaci di coglierne con precisione la mobilità. Gli inediti atlanti delle piccole Italie (Borghi, 2017) raccontate dal volume, sono l’esito di una lettura multilivello che, richiamando l’ormai classico paradigma articolato dal sociologo economico Angelo Pichierri (2007), le configurano come sistemi locali territoriali, ossia al contempo come spazi sociografici definiti da confini e da margini riconoscibili; come luoghi dotati di un senso condiviso e non permutabile, associato alle peculiari coordinate storiche, geografiche, culturali, economiche e sociali che ne delineano l’inconfondibile fisionomia; come l’espressione sinottica e collettiva di una molteplicità di attori, che ne fruiscono a titolo permanente o transitorio. Proprio quest’ultima cifra interpretativa delle comunità locali, come campi di interazione tra aspettative e pratiche d’uso diversamente orientate e declinate secondo scansioni temporali asincroniche, consente di rimettere in discussione lo stesso canone dello spopolamento, inteso in senso strettamente residenziale, come parametro esclusivo di decadenza vitale dei luoghi. Ad assumere rilevanza è la tracciatura delle differenti popolazioni che restano, che ritornano, che arrivano anche nei paesi classificati come ad alto rischio di vulnerabilità per l’anagrafe, il cui dinamismo non si esaurisce, quindi, nell’iterazione della routine del nucleo residente in senso stretto, ma si alimenta di flussi, di frequenze ricorrenti, di esplorazioni saltuarie o regolari, e perfino di occasionali attraversamenti (Cois, 2016).

L’eclissi dei territori demograficamente assottigliati non corrisponde, dunque, a un irresistibile automatismo, nella misura in cui essi continuino a proporsi quali mete attrattive di presenze umane ulteriori, solo parzialmente coincidenti sia con le consolidate transumanze lungo le rotte del turismo estivo stagionale, che con gli itinerari “esperienziali” sempre meno di nicchia anche nei circuiti vacanzieri, plasmati sul corredo discorsivo della specificità, unicità, tipicità e autenticità dei luoghi (Cois, 2020b). A mobilitarsi possono essere anche categorie ibride, sospese tra il trasferimento definitivo e l’addomesticamento di spazi comunitari d’elezione: dai rural users a cadenza regolare (Meloni, 2015), alle eterogenee forme sperimentali di cittadinanza a tempo determinato entro circuiti di reciprocità positiva (come nel caso delle residenze d’artista [8] o dell’“adozione”, su base semestrale o annuale, di studenti internazionali e ricercatori fuori sede), fino alla ricerca di opportunità residenziali definitive improntate al neo-popolamento di origine migratoria (Colucci, 2018; Membretti & Ravazzoli, 2018), o alla scelta di uno stile di vita avulso da quello metropolitano (Cersosimo D., 2012).

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Casa Lussu ad Amungia

Il Genio: biografie creative individuali e comunitarie

La permeabilità degli scenari territoriali di margine è testata non solo dall’intensità dei flussi di attraversamento, da parte di gruppi umani distribuiti tra le classiche dicotomie funzionali dell’“abitare” e del “visitare”, ma è anche rinforzata dalla loro capacità di fare attecchire idee imprenditoriali ed esperienze produttive di beni e servizi a lunga gittata, oltre il perimetro circoscritto dai limiti amministrativi dei singoli comuni, entro sistemi reticolari diffusi su scala quantomeno regionale. In questa prospettiva, a stagliarsi sullo sfondo sono i profili degli innovatori sociali, che siano promotori individuali di iniziative originali di palingenesi economica o porzioni comunitarie orientate a forme di partecipazione sociale proattiva per il benessere collettivo. Entrambe le tipologie sono ben evocate dal mito greco di Prometeo (Barbera & Parisi, 2019), il titano che fu sprofondato in catene nel Tartaro, al centro della terra, come punizione per la colpa di cui si era macchiato: il furto del fuoco agli dèi, per farne dono alle imperfette creature umane. Il suo gesto di sfida e ribellione alle imposizioni immutabili dell’Autorità simboleggia l’archetipo di un sapere sciolto dai vincoli dell’ideologia e dalle rigide pastoie della tradizione, orientato a un obiettivo di progresso pragmatico, piuttosto che all’affidamento cieco a forze esogene: l’etica del fare, rispetto al wishful thinking.

Discendendo dal mito alla prassi, le innumerevoli biografie creative che hanno innescato esperienze di successo non estemporanee nei territori di pertinenza, e che sono state raccolte da una fiorente messe di ricerche recenti sia sulle storie d’impresa che sulle vicende del welfare di comunità, tendono a ridimensionare la portata eroica della narrazione solitaria, per sollecitare piuttosto un’efficace collaborazione tra l’impulso della capacità d’immaginazione privata, la regolazione da parte delle istituzioni amministrative locali, il sostegno finanziario delle fondazioni bancarie e l’adeguamento dei contesti normativi che presiedono alle policies per la promozione dello sviluppo (Petruzzella et al., 2017)

Il denominatore comune, nell’aneddotica degli studi di caso, è rintracciabile nella messa a tema di due questioni principali, che risultano direttamente correlate all’impatto dell’innovazione sociale. La prima è la questione del posizionamento, ossia la restituzione di coordinate inclusive alle risorse umane che gravitano nel territorio e che, soprattutto laddove si tratti di forze più giovani e a discreto investimento di capitale umano, necessitano di incentivi robusti per stabilire se si sia allocati al proprio posto, oppure se l’incertezza della propria condizione socio-economica, attuale e presumibilmente futura, riservi uno status da fuori-luogo. La metrica del proprio “esserci”, nell’area di origine, è misurata dall’assunzione diretta di responsabilità e presa in cura non solo della propria sussistenza, ma anche del contributo che le proprie competenze potrebbero imprimere allo sviluppo dell’intera comunità. Che si sia innovatori sociali in prima persona, o fruitori dei benefici derivanti dalla declinazione pratica di una buona idea nel tessuto socio-economico di appartenenza, servono comunque motivazioni convincenti per risolvere i dilemmi decisionali tra la restanza (Teti, 2011), il nomadismo civile verso aspirazioni migliori dislocate altrove, o la prospettiva del ritorno.

La seconda questione è quella della cittadinanza sociale, rispetto a cui si definiscono le condizioni di accessibilità alle opportunità offerte dal territorio in termini di autonomia economica, benessere sociale, qualità della vita, disponibilità di servizi primari (Carrosio & Faccini, 2018). L’abitabilità dei luoghi assume la valenza di un obiettivo irrinunciabile di qualsiasi strategia innovativa di sviluppo, non secondo modelli di mimesi dell’iper-connettività e della frenesia metropolitana, ma quanto alla possibilità di accesso e godimento degli stessi diritti alla mobilità, alle cure sanitarie, all’informazione, all’istruzione di base e d’eccellenza. Si articola, in questo senso, l’interrogativo sulla direzione causale dello spopolamento delle aree interne, laddove essa sia colta più efficacemente dall’espressione “territorio senza attori” oppure “attori senza territorio” (Tanca, 2016). «Oltre che come esito, effetto di un agire (che chiameremo “territorializzazione”), il territorio è anche condizione: riveste cioè un ruolo attivo nella vita delle persone nella misura in cui fonda delle opportunità, consentendo loro di fare scelte e di mettere in atto o di programmare azioni future» (ibidem: 57). È in questo senso che, a fronte delle regressioni o delle carenze del welfare pubblico e del mercato, la compressione micro-fondata delle capabilities dei cittadini si traduce in tendenze aggregate di potenziale o effettiva frattura demografica. In altri termini, i cittadini si fanno asettiche popolazioni, spinte sui tracciati delle curve statistiche decrescenti.

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Pietre sonore, di Pinuccio Sciola, Parco di Monte Claro, Cagliari

Pietre sonore. Le reti territoriali come spartiti in esecuzione

Infine, riannodando il filo della riflessione al titolo del volume da cui ha preso le mosse, cosa significa dunque “Riabitare l’Italia?”. Tutto sta nel prefisso. È un proposito di insediamento rinnovato, un “abitare di nuovo” luoghi ben noti, ma capaci di ripensarsi e di acquisire significazioni ancora una volta attraenti per chi resta e per chi non va via. Ma è anche un “abitare nuovo”, almeno parzialmente inedito, consapevole, non più ascritto ma acquisito, esito di una scelta ponderata, per chi arrivi da oltre i margini, o decida di ritornare.

Da Armungia in poi, la trama dei piccoli paesi e delle innumerevoli periferie che continuano ad allestire la forma portante della penisola, sembra conoscere tendenze d’ispessimento, governato da nodi e connessioni reticolari che ne rendono meno singolari e più corali le voci. Come se i territori di margine dovessero la propria solidità materiale alla pietra, ma ciascuno di essi, se e quando attraversato da popolazioni, idee produttive, dispositivi di rappresentazione e proiezione nel futuro, potesse riecheggiare, dialogare, rispondere a domande e bisogni, comunicare, generare una narrazione condivisa, superando il silenzio immoto che sarebbe, appunto, proprio delle pietre, e facendole cantare, come gli strumenti lapidei del celebre artista sardo Pinuccio Sciola, per celebrare se stessi e il fatto di (re)stare al mondo, non “perché c’è posto” (Satta, 1977), ma in qualità di posti che sono anch’essi mondi, a pieno titolo.

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Teatro Andromeda di Santo Stefano Quisquina

Dal nuraghe di Armungia, fulcro del paese in pieno centro abitato, il linguaggio delle pietre attraversa il mare e raggiunge l’altra grande isola italiana, la Sicilia, raccontando una storia simile di persistenza e riabitazione dei luoghi di confine. L’ho appresa in un’altra occasione di dialogo mediterraneo intorno allo spopolamento, qualche mese dopo il Festival dei piccoli paesi, ed è stato inevitabile riportarne qui, in chiusura, le immediate risonanze.

Circa trent’anni fa un pastore di Santo Stefano Quisquina, in provincia di Agrigento, mentre portava il suo gregge in altura, sui Monti Sicani, restò sorpreso dall’incantamento che le sue pecore sembravano subire, una volta raggiunta la cima, bloccandosi immobili come statuine in un presepe fuori stagione, a guardare l’Africa. Decise che tutta quella bellezza spalancata al cielo, ma faticosa alla terra, nei suoi mille metri scoscesi sopra il livello del mare, doveva diventare pubblica, meritava di trasformarsi in un magnete, perché qualunque essere vivente, specie umana compresa, potesse godere della stessa fascinazione ipnotica ovina.

Quel pastore, di nome Lorenzo Reina, era anche uno scultore, e forse non conosceva la letteratura classica sul Genius Loci, forse sì. Poco importava. In quel punto costruì un teatro, pietra dopo pietra, incastonandolo nell’epicentro paesaggistico di quelle vibrazioni ammalianti. La conca bianca e il suo intorno di pietra lavica erano lo specchio fedele del cielo e della terra. I blocchi di pietra, la perfetta disposizione degli astri di una costellazione. Ma anche delle pecore, incantate per sempre.

Oggi quel posto continua a esistere come un miracolo di creatività non istituzionale, come un’archiscultura fatta di pietre, imponderabile perfezione ambientale e potenzialità antropica priva di superbia: il Teatro Andromeda.

 Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
 Note

[1] La Strategia Nazionale per le Aree Interne è stata promossa a partire dal 2013 dal Ministero della Coesione Territoriale, all’epoca presieduto da Fabrizio Barca, e dai Ministeri responsabili per il coordinamento dei fondi comunitari e per i servizi essenziali, d’intesa con le Regioni e in cooperazione con ANCI e UPI. Coerentemente con la priorità accordata all’investimento sulle aree interne nei documenti di progettazione dei fondi europei per il periodo 2014-2020, il programma si è declinato attraverso la realizzazione di progetti di sviluppo localizzati ad hoc in aree specifiche in tutte le regioni italiane, a partire da una serie di aree pilota attentamente selezionate e monitorate. In Sardegna la prima area prototipo di sperimentazione della SNAI è stata individuata nell’Alta Marmilla. Una seconda area isolana, coincidente con il territorio del Gennargentu-Mandrolisai, è stata in seguito inclusa nel Progetto a seguito del buon esito di un tavolo di confronto nazionale inaugurato dalla Regione Sardegna.
[2] Si tratta di un progetto promosso dall’Associazione “Borghi Autentici d’Italia” e finanziato dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, che coinvolge oggi 80 comuni in tutta la penisola vocati ad accogliere i turisti come cittadini temporanei, per migliorare la loro effettiva conoscenza della cosiddetta “Italia minore”. http://www.comunitaospitali.it/home
[3] Le cooperative di comunità sono un modello di innovazione sociale dove i cittadini sono produttori e fruitori di beni e servizi, nell’ambito di una messa a sistema delle attività di singoli privati, imprese, associazioni e istituzioni che risponde a esigenze plurime di mutualità.
[4] È uno strumento ispirato dall’anglosassone “home equity loan”, in base al quale il proprietario di una casa può avvalersene quale garanzia ad un istituto bancario in cambio di un prestito, che potrà essere rimborsato con gli interessi dagli eventuali eredi. Nel caso di anziani soli, proprietari di abitazioni urbane sovradimensionate, questa pratica consentirebbe di investire il ricavato nella riqualificazione di una residenza più adeguata in una comunità locale già dimostratasi accogliente, anche in termini di servizi, per la stessa categoria di utenti (Barbera, 2015).
[5] Nato nel 1989 come iniziativa Comunitaria, il Programma LEADER, acronimo dal francese Liaison entre actions de développement de l’économie rurale (Collegamento fra azioni di sviluppo dell’economia rurale) è uno degli Assi prioritari delle politiche comunitarie di sviluppo rurale.
[6] Il Rapporto di ricerca “Comuni in estinzione. Gli scenari dello spopolamento in Sardegna”, curato da G. Bottazzi e G. Puggioni e pubblicato nel 2013, è stato commissionato all’Università di Cagliari dal Centro regionale di programmazione della Regione Autonoma della Sardegna, nell’ambito del Progetto Sistema informativo IDMS (Indice di Deprivazione Multipla della Sardegna), Programma regionale di sviluppo 2010-2014. Sulla base della formulazione di un indicatore composito dello Stato di Malessere Demografico, il Rapporto ha individuato un bacino territoriale particolarmente colpito da tendenze erosive gravi o gravissime, corrispondente a oltre un quarto della superficie isolana e a circa l’8,5% della popolazione complessiva. Più in generale, l’immagine di un’isola-ciambella, tanto densa in prossimità dei suoi confini costieri quanto scarsamente presidiata nel suo corpo centrale, si intesse delle vicende di tutti i 228 comuni su 377 (circa il 60%) in calo demografico tra il 1951 e il 2011, dei quali oltre un terzo esposti a una riduzione di oltre il 40% dei propri abitanti.
[7] Il Festival dei Piccoli PaesiUn caffè ad Armungia, giunto alla sua quarta edizione, si svolge dal 2016 nel paese natale di Emilio Lussu, in provincia di Cagliari, e prevede un ciclo di giornate distribuite tra la primavera e l’estate caratterizzate sia dalla riflessione in forma convegnistica sui temi della resistenza allo spopolamento e del confronto tra esperienze nazionali di rigenerazione, sia dall’intrattenimento culturale tramite laboratori di botanica, cucina, archeologia, storia dell’alimentazione e tessitura.
[8] Il progetto, che trova i suoi prodromi già negli anni Sessanta, indica una pratica di ospitalità o concessione temporanea di spazi privati diretta ad artisti, da parte di comunità che possano giovarsi della loro creatività. Per alcuni utili riferimenti, si veda: http://www.artribune.com/2013/01/litalia-delle-residenze-dartista-vol-i/
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Ester Cois, PhD in Ricerca Sociale Comparata, è ricercatrice in Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso i Dipartimenti di Scienze Politiche e Sociali e Architettura dell’Università di Cagliari e managing editor della Rivista Sociologica. International Journal for Sociological Debate. I suoi interessi si focalizzano sui processi di costruzione delle disuguaglianze sociali nell’uso e nella regolazione dello spazio urbano e rurale.

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